Negli ultimi anni bastava mettere in un titolo la parola «Caprotti» che i contatti del sito del Corriere della Sera schizzavano verso l’alto. Sembrava una calamita per centinaia di migliaia di lettori che si precipitavano, quale che fosse la notizia, a cliccare sugli articoli.
E Bernardo Caprotti (FOTO in alto), classe 1925, nato il 7 ottobre, era consapevole di questa popolarità che poco comprendeva ma che ormai si era abituato a dover gestire. Il rimpianto mostrato per non aver potuto visitare città come Istanbul o Gerusalemme era giustificato da quel piacere che provava andando nei suoi negozi al sabato, mentre gli altri facevano il weekend.
Ma il problema era che, negli ultimi anni, i clienti lo riconoscevano. E questo lo infastidiva anche se non spegneva il serioso sorriso che riservava ai collaboratori che lo accoglievano. Quei saluti rispettosi e, fors’anche il timore delle persone tra gli scaffali, erano la prova più evidente del fatto che, più dei numeri, più di quegli oltre 150 supermercati aperti in Italia, di quei 22 mila dipendenti, era riuscito a creare in sessant’anni qualcosa che sarebbe rimasto nell’immaginario e nel cuore degli italiani per molto tempo ancora.
Bernardo Caprotti fondatore e inventore del fenomeno Esselunga, quasi 8 miliardi di ricavi oggi, con 290 milioni di profitto. La catena con il marchio creato dal graphic designer Max Huber che è oggetto dei desideri di colossi americani come Walmart oltre che di tutti i protagonisti della grande distribuzione.
Numeri dietro i quali c’è una capacità di innovare e rivoluzionare un intero settore, accompagnando lo sviluppo industriale e, culturale, sì anche culturale, del nostro Paese. Ne sono prova persino quelle battaglie che hanno occupato le cronache finanziarie e giudiziarie contro le Coop.
O anche il ritrovarsi in Tribunale contro i due figli avuti dalla prima moglie, Giuseppe e Violetta, ai quali aveva deciso di non donare più i titoli della sua società. Battaglie dagli esiti contrastati nel primo caso, vincenti nel secondo, ma che sono emblematiche di un legame non solo d’interesse con la sua creatura.
«Da mio padre appresi i fondamentali valori borghesi — racconta nel suo Falce e carrello, libro atto d’accusa verso le Coop, ma soprattutto autobiografico —, la centralità e la continuità dell’impresa, la frugalità, il rispetto della parola data».
Aggiungendo veloce: «E anche la passione per la caccia e l’amore per i cani». E dimostrando un amore per la vita che andava al di là degli affari. Suo padre «era un antifascista vorrei dire accanito; alla vigilia della guerra era rimasto quasi solo», racconterà ancora l’imprenditore.
Da protagonista dell’economia e dell’industria, la politica per lui era cosa da seguire e capire. Ma non da subire. Il fastidio per gli anni di Tangentopoli, quegli anni Novanta in cui per qualsiasi iniziativa da intraprendere si veniva avvicinati da faccendieri, lo spinse a finanziare massicciamente la Lega Nord.
Quel grumo di interessi che si era creato attorno ai socialisti lo irritava. Vide l’arrivo di Silvio Berlusconi come la possibilità di dare un destino liberale all’Italia. Ma allo stesso tempo costruì un rapporto di stima con Pier Luigi Bersani.
Ecco l’italiano che riesce a dialogare e, perché no?, a intendersi con colui, Bersani, che sulla carta avrebbe dovuto essere grande amico dei concorrenti delle Coop e quindi non proprio vicino a Caprotti.
E che invece per essere riuscito da ministro a liberalizzare l’Italia incartata nelle troppe regole «che rendono più difficile che altrove fare impresa», si ritrova al fianco l’imprenditore che negli Anni 60 e 70, aveva ingaggiato epiche battaglie con i sindacati affermando qualcosa che solo oggi si sta facendo strada in Italia: la logica dei servizi, delle aziende che aiutano i consumatori, che li assistono.
La modernità che spinge Caprotti, grazie a «un gentiluomo di Chicago, con un tocco di classe e un buon francese», Charlie Fitzmorris, a puntare negli anni Settanta sull’informatica.
