martedì 29 Ottobre 2024

Luca Vivanti: “Ora nel futuro dell’horeca c’è la progettazione di nuove customer experience”

Il docente universitario: "Non si può improvvisare tutto questo. Poi il progetto va anche reso attraente nella comunicazione, per far sì che diventi di dominio comune in forma emulativa. Tutto questo è la customer experience. La scientificità oggi è fondamentale e non costa neppure tantissimo. Non sono cifre insostenibili. Ed è un investimento che ritorna indietro"

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MILANO – Luca Vivanti, architetto e docente al Politecnico di Torino e al Politecnico di Milano in «Neuromarketing e design», nonché docente alla Nuova Accademia del Design del corso «Progettazione innovativa horeca». Ci ha guidati nel mondo del neuromarketing applicato al settore horeca, uno strumento ormai necessario per gestire un’attività che voglia reggere la concorrenza e adattarsi al continuo cambio di comportamenti del consumatore.

Vivanti, lei ha trovato il modo di applicare la teoria alla pratica: come ci è riuscito?

“Mi sono sempre chiesto durante i miei anni di lavoro come si potesse fare qualcosa per mettere in contatto il mondo dell’Università con quello produttivo. Per riuscirci, una decina di anni fa è nato un gruppo di lavoro che si è impegnato a realizzare al Politecnico di Torino un master che ha ottenuto in tutti questi anni un ottimo successo e consentendo alla quasi totalità degli studenti di entrare direttamente nel mondo del lavoro attraverso un percorso preferenziale.

CIMBALI M2

Ora ci stiamo muovendo nella stessa direzione con la Scuola del design del Politecnico di Milano nel corso di neuromarketing per il design in cui collaboro con il professor Francesco Gallucci, fondatore insieme a Caterina Garofano e direttore scientifico di Ainem (Associazione italiana di neuromarketing), l’unica società italiana di ricerca di neuromarketing riconosciuta a livello internazionale. Italia. Io sono il coordinatore del dipartimento di ricerca di architettura, arredamento e design di Ainem. “

Ma quale è il legame tra neuroscienza, architettura, design, horeca

“Innanzitutto bisogna capire cosa sia il neuromarketing: è un’evoluzione del marketing che parte dalla conoscenza delle nuove discipline neuroscientifiche che si sono sviluppate da circa 20 anni a questa parte e che fa proprie le tecnologie di indagine per capire come funziona il cervello. Ci sono diverse categorie merceologiche su cui indagare: uno dei settori che oggi è più avanti nell’uso di questa disciplina è il settore della grande distribuzione organizzata. Ma anche alcune grandi aziende produttrici di alimentari lo stanno usando.

Un caso tra tutti è quello di un’azienda che per lanciare un nuovo prodotto ha costruito il proprio packaging testandolo in laboratori di neuromarketing, così che quando il prodotto è stato lanciato avevano la certezza che i consumatori lo avrebbero facilmente riconosciuto e acquistato.

Venendo invece al settore horeca il punto fondamentale è il concetto di customer experience, che non è affatto una novità: chiunque abbia aperto/rinnovato un locale lo ha fatto più o meno in maniera inconsapevole. Tuttavia, oggi attraverso le neuroscienze e gli
studi che esistono, non si deve improvvisare più; si procede seguendo sistemi rigorosamente scientifici per progettarla step by step in maniera più precisa.

È possibile persino testarla ancor prima dell’apertura reale, per esempio in laboratorio o in altri modi. Prendendo coscienza della quantità notevole di esperimenti e della letteratura che ormai ci sono – ad esempio: le luci, i colori, l’acustica, il confort visivo – ogni imprenditore ha una serie di parametri che gli permettono di partire con determinate
certezze. Sono studi che sono in continua evoluzione, che si modificano a seconda dei comportamenti umani. “

E cosa dovrebbe invece fare chi il locale ce l’ha già e lo vuole rinnovare? Come deve muoversi e su quali elementi deve insistere?

Vivanti chiarisce questo punto: “Non c’è una vera differenza tra i due casi. Aprire un locale da zero può paradossalmente presentare un maggiore rischio, perché non si ha la possibilità di fare un confronto con i problemi pregressi da migliorare. Se si parte da zero non c’è un processo di negatività da cui distaccarsi e si devono prendere come riferimento degli esempi alternativi codificati, ma che non sono cuciti su misura su una realtà che è già operativa. Posso portare un esempio: i nostri studenti hanno lavorato per il miglioramento di uno showroom milanese appena ristrutturato e che per questo si dava per scontato fosse già al suo punto di sviluppo massimo: i nostri ragazzi hanno invece messo in luce una serie di aspetti sottovalutati e quindi negativi che sono emerse rispetto all’experience dei loro clienti.

