domenica 22 Dicembre 2024
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Pizzinato, dopo un anno in giro con gli specialty: “Vi racconto qual è la barriera principale al prodotto”

Pizzinato: "Mi sento meno solo di quando ho iniziato dodici mesi fa. Adesso si è consolidato il nostro rapporto, che è diventato più costante. Lo stesso posso dire dei titolari che hanno scelto i nostri prodotti: sono felici perché possono dialogare con una figura professionale che spiega loro cosa acquistano e poi perché hanno riscontrato un concreto incremento nelle entrate per quanto riguarda la parte della caffetteria"

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MILANO – Marco Pizzinato, distributore di specialty coffee face to face: così lo abbiamo conosciuto nel 2022, quando ho avviato la sua attività come tramite tra microroasters e baristi nel nord Italia. Un lavoro a tratti difficile, non esente da sfide, che però ha dato i suoi frutti. Dopo un anno, torniamo a fare il punto con una panoramica generale sulla diffusione di caffè di qualità nella patria dell’espresso.

Pizzinato, un anno di lavoro a spingere lo specialty in Italia: com’è andata sin qui?

“È andata bene. Le difficoltà continuano ad esserci, devo ammettere: anche più di quanto pensassi. Ma ce la stiamo cavando e abbiamo buoni propositi per il 2023. Attualmente il 50% della mia clientela è commerciale – cioè chi serviva un caffè più industriale e ha voluto fare un passaggio verso lo specialty -, un 25% ha introdotto anche lo specialty e infine un 25% che tratta esclusivamente caffè specialty.

Fin qui la mia analisi dettagliata è questa: ho notato che la barriera principale è costituita proprio dalla scarsa conoscenza dello specialty coffee da parte degli stessi baristi e gestori, che spesso si rifanno alla loro esperienza professionale per valutare questo tipo particolare di prodotto.

In effetti, chi ha conosciuto lo specialty di una volta, cioè quello spesso caratterizzato da un’acidità estrema, è più difficile da coinvolgere. Questo perché nella sua memoria conserva il ricordo di una tazza molto diversa da quella che propongo oggi. Si ha come una sorta di pregiudizio: il cliente che lo ha assaggiato circa 4/5 anni fa, ha trovato dei gusti estremi al palato che quindi oggi spaventano quando gli viene offerto di nuovo.

Dunque a chi ha approcciato questo prodotto old style, lo specilaty è molto difficile da proporre. Una grossa differenza rispetto all’apertura che invece ho riscontrato nel consumatore finale che, paradossalmente, è più curioso del barista. Noi professionisti creiamo una rete solidale, ma al di fuori della community, così diventa faticoso far comprendere la necessità di evolversi e non soltanto in termini di materia prima di un certo livello, ma proprio nel format del locale.

La resistenza al cambiamento non è legata al timore di dover adottare un prezzo più elevato: le aziende che rientrano nel mio target spongono già un costo più alto in listino, quindi l’ostacolo sta proprio nel gusto, nell’abitudine. Che però è un finto problema: ovviamente io indirizzo verso un blend non estremo, una monorigine con note di cioccolato, pan tostato, che può non shockare.

Purtroppo ho imparato per esperienza, che la parola specialty allontana ed erge un muro con il cliente.

Quindi durante la prima visita ho iniziato a parlare di prodotti di altissima qualità, tracciabili, evitando di usare il termine specialty, che invece introduco soltanto in un secondo momento, dopo averlo fatto assaggiare e aver raccontato la materia prima nel dettaglio.

Questo avviene anche a causa del lavoro condotto sino a oggi dalla maggior parte delle medie torrefazioni, magari proprio i fornitori di fiducia, che, cercando di spingere le proprie monorigini facendole passare per specialty coffee, confondono i clienti ancora di più.

