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Nespresso preferisce un fornitore italiano al cinese

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MILANO – Prendi una media impresa della manifattura che in 70 anni non ha mai chiuso un bilancio in perdita. Prendi un patron che, in mancanza di eredi interessati alla guida, decide di cedere l’azienda ai suoi manager, gli stessi che ha visto crescere negli anni.

In epoca di terziarizzazione spinta e (s)vendita del patrimonio industriale nazionale agli acquirenti stranieri, quella della fonderia Bruschi sembra una storia dell’altro mondo. E invece è successo ad Abbiategrasso, periferia sud di Milano, dove la società ha da poco consumato il suo management buyout. A fine estate Marco Bruschi ha ceduto l’azienda a due dei suoi dirigenti di fiducia: Paolo Rastelli, oggi ad e presidente dell’azienda, e Simone Maggiori, che ne è diventato il vice-presidente.

Una storia a lieto fine e inusuale nel panorama italiano. I cui inizi risalgono agli anni ’50, quando l’allora meccanico Giuseppe Bruschi, padre di Marco e Silvio, decide di mettersi in proprio. Inizia producendo stampi e costruendo una macchina per la presso-fusione.
Oggi, Bruschi è un’azienda leader nella produzione di pressofusi in lega di zinco, ovvero di quei componenti con cui le aziende costruiscono, per esempio, gli sterzi delle auto, i meccanismi di scorrimento dei tetti apribili o le cerniere degli oblò delle lavatrici. Persino la Nespresso utilizza un loro componente per le macchine del caffè.

Una storia nella storia questa del rapporto con Nespresso. All’azienda delle cialde colorate i Bruschi ci sono arrivati tre anni fa, quando la società che assembla i pezzi per conto della Nespresso preferì la fonderia di Abbiategrasso allo storico fornitore cinese. Una sorta di reshoring in chiave Nepsresso che si spiega sulla base di due elementi:

“Innanzitutto – spiega l’ad Paolo Rastelli – il fatto che nella nostra azienda la pressofusione è maggiormente automatizzata rispetto ai competitor cinesi che invece hanno bisogno di un maggior numero di persone per finire i pezzi. Dall’altra parte il fatto che possiamo offrire del valore aggiunto, in termini di qualità, derivante da una collaborazione stretta con la catena di fornitura. Dal cliente noi ci presentiamo con i nostri fornitori, in modo da stabilire nei dettagli le caratteristiche del prodotto finito”.

Alla Bruschi Rastelli, ingegnere, ci approda nel 1998, all’età di 27 anni: “Ho praticamente fatto tutto il mio percorso professionale qui dentro, per 18 anni ho vissuto fianco a fianco dell’imprenditore”, spiega. Nel 2003 diventa responsabile dello stabilimento, impara progressivamente cosa vuol dire gestire una società. “Nel 2008 abbiamo assunto Simone come responsabile commerciale, poi nel 2012 l’azienda si è trasformata in spa”.

Entra, assieme ai due fratelli Bruschi e a Maggiori, nel cda. Nel frattempo la società galoppa: mentre il settore patisce la crisi, i ricavi della Bruschi crescono significativamente, passando dai 13 milioni del 2010 ai 23,5 del 2015, anno chiuso con un margine Ebitda del 10% e un utile di circa un milione di euro. Grazie anche (ma non solo) alla forte internazionalizzazione (la quota di export rappresenta più dell’80% della produzione). Nello stesso periodo la Bruschi assume 35 lavoratori, passando da 65 a 100 dipendenti.

Quando avete ricevuto la proposta di subentrare nella proprietà? “Non c’è stato un giorno preciso – spiega Simone Maggiori – è stato piuttosto un lento processo, fatto di fiducia reciproca, il tutto è avvenuto molto naturalmente”.

Una bell’onere però per due giovani manager. Assieme a un amico consulente, Matteo Coppola, costituiscono una società, la Meshpa srl, di cui sono soci ciascuno per un terzo. Attraverso la Meshpa acquisiscono Bruschi.

“L’operazione è avvenuta in parte con capitali freschi, in parte con un finanziamento bancario e in parte concordando un pagamento dilazionato con la proprietà”, spiega Maggiori. Ora i due manager guardano al futuro e hanno presentato un piano industriale che prevede un aumento dei ricavi a 45 milioni di euro nel 2020, grazie alla diversificazione tecnologica e geografica.

Dopo il caso Nespresso una bella lezione

Come dire: a vendere al primo acquirente internazionale i Bruschi avrebbero probabilmente incassato subito e di più. Come spesso avviene nei management buyout, infatti, il prezzo dell’operazione ha scontato il buon andamento dei risultati derivante dalla recente gestione. Ci avrebbero però perso in identità, storia, tradizione: una buona lezione da impartire a molti dei grandi industriali italiani.

Camilla Gaiaschi

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