martedì 29 Ottobre 2024

Mafia: bar, ristoranti, caffetterie e locali esclusivi per riciclare il denaro sporco

Dalle indagini, dei dati inquietanti: sono 5 mila i ristoranti del nostro Paese finiti nelle grinfie della criminalità organizzata. Oltre alla ristorazione, i clan hanno interessi anche sui prodotti da tavola al top del made in Italy. Coldiretti: “Il volume d’affari complessivo dell’agromafia è salito a 21,8 miliardi" di euro (+30% in un anno).

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ROMA – Si comprano meno case, ma si va sempre più spesso al ristorante. E così, con la crisi del mattone, l’enogastronomia diventa il primo settore d’investimento di ’ndrangheta, camorra e «Cosa nostra» per riciclare denaro sporco.

Dal Caffè de Paris di Roma, al Donna Sophia dal 1931 di Milano e Villa delle Ninfe di Pozzuoli, in provincia di Napoli, sono 5 mila i ristoranti del nostro Paese finiti nelle grinfie della criminalità organizzata.

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Oltre alla ristorazione, i clan hanno interessi anche sui prodotti da tavola al top del made in Italy.

A partire dalle arance della ’ndrina calabrese Piromalli e l’olio extra vergine di oliva del re de latitanti Matteo Messina Denaro, fino alle mozzarelle di bufala del figlio di Sandokan del clan dei Casalesi e al controllo del commercio della carne da parte della ‘ndrangheta e di quello ortofrutticolo della famiglia di Totò Riina.

Polizia, carabinieri, guardia di finanza, spesso sotto la regia della Dia, la Direzione investigativa antimafia, intensificano la loro attività – 200 mila controlli solo nel 2016 – contro questa escalation di affari loschi.

E la Coldiretti, in occasione della recente presentazione del quinto rapporto sui crimini agroalimentari (#Agromafie2017), elaborato assieme ad Eurispes e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, punta il dito contro il business enogastronomico delle cosche.

I numeri sono allarmanti. «Il volume d’affari complessivo dell’agromafia è salito – evidenzia la Coldiretti – a 21,8 miliardi di euro (+30% in un anno) perché la filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni criminali.

L’agroalimentare è divenuto una delle aree prioritarie di investimento della malavita che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la via quotidiana della persone.

Trentamila i terreni agricoli in mano alla criminalità». Tra i risultati nefasti c’è anche la moltiplicazione dei prezzi che per l’ortofrutta arrivano a triplicare dal campo alla tavola, ma anche pesanti danni di immagine per il made in Italy nella Penisola e all’estero, se non addirittura rischi per la salute dei consumatori.

L’attenzione dei clan mafiosi sul mondo della ristorazione è a 360 gradi, dal franchising ai locali esclusivi, da bar e trattorie ai ristoranti di lusso e aperibar alla moda. E intanto ristoranti, bar, bistrot costruiscono la migliore copertura per mascherare guadagni frutto delle attività illecite: traffico di droga, estorsioni, strozzinaggio.

I pubblici esercizi – grazie alla complicità di imprenditori collusi che vendono una parte delle proprie quote – sono assai utili alle associazioni criminali in quanto hanno una facciata di legalità dietro la quale è difficile risalire ai veri proprietari e all’origine dei capitali [Grazia Longo]

TORINO – La rete dei clan: dalle pizzerie al vecchio Bar Italia

In un angolo di periferia torinese, non lontano da due caserme di polizia e carabinieri, alcuni anni fa, prima della sua chiusura, era in piena attività il Bar Italia, un locale che era qualcosa di più di un semplice esercizio commerciale in mano alla ’ndrangheta. Era una sorta di «santuario» criminale, un luogo «battezzato», o per meglio dire, «purificato» con formule ancestrali di santi e devozione, per accogliere ai massimi livelli gli esponenti della «onorata società» e le convention degli affiliati.

«In questi locali “dedicati” – scrive in un passo dell’Atlante delle mafie il pubblico ministero Roberto Sparagna, magistrato che ha indagato per anni sull’infiltrazione delle cosche calabresi in Piemonte – vengono svolte attività solo apparentemente lecite. In realtà, tali esercizi commerciali sono stati trasformati in attività completamente mafiose, totalmente asservite alle necessità della consorteria».

Sul fronte del riciclaggio, nel 2011, la Dia di Torino sequestrò per conto della procura di Napoli, in una delle piazze settecentesche della città, piazza Savoia, la pizzeria «Regina Margherita», locale inserito in una rete in franchising presente anche a Genova, Bologna, Varese e Napoli. Secondo gli inquirenti campani, in quella rete di pizzerie veniva riciclato il denaro del clan camorristico Potenza-Iorio.

E se i locali non vengono controllati dalla criminalità organizzata, i clan si offrono come «partner» per garantirne la sicurezza. Gli investigatori chiamano «guardiania» questo ambiguo rapporto di protezione e vigilanza.

A Torino, gli atti processuali, raccontano la storia della pizzeria «Il Picchio», inserita in un’area rimaneggiata da uno dei più imponenti interventi di recupero urbano della città, protetta da un clan di ’ndrangheta.

Una sera, il titolare chiamò due «protettori» per un allontanare un avventore. Il cliente fu picchiato brutalmente.

A dimostrazione che la presenza nel ristorante dei protettori «era – si legge in una sentenza della Cassazione – in funzione di controllo dell’attività e degli avventori per conto dell’associazione mafiosa». [Massimiliano Peggio]

ROMA – Sigilli ai locali del “dominus” dell’evasione

Anche stavolta i sigilli della Guardia di Finanza hanno bloccato le porte di ristoranti di grido della Capitale. Il Varsi Bistrot in via della Conciliazione; il Frankie’s Grill in via Veneto; Augustea in viale Trastevere; La Scuderia e La Piazzetta del Quirinale (già Al Presidente: noto alle cronache perché un paio di anni fa a sette turisti thailandesi fu presentato un conto da 1.235 euro.

I malcapitati denunciarono che gli erano stati addebitati 15 kg di pesce fresco, per totali 900 euro, mai richiesti e soprattutto mai consumati) in via in Arcione, dietro la Fontana di Trevi. E poi ci sono terreni, una villa, una società operante nell’enologia con annesso locale aperto al pubblico, e le quote di altre otto società che controllano diversi bar e pizzerie.

Con un colpo solo, la magistratura romana ha sequestrato un patrimonio di 10 milioni di euro utilizzando le misure di prevenzione patrimoniale.

Colpito dal sequestro è l’imprenditore della ristorazione Francesco Varsi, originario della Campania, classe 1947, il «dominus» di un articolato sistema societario, attraverso il quale era stato schermato un ingentissimo patrimonio, assolutamente sproporzionato rispetto alla sua capacità reddituale. «Modestissima, stando alle dichiarazioni dei redditi», spiegano gli investigatori.

Una lunga e brutta storia di precedenti lo accompagna: nel periodo che va dal 1966 al 2011, l’uomo ha accumulato oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, vendita di prodotti industriali con segni mendaci, minaccia, emissione di assegni a vuoto, lesioni personali, furto e rapina.

Ma questo è il passato.

Il presente di Varsi, come raccontano le carte dell’operazione Boccone amaro, sono abili evasioni fiscali, portate avanti grazie a un labirintico reticolo di società, e scientifico reinvestimento nel settore della ristorazione. Lo hanno definito un «imprenditore specializzato nel delinquere nel settore tributario». [Francesco Grignetti]

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