mercoledì 30 Ottobre 2024

DOPO REPORT, SCRIVE LUCA MAJER – Il programma sul tema caffè e capsule ci ha parlato su tre livelli comunicativi, uno più coinvolgente del precedente. Un favore agli italiani?

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Il Report su caffè e capsule (Rai3, 7 aprile 2014) ci ha parlato su tre livelli comunicativi, uno più coinvolgente del precedente. Un favore agli italiani?

di Luca Majer *

Addetti ai lavori o non, il Report sul caffè ha intrigato tutti alla grande. E ci ha parlato su tre livelli. Il livello in chiaro, il primo, diceva due cose. Che gli italiani, in media, bevono un caffè di origini non eccelse, anzi mediocri (niente di nuovo, per chi legge le statistiche ICO) e, in secondo luogo, che molti italiani non lo sanno. E ciò è noto a chiunque offra un Yirgacheffe all’amico e questo ne lascia metà in tazza.

 

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Certo, si poteva trovare da discutere sui dettagli – ma è stato intrattenimento di buon livello sentir  parlare di caffè Edy Bieker o Luigi Odello. E ovviamente Andrej Godina – alla faccia dei suoi rottamatori. Ma le due trasmissioni (includendo anche il Report sulle capsule edibili) intrigavano maggiormente per gli altri due livelli di lettura, progressivamente più impliciti. E virulenti.

 

Il primo di questi ulteriori livelli interpretativi, o meta-livelli, diceva: gli italiani del caffè saranno brava gente, ma ce n’è anche “campioni imbattuti di cialtronismo cronico” (uso qui il termine de L’Espresso). Questa sensazione a taluni l’ha comunicata la stroncatura del Gambrinus o le immagini del caffè che nell’erogazione si portava i fondi in tazza. Ma altri dettagli erano quasi subliminali. Prendete l’intervista in Kimbo: quando Bernardo Iovene fa per – sacrosantemente – iniziare “… dicono che la robusta sa di legno, di terra…” giurerei che dietro le spalle dell’intervistatore una testa facesse proprio “no, no” quasi imbeccando la risposta. Poco ha servito che il “qualità panel leader” aziendale rispondesse a tono (che no, che dipende dal grado del Vietnam che si compra e che il grado 2 non lo compriamo mica) considerato che i famigerati grado 2 e 3 vengono poi trovati, in un magazzino.

E parlando di compostabilità delle capsule, le espressioni erano (sottolineature mie): “L’evoluzione sarà quello di trovare il modo per cui queste cialde possono essere sostanzialmente smaltite come un qualunque umido”; oppure “La cosa più bella che dovrebbe avvenire spero nel più breve tempo possibile è plastica compostabile”. Quindi fede e speranza nel futuro, che mancava la carità per fare tris di virtù teologali. Mica affermazioni del tipo: “da tempo offriamo anche una soluzione eco-amichevole” – plausibile, considerato che la tecnologia è già disponibile.

La vera “sorpresa” è arrivata però la settimana seguente, quando Report manda in onda “l’inventore delle bio cialde”. In realtà non l’unico a proporre soluzioni eco-sostenibili, e comunque neppure lui esentato da piccoli dettagli curiosi annotati da Report. Introdotto come uno che in Italia “non se lo filava nessuno” mentre avrebbe trovato l’Eldorado a Osnabruck, s’è mangiato la capsula davanti alla telecamera. Eppure nel contempo alle sue spalle s’intravedeva una donna che si copriva il volto con le mani. Possibile che stesse quasi ridendo, nella penombra? E perché mai?

La sensazione non migliorava andando ad intervistare i consumatori. Quella che Report riprende è “piccola gente” che ci mette del suo per vivere in un mondo che getta capsule e caffè in pattumiera perché sì “dovrei riciclarle, ogni volta lo dico ma non lo faccio mai” e poi tanto “non so dove metterle“.

 

Dettagli del tutto innocenti che Report avrebbe ben potuto tagliare. A meno di accettare il rischio di diffondere una sensazione d’Italia terra di pseudo-professori, brancaleoni, pressappochisti. Diciamo che non fosse voluto, ma questo secondo livello esprimeva un retrogusto dai “netti sentori di cialtroncello”. E mi son chiesto: a chi conviene raccontarla così? Non ai torrefattori. Non ai baristi. Non ai consumatori. Ma neppure a Reporter. Perchè non conviene all’Italia, da tempo soggetta ad una propaganda recessionista & pessimista e con una popolazione oramai depressa a sufficienza.

 

Perchè non ricordare anche come da noi il livello nella preparazione del caffè sia, in media, migliore che nel resto del globo – escluse forse un paio di strade a Seattle? Sappiamo che mille cose rallentano oggi l’Italia, ma la Canephora (non foss’altro per l’alto tenore di caffeina) e il purge non hanno grandi colpe. Piuttosto pensiamo alla giungla normativa o al carico fiscale strabordante. Quindi, forse, andava chiesto anche questo ai baristi: perché accettate contratti vincolanti e caffè così-così? Davvero per “cultura del caffè”, o per una cultura nazionale tesa al “saldo continuo”? E ciò forse anche perché gli introiti sono pochi, i costi tanti, e – a livello di aiuti –  lo stato sventola bandiera bianca?

