MILANO – In Italia la scena dello specialty, le tostature più chiare, monorigini, sono tutti concetti un po’ sconosciuti e ancora molto da sviluppare: questa verità è ancora più presente al sud dello Stivale, dove il rito dell’espresso è una tradizione che si porta dietro parecchi limiti lungo lo sviluppo di una filiera più sostenibile per l’ambiente, per le società all’origine del chicco e per l’innalzamento della qualità della stessa bevanda. Proprio per questo incontrare torrefattori giovani che hanno voglia di cambiare le cose a partire dalla propria attività, ha una valenza importante per tutto il settore: ecco che su questi temi ci siamo confrontati con Luigi Paternoster, che ha preso l’attività di famiglia Pierre Cafè pugliese e l’ha trasformata in un’impresa aperta all’internazionalizzazione.
Paternoster, un torrefattore del sud che parla di specialty: com’è la scena in Puglia? Difficile da educare?
“In realtà sono stato tra i primi in Italia a lavorare con gli specialty, in seguito ad un’esperienza all’estero grazie alla quale ho iniziato a interessarmi alla Third Wave: ho provato a portare ciò che avevo appreso a casa, in provincia di Bari. Abbiamo fatto diverse esperienze in dieci anni, da allora sino a oggi: abbiamo iniziato a gamba tesa, sono arrivato con lo spirito del purista, e ho portato gli specialty ai clienti di mio padre, perdendoli tutti – ride Paternoster – La mia visione però era quella giusta, perché nel lungo termine sono riuscito a selezionare la clientela della mia zona, nel resto d’Italia e anche quella all’estero.
Ho iniziato con gli specialty e poi però mi sono accorto che allontanavo la gente anziché avvicinarla e allora ho cambiato strategia: ho voluto proporre in alternativa anche miscele con Robusta, ma sempre di qualità. Mi sono così appassionato anche al mondo di questa varietà botanica, oltre che al prodotto specialty.
Ho realizzato che c’è un po’ un pregiudizio su questa varietà. Ma a me piace tostare e sperimentare nel mio lavoro e andare più in profondità sulla materia prima: così ho voluto tentare con un metodo di cottura differente per la Robusta. È risaputo che ne esistono di qualità, io stesso ne ho assaggiato che erano davvero particolari e sembravano delle Arabica. Certo, essendo competitiva sul prezzo, anche le lavorazioni sono di bassa qualità. Ma se raccolta e lavorata in un certo modo, può dare grandi soddisfazioni.
Produco tre e quattro miscele con una percentuale di Robusta di qualità del centro America, uso di più quella che arriva dall’India Capi Royal, lavata, un metodo di lavorazione che gli toglie tanto del suo sapore tipico legnoso. Avendo questo gusto neutro, esalto le Arabiche che miscelo con la Robusta e riesco a conferire al blend anche una nota cioccolatosa che è più facile da proporre ai bar italiani. Ma sto notando che anche nei Paesi in cui producono soprattutto la Robusta stanno introducendo delle varietà migliori.
È un buon compromesso: una miscela di qualità più vicina al gusto degli italiani. Entrare solamente con uno specialty è un po’ impossibile. Arrivare nei bar con una proposta di questo tipo è già un passo in avanti, che poi può evolversi in un affiancamento al macinino con lo specialty. “
Ma lei è stato anche tra i migliori nella categoria italiana roasting per tre volte di fila: che cos’è la torrefazione per lei? Che cosa ha imparato su questo processo?
“Questo è perché tosto da quando ero piccolissimo, da quando avevo 16 anni. Avevo tanta pratica alle spalle. Poi con l’esperienza all’estero ho approfondito la parte più tecnica e tornando a casa ho unito le due cose: il naso, l’occhio, l’orecchio si sono sposati con gli aspetti più scientifici. Io insegno anche la parte artigianale che oggi è un po’ sacrificata per stare attaccati agli schermi del pc.
Molte volte io non lo uso neppure, neppure in gara: alle competizioni mi ha iscritto mio fratello. Ho provato e sono arrivato secondo già la prima volta. Non pensavo di esser così bravo, soprattutto nella fase dell’assaggio. Da lì ho deciso di partecipare ogni anno, anche perché mi piaceva l’ambiente e mettermi alla prova. Sono sempre arrivato sul podio. Questo mi ha dato più sicurezza sulle mie competenze di torrefattore. Penso in futuro di poter partecipare ancora quando ci sarà di nuovo l’occasione: adesso devono fare il mondiale.”
Con Pierre Cafè avete deciso di usare due tostatrici diverse, GIESEN W6 e IMF RM15: come mai avete fatto questa scelta?
Spiega Paternoster: “Una è olandese e tosta a conduzione. Quindi il caffè viene riscaldato direttamente dalla fiamma sotto al tamburo. L’altra procede per convezione: non c’è la fiamma, ma un flusso d’aria che entra nel tamburo e scalda il caffè con l’aria. In questo modo c’è minor contatto diretto con il verde, che rischia di bruciare più al suo interno. Penso di esser l’unico a farlo: perché alcuni caffè vanno tostati con un metodo rispetto ad altri. Mi piace sempre sperimentare cose diverse e questa scelta mi ha fatto scoprire nuove cose e mi ha dato molte soddisfazioni. Il caffè cambia nel chicco stesso, nell’umidità, nella densità, a seconda del momento dell’arrivo rispetto al raccolto e tutti questi elementi insieme ne influenzano la cottura.