Un gestore di locali che vuole rinnovarsi si può rivolgere a degli esperti certificati da Ainem. A seconda delle proprie esigenze ci si può rivolgere ai diversi dipartimenti interni all’associazione. Abbiamo contatti con altri professionisti, anche finlandesi e spagnoli e si collabora tutti insieme. Voglio rassicurare gli imprenditori: è un’operazione che è possibile fare senza che si spendano cifre impossibili. C’è questo pregiudizio che per un lavoro di neuromarketing si debbano spendere di base centinaia di migliaia di euro. Invece l’investimento va tarato sul progetto da valutare e potrebbero bastare anche solo qualche migliaio di euro. “

Vivanti, oggi l’esperienza del consumatore, quali esigenze mette come priorità?

“Innanzitutto bisogna partire dal fatto che il consumatore ha cambiato radicalmente molti dei suoi atteggiamenti. Ogni stravolgimento della portata del Covid, trasforma per forza le abitudini. Nel cliente si alternano due sentimenti principali, ovvero la sicurezza e l’insicurezza: tutto ciò che provoca la seconda sensazione, allontana. Quando si pensa a qualcosa di rassicurante per costruire una buona esperienza, bisogna tener conto delle paure delle persone.

Nel contesto attuale, il mondo dell’horeca è una fonte infinita di insicurezza: mentre prima della pandemia ci capitava di passare anche tutta la mia giornata fuori casa tra colazione di lavoro, business lunch, aperitivi, ecc., ora con il Covid si lavora più in smartworking, si esce meno e seleziono il locale con meno affollamento. Il bisogno di socializzazione c’è ancora, ma certe situazioni ci creano un disagio latente.

Quindi una customer experience deve partire dal presupposto di trasmettere sicurezza all’avventore sotto ogni aspetto. La necessità oggi è quella di offrire un servizio molto più curato e personalizzato. Anche il fatto che ci sia un forte rumore nell’ambiente, come della musica ad un volume troppo elevato, che costringono le persone ad urlare senza mascherina, è valutato come fattore di rischio contagio.

Le stesse distanze sui tavoli sono da rivalutare: non si può entrare più in contatto adesso che le percezioni sono cambiate. Ormai è normale mantenersi lontani l’uno dagli altri. La pulizia è un altro elemento essenziale. Si ritorna quasi a concetti che sembrano antichi, come la figura del cameriere con i guanti bianchi, che oggi può contribuire a dare una sensazione di una maggiore pulizia e igiene.”

Vivanti, come si traduce tutto questo nella progettazione?

“Innanzitutto si deve definire il tipo di experience che si vuole offrire in tutti i suoi aspetti, a partire da molto prima dell’ingresso vero e proprio nel locale e finendo molto dopo dell’uscita, perché esistono i social-network con cui ognuno di noi si è abituato a giudicare e interagire commentando e valutando. Chiunque si fa influenzare dalle recensioni ad esempio di TripAdvisor o altri social, con i commenti di persone sconosciute. Si arriva davanti al locale con delle aspettative. Se di fronte alla porta del locale esse vengono deluse, la mia customer experience sarà già penalizzata e commenterò uscendo nel modo più pesante possibile la mia permanenza. Per questo la progettazione deve comprendere anche tutto il percorso e i dettagli che portano al locale.

Le 8 leve dell’attenzione

Le regole di successo sono molto più codificate e vanno analizzate per ogni progettazione: una volta sviluppata la parte teorica, si può procedere con la pratica, nella quale incidono colori, materiali, odori, sapori e tutto il mondo dell’architettura. Ovviamente dipende dal tipo di locale che si vuole aprire.

I miei studenti della nuova accademia del design a cui insegno progettazione horeca, stanno sviluppando un’esercitazione molto complessa su un albergo internazionale con all’interno ristorazione, accoglienza, coworking.

Hanno compreso la parte teorica e ora stanno procedendo con la parte applicativa: sola la prima fase ha preso due mesi di lavoro. Bisogna definire cosa si vuol far provare di originale al consumatore. Le idee nuove però ovviamente, si devono poi confrontare con le sfide pratiche e tecniche. Così come si deve tenere conto del comfort sensoriale. Il risultato finale si ottiene soltanto quando tutti i dettagli sono stati indagati, dall’apertura della porta, alla suddivisione degli spazi. Tecnologicamente ci sono tantissime possibilità, ma prima si deve ideare il progetto architettonico per avere una linea guida su come ci si deve orientare.

