MILANO – L’Agenzia Italia ha diffuso nella giornata di ieri un’analisi sulla situazione economica delle torrefazioni italiane per fare il punto della situazione sui problemi creati dal Covid sul mercato nazionale del caffè. In sintesi: sono saliti i prezzi della materia prima e leggermente anche quelli della tazzina. Il fatturato delle torrefazioni italiane si è contratto dell’8,6% per un valore stimato di 337 milioni di euro. Lo rivelano i dati del Consorzio promozione caffè, diffusi attraverso il presidente Michele Monzini. Ma leggiamo le sintesi di Silvia Inghirami e Ilaria Conti.
Il Covid ha colpito anche il settore del caffè: dopo un 2019 di crescita (+0,8%), il 2020 ha segnato un cambiamento radicale dei consumi dovuto alla crisi sanitaria con forti ripercussioni.
il fatturato delle torrefazioni italiane si è contratto dell’8,6% per un valore stimato di 337 milioni di euro. Si sono ridotti i consumi fuori casa, con forti contraccolpi soprattutto nei consumi di bar e ristoranti, praticamente azzerati durante il primo lockdown. Le perdite di fatturato registrate dalle torrefazioni nel canale horeca nel 2020 sono pari al 40% e a scendere è anche il canale vending-Ocs che ha perso addirittura il 50% rispetto al 2019. Sono gli ultimi dati resi noti dal Consorzio promozione caffè.
Unico canale che non ha sofferto nel 2020 è il canale retail tradizionale ed e-commerce, cresciuto il primo a valore del 10,3% mentre il secondo con tassi prossimi al 50%, ma valendo meno del 2% del totale retail, in base ai dati rilevati dall’Iri. La contribuzione del retail ha in parte arginato le perdite riscontrate nel fuoricasa, ma non è stata in grado di compensarle integralmente.
Il caffè, simbolo di una delle eccellenze del Made in Italy, viene importato per la qualità robusta principalmente dal Vietnam e dal Centro Africa, mentre per l’arabica da Brasile, Colombia e Centro America. Nel periodo gennaio-dicembre 2020, il volume di caffè verde importato è stato pari a 9,4 milioni sacchi (da 60 kg), in calo (-8%) rispetto all’anno precedente, mentre le esportazioni di caffè torrefatto sono pari a 4,9 milioni di sacchi (da 60 kg) equivalente verde, con un calo del 6,8% rispetto all’anno precedente. Il volume di caffè verde trasformato dalle aziende del nostro Paese è di circa 9,2 milioni di sacchi (da 60 kg), in calo rispetto all’anno precedente (-8%). Sul mercato vi sono 7-800 di torrefazioni che operano a livello locale, che si aggiungono ai ‘big’: Lavazza, Illy, Zanetti, Kymbo, Caffitaly, Verganano, Pellini.
“Il 2020 – spiega il presidente del Consorzio promozione caffè, Michele Monzini – è stato un anno di grandi difficoltà, che proseguiranno nel 2021. Prevediamo che almeno nel primo semestre i canali del fuori casa e del vending saranno ancora molto penalizzati mentre il retail difficilmente continuerà a crescere come fatto nel 2020”. “Siamo certi – aggiunge – che gli italiani riprenderanno a tornare al bar, perché è un’abitudine simbolo dell’italianità e del nostro modo di vivere, ma non si raggiungeranno facilmente i livelli di vendite del 2019, come ci dice l’esperienza estiva del 2020 e comunque il settore si riprenderà realmente solo quando cesseranno le restrizioni alla circolazione delle persone e torneranno a regime le attività del fuori casa”.
Per un bar – spiega ‘Luciano Sbraga, vicedirettore generale Fipe Confcommercio.- il caffè vale il 32% del fatturato: un valore pari nel complesso a 6,6 miliardi nel periodo pre-covid,
Gli esercenti devono fare i conti con la pandemia ma anche con l’aumento delle materie prima: il costo del chicco verde ha subito un rialzo di oltre il 40% nel giro di un anno. Se a giugno 2020 il prezzo era di poco meno di 100 centesimi a libbra (circa 450 grammi) a giugno di quest’anno si è arrivati a 144 centesimi. “Ma la materia prima non ha un’incidenza fondamentale sul prezzo del caffè torrefatto”, spiega Sbraga – perché in una tazzina ci sono circa 7 grammi di caffè, e l’incidenza sul prezzo finale è del 20%, cioé 17-18 centesimi su 1 euro. Quindi anche un aumento di un paio di euro al chilo di caffè verde non può avere riflessi importanti sul prodotto finale”.
Anche se di poco, però i prezzi dell’espresso al bar sono saliti: +1,4% in un anno.
Le differenze a livello regionale restano confermate: si va dagli 88 centesimi di Reggio Calabria e ai 90 di Napoli per poi gradualmente salire verso il Nord: 93 centesimi a Roma, 1,09 a Torino, 1,10 a Modena, Ravenna, Belluno, 1,11 a Bologna.
La prospettiva potrebbe essere di tentare la coltivazione in Italia, evitando così non solo i rincari della materia prima ma anche quelli della logistica. Un’ipotesi che però è ancora economicamente non sostenibile.
“Coltivare il caffé in Italia è possibile, il problema è la fattibilità economica” afferma Lorenzo Bazzana, agronomo responsabile tecnico economico di Coldiretti, ricordando che nel mondo la coltivazione è estensiva, su grandi superfici.
“La pianta di caffé richiede una temperatura che non scenda sotto i 10 gradi e non superi i 40. Si potrebbe ovviare al rischio di sbalzi termici con sistemi protettivi e di riscaldamento, oppure coltivare in serra con tecnologie adeguate. Si potrebbe quindi avere un caffé al 100% italiano ma con costi fuori mercato”. Bisogna poi considerare le conseguenze sempre più frequenti dei cambiamenti climatici: “Non solo l’aumento delle temperature ma il verificarsi di fenomeni violenti. Se anche le temperature fossero compatibili, le variabili tempesta e grandine rendono impraticabile la coltivazione”.
“Naturalmente – aggiunge Bazzana – mai dire mai. Ci sono coltivatori di banane e di altri frutti tropicali in Sicilia, (avocado e babaco) e in Calabria (goji). In serra, per lo più in Sicilia, si coltiva lo zenzero”. “Bisogna vedere se una coltivazione può essere profittevole. A meno che non si voglia fare qualcosa di paragonabile al manzo di kobe, che ha prezzi elevatissimi: più una curiosità che un prodotto destinato al supermercato”.