Bisogna sempre provare. Quando mi arriva un verde io lo provo con entrambe le macchine e così dal risultato riesco a capire con quale delle due si esaltano più gli aromi. La differenza c’è anche tra Arabica e Robusta: soprattutto la seconda ha bisogno di un cambio di tecnica e approccio. Non si può pensare di tostare una Robusta allo stesso modo dell’Arabica. Tosto la maggior parte della Robusta con la Imf, soltanto un caso ha dato un migliore risultato con la Giesen. Quindi posso dire che non dipende esclusivamente dal tipo di varietà. “
Paternoster, per i vostri specialty, avete un contatto diretto con i coltivatori? Cosa proponete?
“Ho iniziato con Pierre Cafè a fare specialty, poi una volta che ho aggiunto le miscele, ho deciso per una questione di maggiore chiarezza di creare un marchio a parte dedicato proprio agli specialty che superano gli 80 punti, il Son of Coffee. Siamo stati anche in piantagione in Colombia, dove abbiamo conosciuto i produttori. Solitamente li cerchiamo noi per avere un contatto diretto e trovare prodotti particolari. Siamo molto esigenti: l’80% dei campioni che arrivano quasi tutte le settimane, li rispedisco indietro, perché voglio solo dei caffè che mi lascino dentro qualcosa.
Ne ho diversi e cambiano ogni mese: al momento, abbiamo un Etiopia anaerobico, lavato ma fermentato con il succo della polpa della ciliegia, un Guatemala lavato, anaerobico, uno fermentato con l’acqua ghiacciata – ho scoperto che il freddo provoca una fermentazione che quasi brucia e cambia proprio a livello di gusto – e li ritengo i migliori lavati che ho mai assaggiato. Ma spero sempre di esser stupito, sono viziatissimo. Ho parecchi naturali: Nicaragua, El Salvador, Kenya (anche lavato). “
E dell’Eugenoides?
“Ho avuto la fortuna di assaggiarlo questo inverno da Victoria Arduino. È veramente particolare. Il problema è che è quasi introvabile e ha un costo veramente eccessivo. Un’altra cosa che io valuto è proprio quello: per esempio ho smesso di acquistare anche i Geisha per scelta. Prima li avevo sempre in listino, ma per una questione di principio non lo ritengo un caffè da ritirare per il momento.
Preferisco delle varietà meno conosciute o altre più comuni ma antiche come la Caturra, che se lavorato in un certo modo può avere un’ottima resa. I Geisha ovviamente hanno delle note floreali, sono buonissimi caffè, ma devo tener conto del rapporto qualità prezzo: molto spesso si paga il nome piuttosto che il suo valore. Dai 90 punti in su sono tutti molto buoni. Mi piacerebbe assaggiare la Coffeea Stenophilya, e sono già in caccia.”
Paternoster, ma Pierre Cafè si occupa anche di tè e infusi specialty con il brand King of Camellias: ce ne parla? È ancora più insolito concentrarsi su questa bevanda in Italia e per di più in foglie.
“Mio fratello è tea sommelier. Io poi ne bevo tantissimo. Anche questo è un mondo pieno di storie e di fascino che ci ha molto appassionati. Lui ha passato tanti anni all’estero, anche in India e così ha iniziato a conoscere la Camelia e le sue lavorazioni. Insieme agli specialty è un prodotto che si sposa con la scelta della qualità. La linea King of Camellias la vendiamo per la maggiorparte all’ingrosso. Acquistiamo sacchi da 30 chili, prepariamo le miscele di tè e le vendiamo anche a molti torrefattori. Selezioniamo con la stessa cura e assaggio che applichiamo al caffè.”
Dal sud Italia all’estero: ci può parlare del progetto a Ginevra di The Barista Lab?
“Abbiamo sviluppato questo progetto con Guzel e Dani, due ragazzi svizzeri volevano aprire questo locale a Ginevra sugli specialty che mi hanno chiesto una consulenza e un supporto alla formazione. Abbiamo creato il bancone studiato in modo tale da sfruttare bene gli spazi nella caffetteria, abbiamo studiato il mercato locale e alla fine abbiamo aperto The Barista lab, oggi punto di riferimento per gli specialty a Ginevra. Dentro ho piazzato una miscela specialty di soli Arabica, Brasile e Honduras che preparo come private label. E poi tutta la gamma di Son of Coffee, quindi le monorigini in vendita da 250grammi e con tutti i metodi di estrazione per i brunch.”
Come deve evolversi la torrefazione italiana per fare finalmente quel salto di qualità necessaria nei bar che non di specialty?
