MILANO – Concluso il Sigep, così come le competizioni di caffetteria organizzate da Sca Italy durante le giornate intense di fiera. Per la categoria barista, lo abbiamo intervistato, Daniele Ricci si è distinto nella prova, ma subito dietro c’è un altro nome che abbiamo imparato a conoscere su queste pagine, quello di Matteo Pavoni.
Ci ha parlato della sua gara, del caffè scelto – una scommessa che lo ha lasciato soddisfatto nonostante tutto – perché, se è vero che la gloria premia e ricorda solo il primo classificato, per lui i campionati non sono soltanto una prova per portare a casa trofei, ma un’occasione per mettersi alla prova e stimolare nuove competenze frutto di lunghe ricerche e prove sul campo – anche molto lontani in questo caso -.
Matteo Pavoni: la scelta dei caffè per i nazionali barista
“A Sigep ho scelto di presentare un Laurina preso in Colombia, coltivato dalla farm Jardines del Eden, varietà difficile da produrre in quanto genera pochissima caffeina ma alta complessità di sapori, naturale sottoposto a due fermentazioni – 24 ore in ambiente aerobico più 90 ore in ambiente anaerobico – ed un Liberica varietà Excelsa, del produttore Mooleh Manay Estate nella regione Karnataka dell’India, black honey.
Il Laurina è stato sottoposto a dei processi che hanno determinato una maggiore complessità in tazza e ha reso l’acidità soprattutto in espresso, sia malica che citrica. È vero che ultimamente il ricorrere alla fermentazione, a volte è troppo spinto dalla voglia di andare incontro alla nuova tendenza e in alcuni casi potrebbe coprire le caratteristiche tipica del territorio di origine. Tuttavia è possibile anche che, se le fermentazioni sono controllate, possano al contrario valorizzare tantissimo il terroir.
Non tutti i caffè beneficiano da fermentazioni estese, ma alcuni sì. Come nel caso del Laurina che ho portato in gara.”
Ma non ha avuto paura a portare il Liberica, che di solito non è ben compreso dalla giuria?
“Effettivamente sapevo potesse essere un rischio che però ero disposto a correre perché il senso stesso di portarlo in gara era per me molto interessante. Devo dire che la scintilla principale è avvenuta nei confronti del Laurina che ho usato per l’espresso: lo conoscevo già di fama per via del campionato mondiale brewers del 2018, e poi in seguito assaggiato ai mondiali barista di Melbourne 2022, dove ne sono proprio innamorato.
Nel backstage sono stato colpito da quello usato dal campione brasiliano: tra tutti, il Laurina colombiano mi aveva sconvolto a tal punto che, a novembre, sono partito proprio per visitare i produttori della zona del Qindio in cerca di una varietà molto difficile da coltivare. Quando l’ho ritrovata all’origine, il colpo di fulmine è stato confermato. Il Laurina si è dimostrato all’altezza dei miei ricordi e così l’ho fatto spedire subito, ancora mentre ero da loro.
Di particolare ha proprio il fatto che contiene poca caffeina, il che conferisce una complessità in tazza con un’amarezza praticamente inesistente. La combinazione di sapori tropicali e sensazione tattile sciropposa mi ha stravolto: è unico, soprattutto in espresso. Per questo motivo l’ho usato per questo metodo e del drink.
Nella presentazione in pedana ho raccontato questo caffè legandolo alla mia passione per la ricerca che ho svolto sulle possibili relazioni tra i sapori in tazza e una variabile esterna: sul Laurina esiste uno studio della Università di Cornell che indaga la percezione di dolcezza e contenuto di caffeina. Su un’analisi campione il gruppo di persone è risultato che chi consuma caffè senza caffeina ha più facilità a percepire la dolcezza: il caffè del Laurina si prestava a questa evidenza.
La mia proposta è stata valutata molto bene, con punteggi molto alti ed ha preso voti eccezionali.