L’altra settimana ho fatto intervenire un grande chef di Dubai nel mio corso che ha progettato una customer experience nata proprio durante il Covid: ha vinto la scommessa con il Bella Restaurant, all’ultimo piano del Millenium Hotel, conquistando diversi premi, tra cui anche una stella Michelin. Com’è nato il locale? E’ stata necessaria un’accurata progettazione da parte di ben tre diversi professionisti, con una grande attenzione da parte dell’architetto, dell’interior designer e di uno specialista di illuminotecnica.

Le intuizioni dello chef, messe alla prova dei fatti, hanno reso il locale appetibile a tutti coloro che vogliono fare un’esperienza speciale, che per una clientela come quella di Dubai che è già parecchio stimolata dalla ampia offerta è una bella sfida. C’è un lounge bar in cui si può attendere gli amici, oppure continuare l’esperienza dopo la cena e trascorrere l’intera serata. Un tavolino esclusivo per le coppie su un terrazzino. Il tetto che si apre sul cielo.

Non si può improvvisare tutto questo. Poi il progetto va anche reso attraente nella comunicazione, per far sì che diventi di dominio comune in forma emulativa. Tutto questo è la customer experience. La scientificità oggi è fondamentale e non costa neppure tantissimo. Non sono cifre insostenibili. Ed è un investimento che ritorna indietro. Per noi il successo della strategia è dimostrato quando almeno il 65% dei consumatori con cui abbiamo svolto i nostri test, danno responsi positivi. Ovviamente nel tempo ci si deve ri aggiornare con il cambio dei comportamenti dei clienti.

Ci siamo già attivati considerando un evento critico come la guerra in Ucraina. Gli eventi globali hanno delle ripercussioni sempre. Putin ha messo l’allerta di una guerra nucleare: se questo creasse panico, come si tradurrebbe nelle abitudini in tutto il mondo? La risposta non esiste, ma bisogna unicamente monitorare le reazioni. Tenere d’occhio gli aumenti dei prezzi delle materie prime, e dei beni di primo consumo, ecc.”

Vivanti, cosa significa esattamente il fenomeno di cui spesso si parla, della trasformazione di una location in una destination?

“Un locale per distinguersi, deve motivare il cliente con qualcosa che giustifichi la scelta come destinazione fuori casa. Quali sono le ragioni che il locale offre per trasformarsi in una scelta? La customer experience, il tipo di esperienza che si vuole vivere in un locale, è ormai fondamentale. Quello che costruisci diventa il punto focale per il proprio locale. Ma attenzione, c’è una cosa importante da tener conto: quando si progetta di stare anche solo tre giorni a Dubai, ci si documenta attraverso la rete tramite siti, motori di ricerca, social network. Attraverso questi canali l’utente raccoglie le esperienze degli altri: quando la trova allineata con quella che desidera provare, in un range economico che rientri nel budget che è disposto a spendere in una vacanza che ormai con il Covid è tornata ad essere un’esperienza studiata nei piccoli particolari, allora si procede all’acquisto. Ed ecco le destinazioni. Si spera che poi le aspettative non vengano deluse. Perché altrimenti il giudizio sarà severissimo.

Tra il marzo del 2020 e l’autunno del 2020, in sei mesi, la sola Italia ha avuto un’accelerazione digitale pari a quella registrata nei 5 anni precedenti. Prendendo l’intera popolazione mondiale di 9 miliardi, oggi ci sono 1,72 device digitali a persona. Significa che ci sono persone che non ne hanno e altre che invece ne hanno 4. Quindi la customer experience non può più sottovalutare questo mondo alternativo.

Eppure in Italia è molto sottovalutato questo aspetto. Documentarsi con chi professionalmente ti può aiutare, fa la differenza per costruire efficacemente un progetto. Il problema non è solo l’Italia: la Nielsen due anni fa ha pubblicato un dato in cui l’80% dei prodotti nuovi lanciati sul mercato, non hanno una vita che supera l’anno. Nascono senza aver indagato prima come potesse rispondere il consumatore. Questo perché le analisi di mercato vecchia maniera non funzionano più: le interviste al telefono sono fallaci, rispondiamo come l’alias che abbiamo costruito sui social, quindi come la versione migliore di noi stessi.

Il 67% della pubblicità mondiale non è coerente e quindi non funziona. Nielsen si è dotata di un gigantesco laboratorio di neuromarketing in cui svolgono le indagini di mercato, che però devono esser mirate e non possono aprirsi su tutto lo scibile umano. Bisogna calarsi nell’ambito di una specificità. Apple ad esempio verifica tutto, quando deve lanciare sul mercato un prodotto.”