La visione di Paternoster: “Negli ultimi mesi il prezzo del caffè ha subito un grande aumento anche per quelli più commerciali. Chi ci lavora e prima pagava meno, ora deve comunque aumentare i costi. Invece per noi che lavoravamo già con gli specialty e avevamo un prezzo più indipendente dal mercato, non ha fatto una grossa differenza.
Al momento sto assistendo ad un abbassamento della qualità ulteriore, perché pur di restare al prezzo di un euro, si trovano in giro delle cose spaventose. Dall’altra parte, anche i bar usano la formula del comodato d’uso, sono alle strette: per contratto sono obbligati a rispondere al prezzo dei torrefattori che lo hanno aumentato e quindi i margini sono ancora più ristretti. Molti allora si stanno scollando da questa modalità. Spero che questo porti a una maggiore consapevolezza da parte dell’operatore, che si muoverà verso l’indipendenza sia per l’attrezzatura di proprietà che per il caffè che potrà finalmente scegliere di qualità. Chi ha la sua macchina è padrone del prodotto che acquista.”
La formazione dei baristi può essere incentivata dagli stessi torrefattori?
“Al contrario di molti che pensano che siccome in Italia non si beve un espresso di qualità, il barista si disinteressa, io penso invece che il consumatore sia attento e sappia riconoscere la qualità. Quando assaggia un prodotto buono, lo riconosce. La formazione è importantissima, noi la incentiviamo di continuo: un bar per esser mio cliente deve imparare da noi per stringere una collaborazione. Non tutti lo fanno, ma ho fissato un programma di 2 ore alla settimana per 3 mesi, dedicati proprio alla crescita professionale. Parliamo di caffè, tè, pulizia ma comprendiamo anche una parte più dedicata al marketing e al fare rete con i produttori di macchine. Condivido tutto il mio know-how.
So che questo è un periodo di crescita per i bar. Molti stanno scegliendo di metter un tostino nel proprio locale per prepararsi il proprio caffè. Bisogna imparare a farlo però, oltre ad aver bisogno di tempo. Senza complicarsi troppo la vita, è anche solo bello entrare in una caffetteria e trovare un’offerta variegata tra le micro roastery.”
Paternoster, come avete reagito alla pandemia e ora anche ai rincari della materia prima e alle difficoltà dei trasporti?
“Abbiamo reagito così: durante la pandemia abbiamo creato nel 2020 uno spazio di 100 metri quadrati per fare un laboratorio. Ho imparato anche a fare il muratore in quella occasione – scherza sempre Paternoster – abbiamo spostato lì le nostre macchine. Poi abbiamo un open space in cui tenere i corsi, con due macchine al loro interno. Ora, con l’aumento dei prezzi, non abbiamo avuto particolari problemi, lavorando soprattutto con gli specialty. Abbiamo accusato meno il colpo. Certo abbiamo aumentato il prezzo di un euro sul listino, ma è stato un piccolo rincaro che per i nostri clienti non è stato un problema. Ma in generale noi siamo per un aumento generale della tazzina, che deve spostarsi da un euro.”
Cosa ne pensa di un eventuale riconoscimento Unesco?
Paternoster: “E’ un argomento molto sentito da tutti. Secondo me l’espresso va riconosciuto come metodo di estrazione inventato in Italia. Fa parte della nostra cultura, del nostro modo conviviale. Chiaramente se parliamo invece di qualità, non sono d’accordo. Sono un cultore dell’espresso che è anche il participio del verbo esprimere: è quindi espressione di tante cose, aromi.”
E invece delle capsule, che ci dice?
“Il fattore della sostenibilità è magari superabile adesso con delle soluzioni compostabili, che però lo siano effettivamente. Per quanto riguarda la qualità del caffè nelle capsule il discorso è complicato: io lavoro anche con un’azienda che le produce. È difficile fare della qualità se si vuole restare competitivi sul prezzo con gli altri. Ma se si esce da questa logica di mercato, c’è modo di realizzare un prodotto di buon livello. Noi non le vendiamo, ma da un po’ di anni mi hanno incuriosito e sto studiando questo sistema. Mi piacerebbe un giorno creare una capsula con dei caffè specialty per cercare di fare qualcosa di personalizzato.”
Quali sono i progetti futuri per Paternoster e Pierre Cafè?
“Ho un libricino al mio fianco con una lista di cose che vorrei realizzare. Parliamo di caffè: abbiamo aperto dal 2020 la nuova sede, ma ancora non abbiamo avuto modo di farla funzionare come vogliamo. Ci stiamo lavorando con i corsi, ma vorremmo creare un po’ di automatismi in azienda per ottimizzare i processi al 100%. Siamo solo in tre ad occuparcene e vorremmo migliorare l’organizzazione interna e così dedicarci a tutto il resto.
Per noi non ci sono sogni, ma obiettivi. Il nostro lavoro è anche quello di avvicinare i nostri clienti allo specialty: abbiamo già creato un piccolo movimento in Puglia, anche nei confronti di altri torrefattori a noi vicini, ma vorremmo che tutti insieme formassimo una rete coesa. Lo facciamo unendo formazione, miscela tradizionale ma di qualità al mondo dello specialty e una comunicazione efficace.”