domenica 22 Dicembre 2024
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Coffee Barometer: «Miliardi per acquistare i marchi, le briciole per il futuro del caffè fisico»

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MILANO – Mentre i protagonisti del mercato globale muovono le loro pedine sullo scacchiere mondiale a colpi di miliardi, gli investimenti compiuti per assicurare una crescita sostenibile del settore del caffè rimangono modesti.

Solo quest’anno – ad esempio – Jab ha speso 16 miliardi di euro per mettere le mani di Dr Pepper. Mentre Nestlé ha sborsato 6 miliardi di euro (più royalties) per ottenere la licenza a commercializzare parte dei prodotti a marchio Starbucks. Investimenti ingenti sul fronte commerciale e industriale.

Ma quanto viene speso invece all’altro estremo della supply chain, sul fronte della produzione della materia prima?

Cioè del prodotto agricolo, fisico, dal quale discende l’intera filiera. Ancora troppo poco – sostiene il Coffee Barometer 2018 – specie se consideriamo che i consumi crescono costantemente, mentre le terre coltivabili si riducono sempre di più.

Secondo il report – che nasce per iniziativa congiunta delle Ong Conservation International, Cosa, Hivos, Oxfam-Worldshops, Solidaridad, e Safe Platform – gli investimenti in sostenibilità sono pari ad appena il 2‰ (due per mille) del fatturato complessivo dell’industria del caffè, stimato estensivamente in 200 miliardi di dollari.

Un modello di business miope – afferma ancora il Barometer – che aggiunge: “i giganti del settore gettano le fondamenta della propria futura espansione … sulle sabbie mobili.”

Problemi sistemici

La filiera del caffè è alle prese con una serie di problemi sistemici – di ordine economico, sociale e ambientale – che in assenza di soluzioni adeguate potrebbero comprometterne irreparabilmente lo sviluppo.

A cominciare dalle problematiche indotte dal mutamento climatico. La cui incidenza è ancora maggiore, poiché la fascia geografica in cui avviene la coltura del caffè è anche quella più vulnerabile ai cambiamenti che sta subendo il clima planetario.

In alcuni dei principali paesi produttori – sostiene il rapporto citando Brasile, Honduras, Uganda e Vietnam – l’estensione delle terre adatte alla coltura del caffè potrebbe cominciare a ridursi sin dal prossimo decennio.

Qualcosa di muove

Va detto che più di qualcosa sta cominciando a muoversi anche sul fronte delle multinazionali. Nestlé – con il marchio Nespresso – compie investimenti massicci nello sviluppo di filiere eque e sostenibili.

Emblematica la presenza, nel Board del leader mondiale del porzionato, di George Clooney, alfiere di tante battaglie umanitarie: molto più di un semplice testimonial belloccio.

Starbucks ha messo a punto un suo standard di sostenibilità (C.A.F.E. Practices). Senza dimenticare – passando all’Italia – l’impegno di Lavazza o della stessa illy. E potremmo citare molti altri marchi, sia in patria che nel resto del mondo.

Sensibilizzare industria e opinione pubblica

D’altronde, lo scopo del Coffee Barometer è anche quello di sensibilizzare industria e opinione pubblica su dati noti, ma spesso non adeguatamente considerati.

Ad esempio, si legge nel report, la produzione mondiale è cresciuta del 25% dalla fine del decennio scorso a oggi.

Ma non sappiamo quanta superficie forestale sia andata distrutta per lasciare il posto alle nuove piantagioni necessarie per ottenere questo risultato.

O ancora: si ritiene tuttora che il 70% della produzione mondiale provenga da 20-25 milioni di piccoli produttori. Una moltitudine di lavoratori agricoli, in buona parte invisibili e senza voce.

Gli scenari

Ipotizzando che la domanda cresca al ritmo annuo del 2%, il fabbisogno dell’industria mondiale raggiungerà i 300 milioni di sacchi entro il 2050: quasi il doppio della produzione attuale.

Senza investimenti ben più consistenti e capillari nello sviluppo di cultivar resistenti alle avversità e nelle strategie di adattamento al cambiamento climatico, difficilmente questo obiettivo potrà essere raggiunto.

Nessuna pallottola d’argento

In molti paesi, a fronte dell’assenza di normative statali vincolanti, il comparto ha investito in Standard Volontari di Sostenibilità (Svs). Ma nessuno di questi standard costituisce in sé la pallottola d’argento, il rimedio al problema.

Soltanto con l’impegno congiunto e coordinato di tutta la filiera – conclude il report – sarà possibile predisporre delle strategie a lungo termine realmente efficaci e in grado di fare la differenza.

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