MILANO – Nel 2002 ha vinto il primo campionato italiano baristi, nel 2012 ha vinto il Passionate Educator Award nel mondo, nel 2016 e 2017 è stato premiato come Best Trainer Ambassador, nel mondo e nel settore è conosciuto come il papà della latte art e sono tante le attività dell’industria caffeicola che hanno collaborato con lui: chi è? Luigi Lupi, che non si ferma mai: proprio mentre era in procinto di partire per uno dei suoi viaggi di lavoro, lo abbiamo intercettato per fargli qualche domanda essenziale per condividere il suo punto di vista sul contesto attuale che tutto il comparto sta vivendo.
Lupi, molti dei baristi che stiamo intervistando hanno fatto il suo nome: lei è il responsabile di questa nuova generazione di operatori formati e, soprattutto appassionati. Che cosa ne dice?
“Beh che dire. Io ho avuto il privilegio di aver vinto il primo campionato italiano baristi nel lontano 2002, quando già utilizzavo la tecnica che oggi si chiama Latte art. Qualche settimana più tardi fui a rappresentare l’Italia ai Campionati del mondo ad Oslo (4° classificato) dove concorrenti e pubblico videro come io preparai i 4 cappuccini con la tecnica del “ Latte art”.
Da quel momento in poi, ricevetti numerosi inviti in diversi paesi esteri per insegnare come fare i cappuccini e di conseguenza divulgare la cultura dell’espresso italiano. Ebbi il privilegio quindi di essere stato il primo a mostrare al mondo intero come un campione barista italiano preparasse espressi e cappuccini. Per questo motivo sono diventato famoso. Man mano che passava il tempo mi rendevo conto sempre più che le persone che frequentavano i miei corsi ne uscivano sempre coinvolte, affascinate e appassionate. Forse perché trattavo loro come colleghi e non come studenti. Forse perché non mi sono mai posto su di un gradino più in alto di loro nonostante fossi considerato un “Guru”.
O forse perché ho sempre dato ai miei interlocutori il massimo delle mie energie, facendo anche notare i miei limiti nelle conoscenze merceologiche. Io considero il mio lavoro una condivisione di informazioni ed esperienze, non un insegnamento. Forse questi sono i motivi per cui ho vinto nel 2012 il “Passionate Educator” messo in palio da Sca, premio che mi ha dato sempre più prestigio e credibilità nel mondo del caffè.”
“Fare formazione è una grandissima responsabilità; un formatore può fare avvicinare o allontanare completamente le persone a questo meraviglioso settore. E con un poco di presunzione, mi permetto di dire che nella mia lunga esperienza lavorativa penso di aver cambiato la vita di molte persone”
Nelle sue numerose esperienze di viaggio, lei che è sempre in movimento, ci può dire perché in Italia il problema dell’euro a tazzina è così sofferto? Ovunque nel mondo si paga molto di più: cosa ne pensa?
“Ci sono paesi in cui l’espresso è veramente a un prezzo più alto, vedi il Regno Unito, la Svizzera, dove però anche il costo della vita è ben differente rispetto al nostro. All’estero il proprietario o il manager di un pubblico esercizio, quando deve calcolare il break even point, ha ben chiaro ciò che sono i costi totali d’esercizio e di conseguenza fissa i prezzi di bevande e cibi. Vengo subito al nocciolo senza giri di parole e rispondo con una domanda: se i proprietari di bar dovessero comprarsi a loro spese tutte le attrezzature per la caffetteria e non riceverle in comodato dal fornitore di caffè, avrebbero ancora qualche problema ad aumentare il prezzo della tazzina”?.
Non penso proprio: non avrebbero nessuna esitazione e sarebbero costretti ad aumentare il prezzo della tazzina, ed il consumatore lo accetterebbe come per qualsiasi altro prodotto. Chi non vuole aumentare il prezzo della tazzina ha paura, e la paura esiste nella persona che non ha conoscenza, che non conosce ciò che vende, che non è formata. Personalmente sono dell’idea che la concorrenza al ribasso non porti mai a risultati positivi. Quando avevo il mio locale, cercavo di accaparrarmi clienti con il servizio e con i bei modi. Nella mia caffetteria il cliente doveva sentirsi ospite gradito. Credo che tutti concordino sul fatto che è meglio pagare qualcosa in più e sentirsi bene che non viceversa.”