A sperimentare nel 1977 grazie a Ibm i primi codici a barre, quando in America se ne iniziava a parlare. Sono dei primi anni Ottanta le casse con il laser nei primi sei negozi Esselunga. Ed è grazie a Fitzmorris che Caprotti conosce e inizia ad amare Chicago, the windy city, «metropoli stupenda, di architetture, di archeologie industriali, di pinacoteche stupefacenti», scriverà l’imprenditore.
Chissà se fu Chicago ad avvicinarlo all’architettura. Di sicuro lavorano con Esselunga Ignazio Gardella, Giò Ponti, Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Mario Botta, Massimo Carmassi.
L’elenco dei progettisti è lungo anche se è con Gardella che il rapporto è più assiduo: firmerà 37 realizzazioni. Una passione che porterà l’Università della Sapienza a conferire al Caprotti laureato in legge una laurea «honoris causa» in Architettura.
È il tentativo spesso riuscito di dare una dimensione stilistica a quei supermercati che sono trattati normalmente in modo «banale e scontato», di sicuro «mai emozionanti». C’è la curiosità dell’imprenditore, la passione per il retail, scoperta da adulto. E c’è l’America.
Il padre, Giuseppe, ragazzo del ’99 era stato educato in tedesco. È dal padre e dalla nonna Bettina che impara il «culto della libertà, dell’indipendenza e la passione per le visual arts, architettura, pittura, grafica e… l’ossobuco fatto con un’ombra d’acciuga», aggiunge ironico e pragmatico come sempre.
La madre francese e la nonna alsaziana gli trasmisero «l’inclinazione per la musica, per Molière e il culto dei soufflé». Quei valori che nel Dopoguerra saranno presidiati da «uomini liberi come Alcide De Gasperi, Carlo Sforza, Giuseppe Saragat, Luigi Einaudi». E che lo spingeranno a «prendersi a calci con i comunisti. Perché noi eravamo prima di tutto uomini liberi, e poi filoamericani, veri paladini della libertà».
Dopo la laurea, il padre Giuseppe decide che suo figlio Bernardo deve andare in America. La Manifattura Caprotti, azienda di famiglia, è tra le più moderne del Paese. Ma non deve perdere l’aggancio con l’innovazione. E Bernardo nel 1951 parte per gli Stati Uniti.
Aveva frequentato i corsi serali al Politecnico di meccano tessile, ma quando arriva a Houston inizia dalla materia prima. Il cotone che in Italia era la bambagia. Passa a fare il montatore meccanico. Poi rientra. Il 2 gennaio 1952 è nell’azienda di famiglia. Sei mesi dopo il padre scompare tragicamente. E a 26 anni si ritrova a capo dell’impresa.
Nel 1957 l’opportunità. Ne riconosce il merito a Marco Brunelli, altro imprenditore della grande distribuzione oggi a capo di FinIper (Iper e Unes).
Lo definisce «scaltro uomo d’affari, poi mio avversario». La famiglia Rockefeller, quella della Esso e della Standard Oil, decide di aprire una catena di supermercati, formula sconosciuta in Italia.
Brunelli e Caprotti decidono di associarsi. Il primo negozio apre nel 1957 in viale Regina Giovanna a Milano in una vecchia officina. Nel 1960 iniziano i tentativi per rilevare la quota della famiglia americana. Ci riescono ma la svolta arriva solo nel luglio del 1965. L’azienda era in «stato d’abbandono». Caprotti diventa amministratore delegato. E nel giro di due anni capisce che quello sarà il suo futuro.
Quella pagina di auguri sul Corriere della Sera
Un futuro passato poi in un ufficio non più grande degli altri, al sesto piano del palazzo di Pioltello, con il badge sempre bene in vista, la mensa insieme ai suoi collaboratori più stretti, facendo la fila come tutti. Questa diventerà la quotidianità di Caprotti. Nel 2015 i suoi collaboratori comprarono una pagina del Corriere della Sera per fargli gli auguri: «Never never never give up. 7 ottobre 2015. 22.218 collaboratori di un’Azienda straordinaria rendono omaggio al loro Dottore nel giorno del suo 90 compleanno».
Poi i giorni dell’incidente, della malattia. E chissà, la tristezza per quella Esselunga che oggi, deve costruirsi il futuro non potendo più contare sul signore del sesto piano.
@daniele_manca