MILANO – Né il caffè espresso italiano tradizionale promosso dal Consorzio di tutela guidato dal Conte Caballini di Sassoferrato, né al caffè napoletano spinto dalla Regione Campania, hanno superato il vaglio del comitato internazionale governativo. Entrambi i dossier dovranno attendere il 2023 per riproporsi all’Unesco. Intanto però, la discussione scaturita da questa doppia candidatura non si è spenta con l’interruzione dell’iter. Anzi. Leggiamo cosa si è scritto sulla vicenda che vede contrapporsi nord e sud Italia: l’imprenditore Giuseppe Caprotti (figlio di Bernardo Caprotti, patron della Grande Distribuzione Organizzata, cofondatore di Esselunga S.p.A.) su giuseppecaprotti.it riporta l’articolo uscito su Il Mattino di Luca Pignataro. Un’opinione molto forte che porta ulteriore divisione all’interno di un florido settore come la torrefazione italiana: di tutto lo Stivale, senza distinzioni.
Nord e Sud divisi dalla tazzina
Luciano Pignataro. L’articolo sul Mattino del 25 marzo 2021.
Non ci sarà alcuna candidatura italiana sul caffè all’Unesco. E’ questa la decisione assunta ieri dalla commissione valutativa presieduta da Franco Bernabè in rappresentanza del ministero degli Esteri. In presenza di due proposte, una sull’espresso italiano e una sulla tradizione napoletana, si è salomonicamente deciso di rinviare di un anno ogni iniziativa sul tema tazzine e cialde invitando le due parti a mettersi d’accordo in modo tale che il nostro Paese possa avanzare una sola candidatura sul tema.
Una soluzione all’italiana insomma, non solo perché ineccepibile dal punto di vista burocratico anche se contraria ad ogni logica storica, ma perché frutto di quel particolare gioco di interdizione, tipico, appunto, delle squadre che praticavano il catenaccio all’italiana in cui lo scopo non era giocare meglio dell’avversario ma impedirgli di giocare.
Già, perché, alla fine, la doppia candidatura non è stata altro che una mossa delle grandi, ricchissime e potenti, torrefazioni del Nord per impedire che passasse la proposta, formalizzata nel dicembre 2019, di conferire il riconoscimento Unesco come patrimonio immateriale all’arte del caffè napoletano.
Questa volta, insomma, i ricchi industriali del Nord non si sono fatti sorprendere come è successo nel 2017 con la pizza
Anche allora qualche mulino sosteneva che la pizza era italiana e che quella napoletana era una sorta di sottozona di quella nazionale, una pizza regionale. Una tesi sostenuta da associazioni e critici gastrofighetti spesso sponsorizzati da chi aveva inventato questa favoletta a fini commerciali, alla quale come appendice c’era da aggiungere che la pizza napoletana era fatta male perché non era una focaccia. Il riconoscimento Unesco all’arte del Pizzaiolo Napoletano fu una mazzata culturale incredibile perché sanciva l’origine della pizza a Napoli e ne faceva un prodotto identitario di valenza universale.
Stavolta la storia si è ripetuta con un finale diverso
Quello che sembra un pareggio in realtà è una vittoria delle torrefazioni del Nord che hanno impedito alla tradizione napoletana di poter competere per ottenere il riconoscimento Unesco senza aver alcuna possibilità di poter concorrere. Non per un motivo culturale o storico, e neanche per campanilismo: il fatto è che si trattava di una operazione puramente commerciale, promossa sostanzialmente da un gruppo di sigle dentro le quali spesso troviamo società private impegnate nella torrefazione o nella costruzione di macchinari.
Sono quelle che il primo marzo hanno lanciato a Patuanelli l’appello per iscrivere il rito del caffè espresso italiano a patrimonio immateriale dell’Umanità: Consorzio di tutela del caffè espresso italiano tradizionale, Comitato italiano del caffè di Unione italiana food, Iei – Istituto espresso italiano, di Fipe-Confcommercio, Gruppo italiano torrefattori caffè, Associazione caffè Trieste e Consorzio torrefattori delle Tre Venezie.
Il ministro dell’Agricoltura Patuanelli, triestino, ha dunque fatto si che dalla commissione del proprio ministero uscissero entrambe le proposte e quella sul cavallo lipizzano da inviare alla commissione del ministero degli Esteri presieduta da Bernabè che poi le ha bocciate non potendo fare altro e come ben sapeva lo stesso Patuanelli nel formularle. Fanno parte di questa commissione anche i rappresentanti dei ministeri della Transizione Ecologica, allo Sviluppo, alla Istruzione e ai Beni Culturali.
