MILANO – A Identità golose, di fronte a un pubblico aperto alla riflessione, hanno parlato delle potenziali evoluzioni delle esperienze di consumo – sia dal punto di vista di chi la deve preparare, che di chi invece ne fruisce – il professor Nicola Perullo, docente di filosofia del cibo ed estetica del gusto all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, assieme allo chef stellato Pietro Leeman. Il momento di cambiare il modo in cui nutrirsi e in cui intendere la cucina, è arrivato e questi due esperti hanno spiegato il perché.
Una conferenza molto breve e sintetica, «affermazioni più che di considerazioni» come ha detto il professor Perullo, per via dei ritardi accumulati dagli eventi precedenti.
Perullo: “Viviamo nell’epoca dell’antropogenesi, della transizione ecologica”
“Stiamo assistendo ad una mutazione planetaria antropologica importante, viviamo in un mondo più che umano. La scienza e la conoscenza spingono verso orizzonti impensabili con la tecnologia, l’intelligenza artificiale, la fisica quantistica.
Ma cosa c’entra tutto questo con la gastronomia? Anche nel cibo è richiesto un approccio differente che sia corrispondente a quest’epoca di grandi mutazioni ambientali, antropologiche. La crisi e ciò che conosciamo molto bene e di cui si leggono notizie ogni giorno.
Con sempre maggiore forza viene richiesto al mondo della gastronomia un modello alternativo rispetto alla cucina occidentale moderna e a ciò che l’ha guidata, il mondo che è nato con la fisica di Newton.
Siamo entrati in un’altra fase. Alcune cose sono in parte già acquisite oggi, da chi si occupa di questo settore. Ad esempio, si supera il modo classico di separare l’abilità tecnica di chi crea il cibo e il gusto e di chi lo percepisce, il commensale.
Oggi si pensa sempre di più in termini di correlazione, interdipendenza, interconnessione. Siamo licheni, parassiti, siamo fatti di tante cose e abbiamo quindi bisogno di andare oltre il modello della competizione e passare a favore di quello della cooperazione.
Poi c’è un altro punto: il superamento dell’approccio analitico separante e frazionante tanto nel preparare che nel gustare il cibo.
E questo si manifesta con la forte enfasi su termini come “esperienza”, un approccio sistemico e olistico, dove prima avviene il tutto come gesto di fare cucina e di assaggio e soltanto poi le parti. Non che il tutto sia più delle parti, anzi, è meno articolato pur donando qualcosa di irriducibile.
Ciò significa, nel concreto che per chi cucina, prima e dopo la tecnica, c’è la consapevolezza del fare qualcosa di più essenziale, mentre per chi mangia, prima del consumo e dopo, c’è qualcosa di definibile come il gusto dell’esperienza.
L’esperienza del gusto tipicamente si esaurisce con il consumo. Il gusto dell’esperienza lascia invece una traccia, diventa vita, memoria, relazione, connessione. Per poterla vivere, bisogna imparare. Ed ecco il tema della coscienza: il gusto è percezione multisensoriale, ma va più in profondità, oltre i sensi, è consapevole.
Da un lato quindi abbiamo il superamento del paradigma per cui il cucinare non è solo una scienza, separazione, analisi, frammenti e costruire dalle parti, ma è alchimia. Oggi la scienza contemporanea torna a mescolare e provare sulla base dell’esperienza su ciò che il cibo fa.
Dall’altro lato, gustare non è più solo applicare delle regole, ma è una responsabilità, che ci può trasformare ed è necessario percepire il tutto prima delle singole parti. La percezioni gustative, così come cucinare, sono un processo.
Piero Leeman si inserisce:
“Il filosofo fa una sintesi di ciò che poi noi applichiamo nella pratica. La filosofia ha senso quando è calata nella realtà. Tutti i nostri atti, lasciano una traccia profonda. Il tema che trattiamo, quello del gusto, è molto importante da questo punto di vista: è un elemento essenziale che può modificarci, perché effettivamente diventiamo ciò che mangiamo.
Noi cuochi operiamo un’alchimia di trasformazione per consegnare un risultato che l’ospita sperimenta. Il mio pensiero, la mia filosofia alimentare ed ecologica, viene risolta sedendosi a tavola e trasmettendo qualcosa di concreto al commensale.
Su questo esistono due approcci: uno è estremamente artificiale, in cui mentalmente costruisco un’esperienza interessante che associo al movimento spagnolo, il quale ha vari meriti ed è arrivato a essenzializzare il gusto per creare nuove esplorazioni ed emozioni. La cultura del gusto in fondo non è altro che l’ampliamento di quello che noi conosciamo.
In generale le persone sono abituate a pochi gusti limitati: il gioco è stato proprio quello di ampliare il panorama del gusto in direzioni inaspettate.
L’altro approccio invece, che è quello che preferisco, è quello più introspettivo, del gusto che già c’è: noi oggi siamo abituati ad utilizzare pochi ingredienti, ma in realtà ce ne sono molti di più. Ce ne sono alcuni che esprimono un’essenza e altri che invece vanno di nuovo in una direzione più chimica.
L’aspetto, il gioco che si intraprende è la dimensione più importante, andando verso l’essenza della naturalità, dove risuona la nostra anima, coscienza e verso di essa siamo sempre confrontati. Nel nostro equilibrio, se ci distacchiamo dalla nostra essenza, perdiamo il senso delle cose e arriviamo a degli estremi di questo presente in cui non si sa bene dove recarci.
Quando noi trasformiamo un cibo, e i giapponesi sono maestri in questo, esso dev’esser il più possibile puro. E dal mio punto di vista di cuoco, è importante che l’alimento rimanga tale e che la natura, vera protagonista del nostro benessere, venga trasposta in modo trasparente.
Così l’ospite di qualsiasi età, può ritrovare il naturale sempre. Nella sua somma accezione questo concetto è legato poi alla scelta vegetale, perché è in questo movimento di trasformazione della società che risuona maggiormente.
Dal post pandemia in poi, l’età media dei miei clienti si è abbassata e il 60% di chi sceglie il mio ristorante è under 30. Segnale molto importante: loro saranno il futuro e sarà vegetale.
Non per una scelta di sostenibilità, non solo per il rispetto degli animali, ma per la ricerca di una ritrovata amicizia con la propria coscienza e anima. Qui si risolve ogni cosa. Non è un proiettarci in avanti in grandi innovazioni, ma è il ritornare a una propria intimità.
Ci sono gusti a cui siamo più abituati, di solito il dolce e il salato, ma ce ne sono altri più sconosciuti come l’acido, l’amaro, l’astringente, il piccante, con i quali si può giocare tantissimo insieme ai vegetali.
Ce n’è poi un altro che è quello dell’umami, l’insieme dei gusti e l’essenza della nostra rassicurazione. Perché per una persona che mangia è fondamentale esser rassicurata dal cibo.
Se mangio una mela da un albero, essa è umami, è essenza. Sulla quale posso costruire andando anche verso direzioni inaspettate, come con l’amaro e il caffè, oppure con il piccante. Lì per me c’è il futuro, nel ritorno al centro profondo di sostanza. Partendo sempre però dalla coscienza.”