Il rincaro dei prezzi è ormai cosa inevitabile: alcuni la vedono come un’opportunità per innalzare anche la qualità della bevanda servita
Altri invece credono che sarà l’ennesimo colpo di grazia per un fuori casa già provato. Altri ancora, protestano perché non pensano che equivarrà davvero a una cura e consapevolezza maggiore della tazzina: Luigi Lupi invece cosa commenta?
“Per parlare di qualità della bevanda dovremmo stare ore ed ore a discuterne e non è detto che un prodotto di alta qualità possa piacere. Quando si apre una classica caffetteria, dove il barista propone una sola miscela di caffè non deve far altro che sceglierne una che possa piacere ai probabili clienti della zona in cui svolgerà l’attività, e non è detto che questa debba essere di alta qualità. Sembrerebbe che il dilemma sia fissare un prezzo unico per l’espresso, quando quasi tutti i bar italiani utilizzano miscele acquistate dai loro fornitori con prezzi diversi, sinonimo di qualità differenti.
Ma se si considera che utilizzando mediamente 8 grammi di caffè macinato per fare un espresso e quindi da un chilogrammo il barista vende 125 espressi, è facilmente calcolabile che utilizzando una miscele da 15 euro al kg il costo puro di materia prima risulta di 0,12 euro, mentre se utilizzasse una miscela da 30 euro al kg risulta 0,24.
Quindi 12 centesimi di differenza nel costo per tazzina è tanto o poco? Personalmente dico che è irrilevante la differenza parlando di costi solo di materia prima. Ora la domanda che viene spontanea fare è: “Perché devo aumentare il prezzo della tazzina?”.
“La risposta è ovvia. Aggiungiamo i costi di energia elettrica, costi dell’acqua e del suo trattamento, costi del personale, costi del commercialista, costi di affitto dei locali ecc.., e senza dubbio la “tazzina” deve essere venduta almeno ad 1,5 euro, a prescindere dalla
qualità, sulla quale, ripeto, dovremmo parlarne ore ed ore.
In questo semplice esempio non ho considerato il costo della macchina per espresso, del macinadosatore, dell’addolcitore acqua, delle tazze, delle insegne, dei portatovaglioli e tanto altro che solitamente non sono acquistate dal barista.
Pensiamo a cosa succederebbe se tutti i torrefattori di comune accordo non proponessero più i comodati ed i baristi si vedessero costretti ad acquistare tutte le attrezzature con le proprie risorse finanziarie. Forse sarebbe una buona cura per tutta la filiera.”
Un altro allarme ultimamente riguarda la mancanza di personale formato e non nei locali: ma secondo lei Lupi, manca per davvero, oppure chi è qualificato cerca migliori condizioni di lavoro altrove, magari all’estero?
“Se andiamo indietro di qualche decennio, il personale dei bar/ristoranti/Hotel, erano i giovani che uscivano dalle scuole alberghiere, preparati e con tanta voglia di fare esperienza. Sto parlando però di passato remoto, quando lo studente della scuola alberghiera si iscriveva in questi istituti per vocazione. Oggi? Scelgono l’Istituto alberghiero soltanto perché si studia meno rispetto che in altri Istituti.
Avevamo le nostre scuole alberghiere famose in tutto il mondo dalle quali uscivano i migliori chef ed i migliori barman del mondo. Oggi non è più così purtroppo. (Non me ne vogliano i professori). Sarebbe ora che il Governo facesse investimenti invece di tagliare. Gli insegnanti stessi devono essere formati e soprattutto aggiornati, ma per fare questo ci vogliono fondi, rivedendo e modernizzando i vari ruoli di specializzazione.