Quello che ha ottenuto voti alti ma non straordinari è stato il Liberica a causa anche di un meno ampio storico a disposizione dei giudici su questo caffè inusuale. Per questo motivo ho scelto di usarlo nella bevanda latte, perché il Liberica in purezza ha delle note speziate intense che in espresso appesantiscono, ma che in combinazione con il latte – selezionato con l’aiuto di un’azienda biodinamica San Michele – dà un risultato che ricorda il burro d’arachidi. Assaggiando, rimanda al gusto delle stecche di liquirizia.
Non è stato valutato male, ma non è stato ritenuto straordinario.
Ho voluto comunque portarlo perché, così come mi ha confermato il feedback che ho ricevuto anche in backstage, ho comunque riscontrato ciò che volevo ottenere: mi hanno detto che la scelta era stata coraggiosa e azzeccata, avendolo proposto in milk e non in espresso. Probabilmente, se ci saranno altri baristi che vorranno seguire questa strada, avrò contribuito anch’io a creare un precedente su cui misurarsi in futuro.
Il Liberica dal 2018 è tornato popolare per via della sua riscoperta come specie particolarmente resistente ai cambiamenti climatici e diffusa in Asia. Non è una rarità difficile da coltivare, e può esser il futuro delle coltivazioni. Mi auguro quindi che se ne senta parlare ancora.
Anche Cristaud l’aveva presentato qualche tempo fa in purezza con il cezve ibrik, senza miscelarlo con altri ingredienti. Rischiare fa parte del mio percorso come competitor e quindi l’aver portato una varietà diversa è una scelta di cui non mi pento: negli anni è stato importante per me provare a presentare e raccontare qualcosa di unico che gli altri non avrebbero scelto.
Mi piace esser lo sfidante che fa ricerca e sceglie un caffè particolare, anche a costo di non arrivare per primo
Il momento delle gare è talmente importante per me, da dover impegnarmi nella selezione della materia prima.
Dal mondiale al nazionale sono passati 4 mesi ed è stato difficile rientrare nel setting da competizione: c’era talmente tanto lavoro di ricerca da svolgere, che mi sono sentito di spingere ancora di più. È stato comunque una delle migliori gare che io abbia mai fatto. Del secondo posto spesso si perdono le tracce, ma il lavoro dietro è stato utilissimo e continuerò a portarlo avanti.
Il Laurina lo abbiamo in listino con Peackocks coffee e decisamente mi è piaciuto di più, ma è una questione di un legame affettivo: l’ho visto direttamente nascere in piantagione. Anche se il Liberica ha il fascino di prodotto da scoprire e grazie ad Andy Prosser, amico Q Grader, ho capito un po’ meglio il suo assaggio.
Il problema grande del Liberica è che si tratta di una specie molto resistente sì, ma richiede una maggiore cura nella lavorazione, nel lavaggio, nella fermentazione più elevata, perché ha un frutto piuttosto grande che rende difficile da spolpare e da lavorare meticolosamente.
Di conseguenza gli aromi sviluppati sono aggressivi e a volte difficili da apprezzare. Sarebbe interessante lavorare sulle fermentazioni e sui processi di lavorazione: applicando un po’ i concetti applicati all’Arabica come le macerazioni carboniche, per migliorare il risultato finale in tazza.
Quindi è una ricerca da approfondire innanzitutto in piantagione. Poi sta al torrefattore collaborare a stretto contatto con le origini, per calibrare meglio i processi ed ottenere determinate caratteristiche. Deve instaurarsi dialogo tra i due ruoli.
Il Liberica poi è un black honey, per cui è stata lasciata la maggior parte della mucillagine del chicco ad essiccare per poi rimuovere subito la buccia. Poi mi sono occupato io della tostatura: ha degli acidi clorogenici rispetto agli altri verdi un po’ più bassi e non ha bisogno di uno sviluppo in tostatura eccessivo, mi sono fermato al medio-chiaro. Ho dovuto fare diverse prove.
Ovviamente per rendere possibile tutto questo, devo ringraziare la torrefazione DF dove mi preparo e Mumac Academy che mi ha sempre sostenuto.”
Per il futuro Pavoni?
“Ora ci sono una serie di progetti interessanti quest’anno che dovrò seguire e sono già piuttosto carico. Il lavoro non manca, tra le varie fiere in giro per il mondo, ci sono alcuni programmi che porterà avanti con la torrefazione e le scuole. “