 

Il terzo livello di comunicazione era ancora più fastidioso. Saltava fuori quando riflettevi su chi fossero i veri colpevoli della triste situazione. E Report rispondeva: un po’ tutta la filiera. Un po’ i torrefattori che, concentrandosi sul lucro, comprano caffè “mediocre”. Un po’ se la cercano i baristi, che fan spallucce e cercan scuse invece di purgar le macchine e seguire “percorsi formativi”. E un po’ dobbiamo ringraziare anche i consumatori, che spesso non s’informano eppur s’adattano.

 

Se il taglio del racconto era quello del “giornalismo investigativo” (con pochi graziati e due grandi omissioni: i produttori di macchine, il vending), il leit-motiv che Report faceva affiorare era apparentemente buonista: nessun colpevole, poiché quasi tutti colpevoli. Ma il vero messaggio nascosto di questo terzo livello, dietro il velo pietoso che nessuno risparmiava e quindi tutti perdonava, era da vero knock-out. Essendo pressoché tutti colpevoli, dal sistema nessuno può uscire. Né le torrefazioni, che “esternalizzano le diseconomie” (banalmente: scaricano problemi, o chicchi neri, agli altri). Né i bar, che in qualche modo devono pur tener botta ai cali dei consumi. E gli utenti? Figurarsi se hanno tempo per acculturarsi. Giusto c’è il tempo di bersi 5 o 10 caffè al dì e arrancare dietro al tran-tran. Non sorprende che l’Espresso abbia chiosato: “Impossibile inventare speranze in un paese dove tutto (…) gronda malafede e insolenza“.

 

La domanda che farei a Report o alla RAI è invece questa: chi servite con un messaggio così livellato verso lo “io speriamo che me la cavo“? Se proprio non volete pescare nelle eccellenze, siete sicuri di non aver confuso l’effetto con la causa? La cultura della qualità a spirale verso il basso l’ha veramente inventata il settore italiano del caffè? Cosa? Parlate sul serio?

 

Negativo per negativo, avrei intervistato Bronwyn Delacruz, canadese dell’Alberta. Notando che la Canadian Food Inspection Agency aveva cessato i controlli della radioattività sulle alghe e pesci venduti nel suo paese, Bronwyn s’è fatta regalare da papà un geiger. Poi ha testato alcuni mercati rionali, trovando che in molti casi le radiazioni superavano il limite legale. La sua ricerca non parlava di furano del caffè, bensì di Cesio-137: roba che attacca la tiroide – prima quella dei bambini e poi… sono diavoli amari. Ma mi spiego con parole da settore del caffè.

 

Se, in prima serata, alla RAI garba mettere in questione i limiti europei di cessione della plastica e lascia definire (con… lieve sentore di parte) cancerogene le cessioni delle capsule in plastica, perchè non usare la stessa veemenza con quelli delle bottiglie d’acqua e delle norme RoHS per le macchine da bar? E, migliorando progressivamente la mira, perchè non chiedere di cessare la produzione di quegli accertati generatori di cancro detti motori diesel? E vietare l’ingegneria genetica, ormai collegata da vari studiosi all’incremento epocale delle allergie? Nel contesto generale, usare come “capro” il caffè finisce per sembrare uno di quegli stratagemmi che i borsaioli usano per sfilarti il portafoglio: distrarti con qualche mossa diversiva.

 

Consigli? Uno era già stato formulato dal Fatto Quotidiano, tempo fa: che Report pubblicizzi “percorsi incredibili di sostenibilità e azione positiva“. Insomma, Report, parlaci anche di Jon Dee oltre che di Clooney e delle 300 tonnellate annue di capsule Nespresso riciclate. Ma soprattutto – affinché i nostri figli abbiano un futuro – istruiscici sul blogger che a sue spese pubblicizza le 400 tonnellate di acqua diarie che si tramutano in radioattive, a Fukushima, e delle quali però nessuno parla. E fa’ parlare la gente che si piaga quando va in spiaggia, nel golfo del Messico, ma non ha i danari per raccontarlo al mondo, eppure tiene duro.

 

In somma? La verità sul sistema-caffè-Italia l’ha sintetizzata il CEO Lavazza, Baravalle: “siamo i più piccoli tra i grandi e i più grandi tra i piccoli“. Lui lo diceva per Lavazza, ma vale anche per l’Italia, come settore. Il che vuol dire prepararsi ad assistere al consolidamento, la valorizzazione e re-impostazione di marchi storici italiani, ceduti ad aziende globali. Ma anche i piccoli e medi torrefattori dovranno imporsi un mutamento strategico di rotta per tener botta ad un mercato sempre più complesso, ricco e costoso da penetrare stabilmente.

 

Per usare un termine desueto, senza progettualità fra qualche anno Starbucks e Autogrill non solo saranno insieme a Zaventem (l’aeroporto di Bruxelles, dove oggi Autogrill Belux NV vende un tall coffee frappuccino a 5,20 Euro), ma pure da noi e non solo all’aeroporto. In gergo pugilistico sarebbe un gancio telefonato.

 

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Gli scontrini delle consumazioni alla caffetteria dell’aeroporto di Bruxelles

© www.LucaMajer.com

 

 

 

 

 

 

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