Per dare una scossa alla professione del Barista è dovuta intervenire un associazione “straniera” la Sca. E quindi io dico “ benvenuta Sca. Se non fosse intervenuta, saremmo ancora ad insegnare le regole delle “ 5 M “. Purtroppo il settore della caffetteria è un settore dimenticato, mai preso con la giusta considerazione, ed i giovani che escono da questi istituti, a prescindere, è giusto che facciano esperienze all’estero. Il problema è che poi non tornano, perché qui in Italia non troverebbero lavoro con le giuste condizioni economiche.
All’estero la specializzazione viene pagata. Qui in Italia purtroppo no. Un barista certificato Sca all’estero non avrebbe problemi a trovare lavoro con adeguato salario. Qualcuno si chiederà, perché? La certificazione Sca garantisce che il barista ha i requisiti svolgere tale lavoro in modo professionale. Gli Istituti alberghieri o chi per loro, devono impegnarsi a rilanciare la figura del barista. Gli studenti che escono da una Scuola Alberghiera non hanno nessuna conoscenza del settore caffetteria.”
Sono tante le caffetterie che stanno chiudendo definitivamente i battenti: si dà la colpa al Covid e senza dubbio ha influito, ma ci sono altre ragioni di fondo secondo lei che stanno determinando una sorta di selezione tra i locali? Chi ha i requisiti per superare questa fase critica?
“Il Covid ha solamente accelerato la chiusura di tanti locali. Molte “serrande abbassate” sarebbero avvenute ugualmente, come d’altronde stava già avvenendo prima della pandemia. In questi ultimi anni abbiamo avuto una enormità di cambi gestione brevi, chiude uno e riapre un altro.
Questo significa non avere la minima conoscenza di ciò che si sarebbe andati a fare. Non trovo lavoro fisso, non so che lavoro fare, che faccio? Apro un bar. Tipico modo di agire delle aperture di questi ultimi anni, soprattutto con la legge Bersani con la liberalizzazione delle licenze. Chi apre un pubblico esercizio deve essere pronto a grandi sacrifici lavorativi, deve avere conoscenze merceologiche, deve essere in grado di gestire un macinadosatore, deve essere in grado di vaporizzare il latte, deve essere pronto a “sopportare” per 10-12 ore al giorno le richieste a volte assurde dei clienti. Questi sono i requisiti di un pubblico esercente. Non è l’iscrizione al ruolo professionale presso la camera di commercio. Chi ha questi requisiti, non abbia il timore di aprire una caffetteria.
Mi permetto di dare un consiglio ad alcuni arredatori. Arredatori, architetti, E’ ora di aggiornarsi, e sarebbe il caso che prima di mettersi a progettare bar e caffetterie, provaste fare un percorso lavorativo dietro un banco bar in quanto chi si affida a voi, fino al giorno prima svolgeva tutt’altra attività.”
La latte art, ancor più degli specialty, avvicina la clientela con le sue figure: ma prima della latte art quanti sanno preparare un buon cappuccino?
“Per fortuna ci sono tanti locali dove si può bere un buon cappuccino. La latte art è solo una questione visiva. Certamente al cliente farebbe piacere vedersi somministrare un cappuccio anche bello oltre che buono.
A me quello che fa rimanere perplesso è vedere che ancora qualcuno ha difficoltà nella montatura e nella gestione della temperatura del latte, conoscenze indispensabili per offrire un buon cappuccio. Oggi giorno tutti i fornitori di caffè hanno i loro trainer interni. A chi ancora ha difficoltà dico di rivolgersi a un formatore e seguire un corso base, perché la montatura corretta del latte è più semplice di ciò che sembra. E’ assurdo al giorno d’oggi si vedano servire ancora cappuccini con la schiuma piena di bolle.
Non dimentichiamo però mai che alla base di un buon cappuccio ci deve essere un espresso ben estratto.”
Lei era già avanti quando tutti si era indietrissimo: oggi che la cultura e la formazione è diventata meno rara, come vede l’evoluzione del formatore?