Ma un architetto di locali, quanta esperienza sul campo ha effettivamente del lavoro dietro al bancone, in modo tale da fornire soluzioni il più aderenti alla pratica del servizio quotidiano senza sacrificare il design?

“Commento questa osservazione con il racconto dello chef di Dubai: il primo architetto che ha consultato gli ha presentato un progetto bellissimo ma…senza pattumiere. Un altro problema da valutare sono le ergonomie: si fa in fretta a disegnare tot tavolini seguendo le esigenze del committente, ma bisogna valutare l’effettività del progetto. Quindi bisogna conoscere le problematiche concrete del servizio. Ci si fa un’idea dello spazio e delle esigenze, dei movimenti del personale (quanti sono per altro?). Effettivamente, non è un’affermazione sbagliata. Bisogna passare un po’ di tempo nel locale preesistente per poter pianificare con cognizione di causa.”

Tutti i locali, comprese le grandi catene di caffetterie come Starbucks, hanno ripensato i propri store ridimensionandoli: come si può valorizzare l’esperienza di consumo con spazi più piccoli?

Si sta tornando all’origine. Starbucks era nata come luogo dove prendere il caffè lungo la strada che separava la casa dall’ufficio oppure dove consumare al volo il proprio pranzo. I primi Starbucks non erano quindi delle grandi strutture, ma erano dei punti con 5 tavolini. Poi sono sbarcati in Europa, dove il modo di gustare il caffè era molto diverso: si sono adattati a quelli stereotipi per altro superati, riproponendo il concetto europeo con un prodotto americano. Hanno cercato di fare un ibrido, che non ha funzionato: il gusto è tipicamente americano.

Hanno fidelizzato soprattutto le ultimissime generazioni, che subiscono l’influenza maggiormente degli States, ma ha comunque dovuto fare un passo indietro e tornare ad essere un posto dove non ci si sofferma solitamente, salvo in alcune strutture che sono dedicate ad offrire uno spazio in cui si fa altro e intanto si prende il caffè. Starbucks si è buttata a capofitto nella grande distribuzione. – argomenta Vivanti – Per due motivi: condizionare il palato della gente ai suoi prodotti ed entrare in nuovi contesti: il prossimo passo è quello di piazzarsi negli spazi di coworking e nei prossimi luoghi che diventeranno di lavoro, con dei distributori automatici. Lo stanno già facendo negli Stati Uniti.”

Quindi Vivanti, nel futuro dell’horeca, che cosa si può intravedere in prospettiva?

Conclude Vivanti: “Per l’Italia, deve avvenire una radicale trasformazione del metodo di offerta erogata. Siamo troppo focalizzati sul modello per cui si inizia e si finisce il servizio con le ore pasti. Non funziona più, soprattutto se si vuole proporre un servizio a quei pochi, meno di prima, turisti internazionali. Ci vorrà tempo per tornare all’affluenza precedente, non sarà una massa, ma in ogni caso ci si aspetta un servizio internazionale, che non vuol dire fare gli spaghetti distribuiti come Starbucks: ma non è accettabile dire a un tedesco che deve aspettare le 20 per mangiare un piatto di pasta quando lui è abituato a cenare alle 18,30.

Uno spazio di coworking, (foto concessa da Luca Vivanti)

Certi locali potranno diventare degli spazi che offrono altri servizi in differenti fasce orarie. Chi fino alle 12 resta chiuso, potrebbe invece convertirsi in luoghi per il coworking adatti a chi vuole lavorare da remoto senza esser chiuso in casa con il bambino che piange o con i lavori condominiali a disturbare.

Bisogna chiedersi innanzitutto chi è la propria clientela, quale sia la fascia anagrafica di chi entra nel proprio locale. Perché l’offerta dei servizi cambierà a seconda che ci si rivolga agli anziani nella piazza del paese, piuttosto che alla Z-Generation.

E anche il servizio alberghiero deve esser coerente con il potenziale turistico che offriamo. La mentalità va cambiata: quando si concede di viaggiare, l’imprenditore di settore che, va all’estero parte comunque dal presupposto che non potrà mai funzionare quel modello che ha visto fuori, trasposto in Italia. È un ragionamento sbagliatissimo: esiste la globalizzazione. I prossimi giovani italiani vorranno fare le stesse cose che possono fare a Parigi, Londra, Shanghai o a New York, I nostri consumi oggi non sono più legati a dei bisogni, ma dettati dallo stile di vita che riteniamo ideali per noi, influenzati dai social.”

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