MILANO – Spesso in questo periodo il problema della mancanza del personale emerge in diverse testimonianze: la discussione è aperta e risulta quasi polarizzata, con da un lato i titolari che si lamentano di un costo del lavoro eccessivamente elevato e della carenza di risorse disposte a mettersi in gioco e dall’altro i dipendenti, che invece presentano delle esigenze ben precise.
Su questo fenomeno, è intervenuta una professionista che sicuramente non manca di esperienza: Niki di Landa, campionessa italiana di cezve ibrik e barista specializzata da poco rientrata dall’estero in Italia.
Niki di Landa, il punto di vista di chi è formato: come interpreta il fenomeno del talent shortage?
“Semplicemente direi che la domanda e l’offerta non si matchano: è vero che non si trova personale formato, però lo è anche il fatto che bisogna chiedersi quanti oggi servono specialty in Italia e da quanto tempo lo fanno.
Ci sono tanti baristi in giro, ma si dovrebbe prenderli a bottega e formarli.
Dall’altra parte, non si può più pensare di assumere un professionista che ha avuto esperienza all’estero e retribuirlo con un inquadramento di quinto livello nel CCNL che corrisponde a 1200 euro al mese.
Chi ha lavorato in realtà importanti e fuori dai confini nazionali è una figura professionale come lo sono altre ed è giusto pagarlo adeguatamente, perché anche il barista formato deve godere della stessa considerazione di un avvocato o un medico.
Sento tanto parlare da parte dei colleghi della dignità di cui il barista dovrebbe godere: ma se siamo noi per primi a non valorizzarlo da operatori e da gestori, non cambierà mai la percezione che si ha di questa figura. Cominciamo a capire che le persone sono risorse, non numeri.
Sennò basterebbe qualsiasi individuo per premere un tasto e preparare il caffè: ma a quel punto si deve accettare di avere un turn over altissimo.
E a chi fa bene tutto questo? Il consumatore certo non lo gradisce, il gestore stesso ne soffre perché si perde tempo ad inserire continuamente nuove risorse e gli stessi dipendenti sono frustrati di non trovarsi in un ambiente che li stimola e li aiuta a crescere.”
Quindi il personale formato dov’è?
“Se ne va dall’Italia e devo dire la verità, fa bene: all’estero chiaramente non è vero che ci stendono i tappeti rossi, ma c’è qualcosa che manca qua da noi, cioè la visione e l’investimento a lungo termine sulle risorse sia da parte del gestore sia da parte degli stessi dipendenti.
È bene specificare che ciò che spinge ad andare fuori non è certo la differenza di 200 euro in più in busta paga, ma la meritocrazia.
E poi c’è un altro aspetto importante da sottolineare: tante volte, i proprietari dei locali non sono passati a loro volta dall’essere dipendenti nei bar e quindi non ne conoscono davvero le dinamiche. Forse sono persone con a disposizione delle risorse economiche o con degli investitori alle spalle, che però non hanno una profonda consapevolezza del mercato in cui si muoveranno.
Invece il bar è un’impresa fatta di risorse materiali, umane.
Bisognerebbe fare un passo indietro e tornare sui libri per capire come funziona un’impresa di ristorazione.
L’abolizione delle licenze ha causato il fenomeno dell’improvvisazione da parte di tanti che hanno aperto senza avere il know-how necessario per gestire un locale dal punto di vista economico e dello stesso personale.
Il problema resta quindi ancora una volta la meritocrazia”.
Niki Di Landa, e lei invece che è tornata?
“Sono tornata per condizioni di vita e di lavoro, alla ricerca del famoso work life balance, che da una parte è un’utopia che tutti noi inseguiamo.
Ricordiamoci che le persone non sono soltanto il loro mestiere, vanno oltre la professione che svolgono e questa individualità andrebbe premiata sul posto di lavoro, all’interno di ambienti che siano competitivi – perché sono più stimolanti – ma che garantiscano delle condizioni minime.
Giusta retribuzione, pause, un cambio di turno, il rispetto dei termini del contratto: non sono richieste incredibili. Di contratti poi ce ne sono diversi, adeguati alle tante figure dell’hospitality, per cui ad esempio, ad un professionista già esperto non dovrebbe esser più pensabile proporre una forma contrattuale di 4 mesi, uno dei quali in prova.
Bisogna capire chi si ha di fronte per investire efficacemente su quella risorsa: nell’horeca non tutte le posizioni sono uguali ed è il momento di fare la giusta distinzione. “
Niki di Landa: “Vorrei invece porre una domanda al contrario, ai titolari”
“È possibile che noi dipendenti, noi ragazzi che lavoriamo, siamo tutti dei fannulloni, incapaci, scansafatiche, esigiamo qualcosa di impossibile? I manager, gli imprenditori, che continuano a cambiare di continuo il personale, non saranno anche loro incapaci di selezionare correttamente?
Facendo autocritica: magari io posso esser inadatta a quel ruolo, ma è possibile che lo sarà anche chi verrà assunto dopo di me e così poi il terzo e il quarto che verrà sostituito nell’arco di pochi mesi?
La riflessione bisogna che sia fatta anche dall’altra parte.
I titoli delle notizie, puntualmente dopo Pasqua o con l’inizio della stagione estiva, sono sempre allarmanti sul tema, ma spesso non si parla delle condizioni di chi lavora per 12-13-14 ore, entra all’alba ed esce la notte.
Certo noi lo facciamo per passione, ma questo non può diventare un alibi per avvallare lo sfruttamento. Ho viaggiato, ho acquistato il mio caffè, mi sono formata, ho sperimento ricette, ho partecipato alle competizioni, perché mi piace questo mondo, ma tutto questo impegno, come viene riconosciuto?”.
