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giovedì 21 Novembre 2024
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“Senza senso meravigliarsi perché Grom non è artigianale”

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di Niccolò Carradori*

È difficile capire le dinamiche che rendono una multinazionale antipatica o simpatica, specie perché le motivazioni che stanno dietro al disprezzo di massa sono praticamente ascrivibili a ogni S.p.A con un amministratore delegato e un consiglio di amministrazione.

Prendete Grom: ok, c’era la storia di Berlusconi, sono amici di Renzi, Federico Grom e Guido Marinetti fanno parte di quegli imprenditori che incarnano l’odioso shognorenziano e partecipano a seminari di mental coaching di Roberto Re; è un’azienda che nella comunicazione dimostra sempre un certo grado di supponenza e antipatia, ma l’onda di acredine che si solleva ogni volta che Grom finisce all’interno del flusso delle notizie, nel bene e nel male, è singolare.

Ne abbiamo avuto conferma in questi giorni, per la quantità di commenti soddisfatti che accompagnavano ogni singola notizia della recente diffida da parte del Codacons dopo la quale Grom ha cancellato la dicitura “artigianale” dal proprio sito.

La decisione arriva a conclusione di una diatriba iniziata diverso tempo fa, e il volume di reazioni suscitate online ha ricordato quasi il dibattito che si crea durante uno scandalo politico.

Come ha dichiarato Enrico Venini, il legale che ha rappresentato Codacons, ad Adnkronos, quello di Grom non sarebbe un gelato artigianale per due motivi: “Prima di tutto per le dimensioni dell’azienda, che essendo una spa non è una ditta artigianale”.

” Inoltre, aggiunge Venini, un gelato artigianale deve essere “prodotto in loco e dunque fresco, invece l’azienda prepara le miscele in un unico centro produttivo, in provincia di Torino, e da lì viene smistato ovunque, nei rivenditori italiani e all’estero fino a New York, Tokyo, Parigi, Osaka…”

In pratica, le miscele dei gelati di Grom vengono pastorizzate e congelate, per poi essere mantecata nei punti vendita solo in un secondo tempo: stando alle norme, quello appena descritto è un ciclo industriale che rende il prodotto non artigianale.

Il problema, in realtà, nasce da una legislazione che rende piuttosto labile il confine fra un prodotto artigianale e uno industriale.

E questo ovviamente crea un vuoto comunicativo che i responsabili dei reparti marketing delle varie aziende possono sfruttare per veicolare un determinato messaggio nei confronti del consumatore.

Il punto però è un altro: a parte l’etichetta, e una restrizione comunicativa che comunque ha il suo peso, cosa è cambiato nella sostanza di come il gelato Grom viene percepito?

C’era veramente qualcuno convinto che un semplice slogan come “il gelato come una volta” bastasse a far credere ai consumatori che quello che acquistavano era un prodotto artigianale?

Ovviamente no: un brand che distribuisce il proprio prodotto in tutto il mondo, e che può permettersi di farsi sponsorizzare da personaggi famosi come fa Grom, non può che affidarsi a una catena industriale.

Pensare che adesso, grazie ad una precisazione semantica, l’immagine di Grom sia o debba cambiare è ipocrita. Scandalizzarsi è, in un certo senso, ipocrita.

Il gelato di Grom non è cambiato. Nella maggior parte dei casi, chi lo trova buono continuerà ad andarci. Chi ci va per “andare da Grom” continuerà a farlo.

E chi non l’ha mai fatto o ha smesso di farlo perché non sopporta Grom o non ne apprezza i prodotti avrà un motivo in più per evitarlo o “rinfacciarlo” agli altri. Quanto a Grom, a questo punto, il suo problema consisterà più che altro nello studiare una nuova campagna di marketing.

Più interessante, invece, è capire per quale motivo molti godano quasi fisicamente nell’attaccare accanitamente un certo brand piuttosto che un altro, a criticarne le scelte e il modus operandi.

Probabilmente tutta questa enfasi è strettamente connessa al fatto che Grom è un’azienda italiana legata a un prodotto tradizionalmente italiano che viene vissuto, come quasi tutti i prodotti tipici, come pressoché “intoccabile”: il gelato.

Nei commenti sotto ai post Facebook che riguardavano la notizia, un sacco di persone si sono sperticate nell’evidenziare come “il vero gelato” sia tutt’altro.

Altrettanti, allo stesso modo, criticavano l’appropriazione di determinate etichette a danno delle piccole realtà “davvero artigianali” snobbate in quanto “non fighette”.

E se da una parte una specie di insofferenza per l’azienda-italiana-che-ce-l’ha-fatta è quantomeno diffusa, ovviamente conta anche l’immagine di Grom: un marchio così glamourizzato e pompato, con il suo packaging, e tutta la pletora di simpatizzanti vip di cui si è circondato, mostra facilmente il fianco all’antipatia.

A questo si aggiunge un meccanismo di pubblico molto semplice: il modo in cui viene presentato, l’impatto che ha sul mercato, e il prezzo a cui viene venduto sono ovviamente dei deterrenti quando la qualità effettiva del prodotto finale disattende le aspettative di chi lo consuma.

Quindi sì, Grom è facile da odiare.

Ma è una dinamica per certi versi faziosa che testimonia come l’immagine delle grandi aziende permei prima di tutto il tessuto connettivo dell’opinione comune.

Il succo della questione, in definitiva, è che niente di tutto questo ha veramente a che fare con una specie di filosofia morale riguardo al modo in cui la società produce, consuma, o vive.

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