Il punto è che l’Unesco non sostiene prodotti, ma patrimoni culturali
Non la pizza, per tornare a noi, bensì all’arte del pizzaiolo. Ed è dunque impossibile pensare che avrebbe dato semaforo verde ad una proposta avanzata dai produttori di caffè italiani del Nord, ricchi di soldi ma che dal punto di vista storico hanno potuto esibire solo i loro macchinari e poco più.
Di contro la proposta napoletana era stata presentata da un ente pubblico, la Regione Campania, e sostenuto da un lavoro scientifico interdisciplinare di più università coordinato dal professore Marino Niola con uno studio che attesta quello che tutti sanno: che il caffè, come la pizza, è parte integrante della comunità napoletana.
“La cosa incredibile -dice il consigliere regionale Francesco Borrelli che presiede l’Osservatorio dei riconoscimenti Unesco in Campania, la regione che ne può vantare di più di ogni altra al Mondo – è che si è ripetuta la storia della pizza. Prima una campagna denigratoria, poi la tesi che il caffè napoletano è solo una declinazione regionale della tradizione italiana, ossia l’esatto contrario della realtà. Ma ho l’impressione che stavolta siano entrati in campo interessi colossali per impedire che la cosa andasse in porto”.
Anche il professore Marino Niola ha un giudizio duro: “la decisione della commissione è cieca oltre che poco trasparente. Scriva proprio così: poco trasparente”
Insomma stavolta il catenaccio italiano ha funzionato: il risultato finale è zero a zero, esattamente quello a cui puntava l’industria della torrefazione del Nord, impedire che Napoli potesse ottenere un altro riconoscimento storicamente accertato. Alla fine nessun ministero ha sostenuto la causa napoletana, neanche quello alla Transizione Ecologica come si chiama oggi di Roberto Cingolani, ex componente del Consiglio di amministrazione della illyaffè.
E l’unico ministero presieduto da un meridionale, quello degli Esteri di Luigi Di Maio, alla fine ha presentato le due candidature: il Tocati e l’allevamento del cavallo Lipizzano.
La prima se non vi dice nulla non vi spaventate, potete colmare la grave lacuna su Google.
Del secondo vi diremo che farà sicuramente contento il ministro Patuanelli che l’aveva avanzata dal suo ministero perché si tratta di un cavallo asburgico selezionato a Lipizza, vicino la sua Trieste.
Il neo ministro mette dunque a segno un doppio colpo: impedire che il caffè sia legato a Napoli come la pizza e mettere una bella bandierina campanilistica come nuovo atto del suo ministero.
Una bandierina a Cinque Stelle
Oggi aggiungo queste due considerazioni: la prima è che spesso il nuovo, il sedicente nuovo, è peggio del vecchio e si presenta con fare moralistico solo per occupare il posto di chi lo ha preceduto.
La seconda riguarda le aziende di torrefazione di Napoli e dintorni. Se la battaglia sulla pizza è stata vinta è perché questo mondo, tenuto insieme a fatica da Alfonso Pecoraro Scanio, si è comunque unito in questa battaglia, chi prima e chi dopo, producendo uno straordinario sforzo propagandistico in cui la Pizza ha trainato l’Unesco e non viceversa. Perché tutti conoscono la pizza e molti di meno l’Unesco. Anche catene come Rossopomodoro e aziende come Caputo ci hanno creduto fortemente grazie ad uno sguardo lungo che li ha portati a capire che un grande riconoscimento culturale avrebbe comportato anche vantaggi commerciali.
Ma le torrefazioni del caffè di Napoli e dintorni? Nulla di nulla di nulla nonostante le loro dimensioni colossali che gli consentirebbe tranquillamente di mettere almeno centomila euro e arrivare a oltre un milione per creare una Fondazione del Caffè Napoletano, con tanto di sede, museo e direttore.
Certo, le torrefazioni del Nord hanno giocato sporco, ma hanno fatto il loro lavoro per tutelare i loro interessi
L’industria, fiorente e molto dinamica sul versante pubblicitario, del caffè napoletano invece è strutturalmente incapace di fare squadra, forse perché per la maggior parte ancora impegnata a combattere bar per bar nei vicoli dei Quartieri Spagnoli invece di guardare al Mondo ed avere una visione di territorio delegando il tutto alla Regione che ben si è mossa stavolta grazie alla sensibilità di alcuni suoi funzionari.
Insomma, sulla pizza c’erano due squadre in campo. Sul caffè solo una, e l’arbitro, il ministro Patuanelli ha potuto fare la sua marchetta di campanile.
Questa storia insegnerà qualcosa al viscerale, indomito, infinito, assoluto individualismo napoletano, il popolo che si crede più furbo di tutti e che viene fatto fesso più spesso di tutti perchè non sa giocare di squadra?
Luciano Pignataro