Così, quando arrivo io con degli specialty, trovo spesso persone che hanno un’idea di caffè non di altissima qualità associata al concetto di monorigine. A quel punto giustamente mi domandano una motivazione per una spesa da loro percepita come eccessiva per una bevanda che non funziona.

Quindi, se entro in un locale e rappresento per loro il primo contatto con gli specialty, ho maggiore possibilità di vendere il prodotto. Viceversa, il dialogo si fa più complesso.”

Ci sono aspetti che sono già cambiati? La rete di locali che vendono specialty si è ampliata?

“I numeri sono positivi. Girando ho constatato che non ci sono zone geografiche in tutto il nord-est che sono più aperte allo specialty di altre. Generalmente tutti sono convinti a priori che il problema sia legato alla loro area, quando invece il vero ostacolo è la mancanza di curiosità verso la materia prima.

Con le mani (il naso) in pasta (foto concessa)

Ho supportato molti clienti a svoltare nello specialty: una volta iniziato, dopo qualche settimana tutti mi hanno detto che non si aspettavano una reazione del consumatore finale così positiva. Ma è la realtà dei fatti: i coffeelovers in questi pochi anni sono aumentati tantissimo. Questa richiesta mi ha obbligato ad aprire un e-shop, perché tanti vogliono provare un caffè particolare e spesso diventa più pratico per loro acquistare online prodotti che hanno trovato in Fiera o nei locali.

Fortunatamente sono riuscito a mantenere integro al 98% quello che è stato sin dall’inizio il mio core business fatto di contatti faccia a faccia, ma la domanda dei prodotti è così aumentata dall’avermi portato ad aprire il mio primo e-commerce (qui).

In questo processo ho avuto il supporto dei micro roaster che mi hanno facilitato il passaggio online, lasciandomi carta bianca. Al The Milan Coffee festival ho realizzato che fosse necessario esser a disposizione con un e-shop, perché chi passava mi chiedeva dove potessero trovare quegli specialty sul web.”

I microtorrefattori che rappresenta sono soddisfatti di questo ponte che ha contribuito a creare per loro?

“Con chi attualmente collaboro abbiamo calibrato meglio la nostra relazione: si impara tutti insieme dagli errori. Ora supporto quattro torrefazioni, due italiane (una è Garage Coffee Bros con il progetto blend La Dolce Vita di Davide Cobelli, l’altra è Gear Box di Tommaso Bongini), e due straniere (Nordic Roasting Co di Copenhagen e Three Marks di Barcellona).

Mi sento meno solo di quando ho iniziato 12 mesi fa. Adesso si è consolidato il nostro rapporto, che è diventato più costante. Lo stesso posso dire dei titolari che hanno scelto i nostri prodotti: sono felici perché possono dialogare con una figura professionale che spiega loro cosa acquistano e poi perché hanno riscontrato un concreto incremento nelle entrate per quanto riguarda la parte della caffetteria.

Ricevo chiamate da molti micro torrefattori italiani per assaggiare i loro caffè e vedere come intraprendere un percorso insieme. Durante le fiere capita spesso di incontrare nuovi professionisti con cui eventualmente costruire un progetto condiviso.”

E quindi ora dove vorrebbe insistere nel suo percorso?

“Ho appena portato a casa il Coffee Diploma di Sca, certificazione che viene data soltanto quando si superano i 100 punti sul totale dei corsi che si conseguono (necessari 8/9 minimo). Mi sto formando anche come giudice tecnico per poter scendere anche in pedana. Ed entro la fine del 2023 vorrei diventare anche Q Grader per rafforzare la parte sensoriale della tazza.

Infine, il focus per quest’anno sarà poter agganciarmi ad un collaboratore per coprire una nuova zona verso ovest e centro Italia, magari arrivando anche in aree più distanti verso sud e le isole. È un progetto in divenire, ma la cosa certa è che qualsiasi sarà l’esito, non scenderò mai a compromessi sulla qualità di prodotti e servizi.”

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