“Come già detto nella prima domanda, io ho avuto la fortuna di essere stato il primo barista a vincere il primo campionato italiano, ed il primo italiano a farsi notare nel circuito della Specialty Coffee Association. Durante i miei viaggi ho avuto la possibilità di confrontarmi con baristi e trainers di tutto il mondo. Sono stato avvantaggiato per questo motivo rispetto ad altri miei colleghi. Ho conosciuto culture, usanze e modi di bere caffè completamente differenti dalle nostre.
Tutto ciò ha contribuito alla mia formazione personale. Quando ero a contatto con trainer stranieri, spesso mi domandavo se volessi essere come loro o viceversa. Nel mio sistema di apprendimento, nel mio modo di studiare, questa domanda era parte integrante del mio percorso. Immagazzinavo ciò che vedevo di positivo nei modi di porsi e nei modi di comunicare di coloro con i quali mi confrontavo.
Formare significa “dare forma, plasmare” . Quindi se leggiamo attentamente queste parole, capiamo che il formatore ha una grandissima responsabilità, anche se parliamo solo di caffè. Il formatore non deve essere assolutamente “tuttologo”, deve essere preparato, modesto, umile, carismatico, comunicativo. Sta al formatore coinvolgere per appassionare chi lo ascolta. Qui in Italia abbiamo tanti formatori nel settore caffè. Chi volesse seguire dei corsi oggi ha molte più facilità rispetto solo a 10 anni fa. Il formatore è diventato un mestiere e come tale non ci si può improvvisare.”
Ci sveli lei Lupi, che sa tutto in anticipo: come pensa già il barista dei prossimi anni?
“La ringrazio per la considerazione. Sono considerato un “guru” nel settore, ma non prevedo ancora il futuro. Scherzi a parte, la La parola barista qui in Italia è sempre stata vista con una valenza, direi, quasi dispregiativa.
Ai miei tempi tutti volevano essere chiamati barman. Il barista era l’ultimo arrivato, colui o colei che puliva la pedana, le stoviglie, coloro a cui non veniva permesso di avvicinarsi alla macchina per espresso. Anche se tradotto letteralmente dall’inglese barman = barista. E’ stato con la nascita di Scae e poi Sca che oggi il o la barista è una figura che ricopre un ruolo importantissimo, specializzata nella somministrazione di caffè e bevande a base di caffè.
Con tanto orgoglio oggi chi fa questa professione si fregia di questo distintivo. Specializzato però non significa solo saper fare un bel cappuccino, ma significa avere delle conoscenze a 360° nel settore del caffè.
Io penso che il futuro del barista (purtroppo non prossimo dovuto alla situazione Covid) sarà prospero e positivo. Il barista avrà molte più opportunità nel trovare corsi di specializzazione. Con le tecnologie il barista di nuova generazione avrà molta più facilità nell’apprendimento, potrà andare in piantagione virtualmente, potrà vedere come si processa il caffè a distanza. Il barista del futuro comunque sarà certamente una figura indispensabile nelle caffetterie. Chi non avrà il barista, sarà penalizzato negli incassi.”
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Come mai secondo lei è così combattuta questa faccenda e secondo lei darà un valore aggiunto all’espresso anche a livello internazionale, aiuterà a migliorarne la qualità nei bar, oppure no?
“Entro il 31 marzo a Parigi (sede Unesco) si spera ci sarà l’approvazione del caffè espresso Italiano come patrimonio “immateriale” dell’Umanità. Risultato importantissimo sicuramente, soprattutto per il fatto che la richiesta è arrivata a Parigi presentata da un’Italia compatta, senza disarmonie interne nostre tra Nord e Sud. Il caffe espresso italiano è di tutti gli italiani senza distinzioni territoriali e tutto ciò che porta a riconoscimenti Internazionali è di grande aiuto.
Ora mi pongo un quesito: diventerà patrimonio il sistema di estrazione o la bevanda? Ho letto il disciplinare del caffè espresso italiano. Io stesso che sono un formatore Sca, ho difficoltà nel capire quando una miscela di caffè sarà considerata di qualità. Quando si parla di specialty coffee, penso di non aver dubbi. La Sca ci consegna un protocollo di quali caratteristiche fisiche deve avere il caffè verde, e di come valutarlo sensorialmente per capire se questo caffè diventerà specialty o non specialty.
