di Francesco Pollasto*
Il bar pasticceria torrefazione “Zarrilli”, in via Foria, proprio di fronte alla bella via Duomo che scende verso il mare, vendeva anche il caffè tostato. Per invogliare i clienti a servirsi sempre dello stesso negozio, per ogni acquisto di un etto di caffè veniva dato un “punto”.
Un certo numero di questi “punti” dava diritto ad avere gratis un cartoccio di dodici paste assortite. Ma i “punti” da raccogliere erano tanti che molti clienti avanti negli anni li raccoglievano, sì, ma certi che quelle paste le avrebbero mangiate i propri nipoti.
Forse qualche nonno di allora avrà portato un bambino davanti alla vetrina piena e, indicando le sfogliatelle, i babà, i pasticcetti con l’amarena, avrà detto: – Vedi quante paste? Un giorno dodici di quelle saranno tue -.
Ma io avevo cominciato a mettere da parte i “punti” all’età di dodici anni perché credevo nel mio avvenire, e giunto ai diciannove avevo finalmente raccolto l’infinito numero di punti che mi davano diritto a prelevare le paste sospirate. Aspettavo però che arrivasse un’occasione solenne per poterle rivendicare.
Quando finalmente mi presentai alla cassa per riscuotere, la bella cassiera si incupì e chiamò il proprietario. Dodici paste gratis? Si vede che, fino ad allora, nessun essere vivente e cliente aveva avuto la costanza di raccogliere i “punti”: terremoti, bombardamenti aerei, furti, malattie contagiose e altre calamità avevano protetto il pasticciere da una tale iattura.
Ma qualcuno, superando tutte le avversità, vi era riuscito.
Il proprietario si guardò i “punti” da tutte le parti. Incominciò a dire che quelli di data più antica si dovevano considerare scaduti, che c’era stata una guerra di mezzo, l’Italia non era più un regno ma una repubblica e altre ridicole scuse per non mollare le paste.
Ma io, contrariamente al mio carattere mite, preso dalla rabbia e dalla disperazione, dichiarai con una espressione la più truce possibile che, se non avessi avuto le paste, avrei saputo ben io da chi andare a chiedere giustizia e protezione.
Forse pensò alla Guardia di Finanza, forse a qualche temuto guappo del vicino Rione Sanità: comunque il proprietario, benché riluttante, si decise a consegnarmi il cartoccio con le dodici paste, tentando anche di rifilarmi un pasticcetto con le fragole mezzo smozzicato, che ormai forte dei miei sacrosanti diritti mi affrettai a far sostituire.
Ecco come potei, in quello stesso pomeriggio, andare a bussare a casa di Rita,la mia fidanzata dell’epoca, consegnando le paste alla madre con ostentata disinvoltura, come se dodici paste fossero soltanto un numero irrisorio rispetto alle paste che compravo abitualmente nella vita.
La casa di Rita mi apparve di un lusso inaudito, essendo corredata perfino di ghiacciaia e di un ventilatore per i torridi giorni d’estate.
Che Rita appartenesse a una famiglia agiata l’avevo capito, perché il padre era proprietario di banche.
Ma non si pensi a un banchiere: si trattava di alcune di quelle che noi chiamiamo in dialetto: “Banche dell’acqua”, insomma di chioschi per vendere le bibite. Ma la banca vera e propria era più monumentale, messa quasi sempre all’angolo di strade molto frequentate, fatta di marmi sempre bagnati, luminosa di filze di limoni e di arance, pronte per essere spremute nell’apposito grande e sonante spremiagrumi a mano.
L’arrivo del fidanzato di Rita coincise con un momento importante nella storia di quella dinastia di acquaioli e soltanto dopo qualche settimana la scoperta di quanto stava accadendo mi riempì di orgoglio e di speranza in un avvenire sicuro: nientemeno il destino, attraverso la figlia Rita, mi aveva portato in casa dell’inventore dell’acqua e caffè.
L’idea di Raffaele De Luca era semplice e geniale, e si basava sullo sfruttamento di una risorsa naturale, a Napoli pressoché inesauribile e senza costo: i fondi di caffè. Ogni sera il mio futuro suocero avrebbe fatto un giro, visitando tutti i bar del rione e raccogliendo i fondi che si erano accumulati durante il giorno.
Con una sapiente alchimia essi sarebbero stati ribolliti all’alba del giorno dopo, filtrati e fatti raffreddare. Quindi, a quel liquido che avrebbe avuto ancora un buon sapore di caffè, sarebbe stata aggiunta una piccolissima percentuale di zucchero, tanto per togliere l’amaro.
Sarebbe stato immesso allora in certi grandi contenitori di vetro, muniti al di sotto di un rubinetto. Su questi contenitori sarebbe stata appoggiata una gocciolante mezza colonna di ghiaccio e altri pezzi di ghiaccio sarebbero stati tenuti sempre immersi nel liquido, fino a renderne ancora più incerto il sapore.
Ma ad aiutare a precisare di che si trattasse avrebbe provveduto una targhetta tenuta da una catenella a metà del contenitore, con su scritto: “Caffè ghiacciato centesimi 30”.
L’inventore dell’acqua e caffè fu costretto ad assumere un paio di aiutanti. Si capiva però che un’idea geniale come quella non sarebbe potuta restare senza imitatori. E una domenica il mio probabile futuro suocero rincasò cupo: in un chiosco di un altro rione era stato localizzato un distributore di “caffè ghiacciato” non appartenente alla ditta che, diciamo così, ne deteneva il brevetto.
I sospetti su chi avesse potuto trafugare quella che veniva ritenuta una formula segretissima si appuntarono su uno dei due aiutanti notturni, il quale – forse come premio per il suo tradimento – fu visto nel chiosco nemico mescere personalmente l’acqua e caffè contraffatta.
Il padre di Rita, dopo un giorno in cui si chiuse nel silenzio e nella meditazione, decise di difendere con le armi il suo diritto d’autore. Il chiosco nemico fu distrutto a colpi di bastone, anche con il traditore dentro, con grande spargimento di sangue e limonate. Ma la sera stessa l’inventore dell’acqua e caffè entrava nel carcere di Poggioreale.
La fine della fortuna di quella famiglia coincise con il lancio vittorioso dell’acqua e caffè in tutti i chioschi della città: nessuno temeva più la reazione del padre di Rita, dell’inventore dell’ineguagliabile bevanda.