MILANO – “Mauro” era uno dei marchi di caffè più noti. Poi il processo ai titolari per strozzinaggio e il danno di immagine. Oggi si scopre che erano innocenti.
Scrive Edoardo Montoli sul quotidiano Libero:
Ci sono voluti quasi nove anni di processo per stabilire quello che una perizia del tribunale aveva già accertato un anno e mezzo fa: in nessuno dei 60 casi contestati alla Caffè Mauro di Campo Calabro, hanno stabilito i giudici di Reggio Calabria, c’è mai stato il benchè minimo tasso di usura. Nel frattempo loro hanno dovuto cedere l’azienda, devastata nell’immagine in tutto il mondo.
E pensare che erano stati gli stessi imputati a chiedere il rito immediato, per sbrogliarsi subito di dosso il marchio di strozzini. Anche perché la Caffè Mauro, quando l’inchiesta cominciò, era un cavallo da corsa da 20 milioni di euro di fatturato l’anno, nota pure in campo sportivo, come sponsor di Italia ’90, Reggina Calcio e sponsor tecnico della Juventus. Probabilmente l’unica realtà internazionale di Reggio.
Finchè Antonio e Maurizio Mauro, figlio e nipote del fondatore Demetrio, non furono raggiunti da un’accusa tremenda: associazione a delinquere, usura ed esercizio abusivo del credito. Era il 5 gennaio 2005. «Mi trovavo a Zanzibar. Mi telefonarono dicendo che mio padre era stato arrestato. Che cercassero pure me lo scoprii invece da internet. E rientrai subito».
Maurizio Mauro, 46 anni, era all’epoca presidente dei giovani industriali della Calabria. Sostanzialmente, per i magistrati che li accusano, lui e suo padre avrebbero prestato denaro ai locali anche se non potevano farlo. E soprattutto lo avrebbero fatto a tassi usurari.
(…) Invece, a Reggio Calabria, la Procura lo contesta, sostenendo che Caffè Mauro non potesse farli, quei prestiti, poiché non è una banca. Soprattutto contesta tassi d’interesse usurari. Maurizio finisce così ai domiciliari, il padre va in prigione 39 giorni. La notizia fa il girodel mondo, masubito dopo l’accusa vacilla paurosamente: l’unico, infatti, che aveva denunciato Maurizio per usura, si era dimenticato di aver beneficiato di un secondo prestito, cosa che fa crollare i tassi d’interesse calcolati.
E il Riesame manda fuori Antonio per “insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza”: di usura non c’è traccia in nessuno dei sei casi a lui contestati.
Finita? Macché. I casi all’improvviso si decuplicano: diventano 60. «A me pareva surreale. I clienti finanziati erano meno dell’1%, un’inezia del fatturato. Addirittura la finanza che svolgeva le indagini solo quattro anni prima aveva controllato tutta la nostra attività dal 1991 al 2001: e risultava tutto in regola, compresi quelli per cui ora ci accusavano. Ma non poteva che essere tutto in regola: i prestiti partivano dai conti correnti dell’azienda e andavano su quelli dei bar. Contabilizzavamo pure gli interessi».
Dei 60 casi “usurati”, solo 6 infatti si costituiscono parte civile. I testi del pm arrivano in aula e ricordano i tempi in cui Antonio Mauro salvò il loro bar. Pare grottesco.
Ma il “meglio” deve arrivare. «Il consulente dell’accusa, in un prestito di circa venti milioni di lire, rilevò un tasso “usurario” del 68.960.000 %! In aula sostenne che “tendeva all’infinito”».
Praticamente il debito pubblico italiano. Improbabile. Ma per questa consulenza viene chiesta una liquidazione di 518 mila euro. I difensori di Maurizio (Schembri, Nico D’Ascola, Paolo Tommassini e Francesco Albanese) si oppongono, ottenendone la drastica riduzione a 57mila euro.
Nel frattempo il tribunale nomina un proprio perito, Barbara Cardia. Risultato? In nessuno dei 60 casi c’è usura: i tassi ballano intorno all’8%-10%, talvolta sono pari allo 0%-0,5%, roba che in banca te li sogni.
La perizia è stata depositata il 19 gennaio 2012. Il processo sarebbe potuto finire lì. Invece solo ora i giudici hanno stabilito che non c’è mai stata usura e hanno assolto gli ex proprietari dell’azienda (…).