Quali sono invece i parametri per capire se una miscela italiana è considerata di qualità? Ripeto, ho letto il disciplinare, ma oltre che trovare delle informazioni tecniche sulle attrezzature e sulla estrazione, non ho trovato altro. Sarebbe il caso che ci venissero indicate quali devono essere le caratteristiche fisiche del caffe crudo ed i parametri del grado di tostatura per considerare tale miscela “ caffè di qualità “. Se già esistono chiedo venia. Oppure “caffè espresso italiano” sarà patrimonio dell’umanità a prescindere dalla qualità?
Personalmente avrei voluto che le persone preposte avessero pensato subito dopo gli anni ‘50 ad un marchio registrato della parola espresso e che la si utilizzasse nel settore del caffè solo se preparato con attrezzature made in Italy e con miscele tostate in Italia. Forse è un pensiero utopistico, forse legalmente non possibile, ma è quello che ho sempre pensato. L’idea di colui che ha sempre difeso a spada tratta la tradizione italiana. Chi mi conosce bene lo può confermare. Comunque viva gli specialty e viva il caffè espresso italiano.”
Ma lo specialty potrà trovare un mercato più ampio anche nella patria dell’espresso, oppure resterà per sempre una piccola nicchia?
“Io spero e mi auguro che lo Specialty si sviluppi, ma rimarrà sempre un mercato di nicchia. Paragoniamolo ad un vino “speciale”. Chi si può permettere di bere un grande vino d’annata, un grande Barolo, per non parlare di un grande Barbaresco o Sassicaia. Lo specialty spesso ha dei costi anche proibitivi, ed è un caffè che deve essere preparato con sistemi di estrazione differenti da quelli a pressione.
Per esaltare l’acidità complessa e le aromaticità di uno specialty, dobbiamo tostare la materia prima in modo completamente differente rispetto alla tostatura con stile Italiano per espresso, deve essere tostato molto più chiaro. Questo tipo di tostatura non è adatta per la preparazione della bevanda con un sistema a pressione. Altrimenti berremmo delle limonate.
Non voglio fare provocazioni, so che molti non saranno d’accordo con questa mia considerazione, questo è un pensiero che ho sempre esternato anche agli arbori della Sca, ho sempre difeso questa meravigliosa bevanda che rappresentavo e che mi rappresentava nel mondo, l’espresso italiano.
Sicuramente i giovani baristi devono avvicinarsi al mondo dello specialty. Devono sapere come preparare l’espresso e bevande alternative all’espresso. E sicuramente nel prossimo futuro si vedranno aprire più caffetterie nel senso lato della parola. Caffetterie dove il cliente possa avere una vasta scelta di prodotti con diversi sistemi di estrazione. Però rimango dell’idea che il caffè espresso italiano risulterà sempre la bevanda più somministrata.”
Quali sono i progetti di Luigi Lupi per questo 2022? Il Covid l’ha rallentata, o è al solito attivissimo? Cosa sta facendo attualmente, dove si trova, cosa fa e cosa lo aspetta prossimamente?
“Ora sono consulente per la Torrefazione Carraro di Schio in provincia di Vicenza con la quale collaboro dal settembre 2020 fornendo consulenza come Coffee Specialist. Cerco di trasmettere con passione le mie conoscenze e la mia professionalità ai collaboratori dell’azienda nonché clienti italiani ed esteri. Inoltre, abbiamo già in programma tantissime fiere in Italia, in Europa, Medio Oriente, e Stati Uniti, dove io interverrò con lo scopo di divulgare la tradizione e la cultura del caffè espresso italiano.
Quando sono invitato in paesi produttori approfitto per visitare qualche piantagione anche con lo scopo di portare in azienda nuovi caffè da provare e varietà poco conosciute come Oro Atzeca che ho trovato a Puebla in Messico nel settembre scorso. Prossimamente sarò dai distributori Caffè Carraro a Londra e a Budapest. In questo momento che mi state intervistando, sto aspettando il volo per Dubai.”