In effetti il personale qualificato o va all’estero oppure diventa gestore
“Questo passaggio verso l’alto da una parte è utile, perché chi ha lavorato dietro al bancone ha per lo meno già delle skill che vanno al di là del preparare il caffè, come il saper comunicare con il cliente, fare up selling.
Una persona così in realtà sarebbe una risorsa per il locale anche da dipendente, perché diventa il primo ambassador dell’azienda e ne condivide la visione: ma quanti sposano l’idea della caffetteria specialty per cui lavorano o nella ristorazione in generale? Pochissimi.
Detto questo, non basta aprire un locale per farlo funzionare. Io investirei come titolare nella formazione del personale, nelle attività di mentoring. Un’esigenza che di solito oggi molti gestori ignorano perché sono presi dal flusso da gestire, dal tempo che manca, da diverse giustificazioni.
Ma io dico: lo spazio, il momento, si crea.
Altrimenti si può facilmente intuire che il personale non è un elemento considerato essenziale, da coltivare, da far restare.
Quando dopo qualche anno che si è cresciuti insieme, il mio dipendente riceve un’offerta migliore e mi comunica di volersi dimettere, se da titolare rispondo soltanto “va bene”, senza fare una controfferta, c’è un problema: significa che non ho mai creduto in quella persona.
Invece, garantendo più stimoli o anche soltanto dando una pacca sulla spalla a fine giornata, le condizioni cambiano. A volte basterebbe trasmettere il messaggio: avete fatto un buon lavoro anche soltanto portando a termine il turno.
Le persone certo pensano allo stipendio, ma prendere la stessa cifra in un ambiente che ti valorizza, che ti coinvolge in un progetto, che non ti fa sentire un numero, fa la differenza.
Non chiediamo tanto.”
Niki di Landa: “Se si cerca professionalità, si deve dare professionalità”
“Tu sei un manager dell’hospitality? Mostrami anche tu il tuo cv. Oggi la prova è reciproca: non è soltanto il candidato sotto esame, ma anche il datore di lavoro.
Se capisco che non siamo compatibili, vado via. Ormai i gestori non sono più i padroni supremi: la prova è da ambedue le parti, così come prevede il contratto.
Il lavoro è un rapporto in cui io offro la mia opera in cambio di un compenso. È molto semplice.”
Ma quindi come andrà il settore secondo lei?
Niki di Landa è chiara: “Finché continuiamo a pensare che siamo tutti interscambiabili, ci sarà la mancanza di personale. Deve esser scardinata la dinamica da parte di entrambe le parti, ma per farlo ci dovrebbe essere una Federazione che fa incontrare domanda e offerta, un ente terzo.
Altrimenti ci saranno sempre queste due fazioni contrapposte e si arriverà al punto che nei bar ci saranno talmente superautomatiche – e ci sono già dei casi di aziende che lo fanno negli Usa – che verranno assunte soltanto delle persone che siano cordiali con il cliente.
Così non ci sarà più il problema della formazione del barista che prepara l’espresso e sa la latte art, perché sarà necessario solo un addetto al customer service.
Questo è il risultato del ragionamento: se non sei tu, è un altro. Anche le stesse fiere sono rappresentative di una situazione di stallo: i volti che si incontrano in questi eventi, sono sempre gli stessi.
Bisognerebbe invece fare crescere la realtà del caffè e non soltanto dello specialty.
Parliamo di una filiera che va sviluppata, senza adagiarsi sul fatto che le persone berranno sempre il caffè: non è così, perché il modo di consumarlo si è evoluto. Le persone comprano il caffè sull’e-commerce, in torrefazione, ma anche al supermercato.
Dobbiamo spiegare cosa stiamo servendo, cos’è un Flat White, proporre un Espresso tonic al posto del shakerato.
Dobbiamo chiederci se ci interessa fidelizzare il cliente o andare soltanto dietro ai numeri? Che pur sono importanti, ma alla lunga, vince un cliente soddisfatto che porta con sé le prossime volte i suoi amici.
Uno scontento, soprattutto oggi nel mondo dei social, quanti ne toglie? Tu non sai più chi viene a consumare da te: magari sono dei content creator, dei campioni baristi.
E quant’è bello entrare in un locale e chiedere il solito? Esser riconosciuto dal personale? Questo si perde con il continuo turn over. Manca così l’idea stessa di accoglienza che fa parte dell’ospitalità. “
E quindi ora che cosa pensa di fare? Continuare a cercare l’ambiente in cui poter esser un dipendente, oppure diventerà imprenditrice?
“Ho la mentalità dell’imprenditrice e quindi ho già l’idea di dare vita a un mio format, che unisca le mie esperienze con le mie origini e il mio vissuto all’estero.
Ci sono persone che, pur avendo le risorse economiche, non hanno lo spirito dell’imprenditore: bisogna conoscersi bene e capire se si è in grado di gestire gli altri.
Il locale è come un figlio e i dipendenti sono persone di cui si è responsabili.
Da futura titolare, punterei proprio sulla formazione. Una cosa che si potrebbe fare anche da dipendente, se l’ambiente lavorativo lasciasse lo spazio per farlo: il mentoring è molto importante.
Il mentore deve insegnare. Vorrei che i miei dipendenti arrivassero a lavoro contenti, che si sentano realizzati nelle loro mansioni.
Perché bisogna anche capire le inclinazioni di ciascuno: se uno è molto loquace, starà in cassa per fare cross selling e up selling, se un altro è più timido starà al back, se a un altro piace la miscelazione potrà proporre dei cocktail anche a base caffè fuori menù.
Al pasticcere potresti lasciare carta bianca per creare un dessert nuovo, magari unendolo al caffè.
Le persone così si sentono stimolate a inventare. Tutte le grandi cose vengono da errori, da tentativi.”