MILANO – Luca Venturelli (foto sotto il titolo, in una fiera internazionale) è il titolare della Lucaffè, una torrefazione bresciana specializzata esclusivamente in cialde per il caffè espresso.
Accanto alla torrefazione si è sviluppata una fabbrica di macchine per caffè espresso anche professionali per ristoranti ed esercizi pubblici, con il marchio La Piccola.
Naturalmente si tratta di macchine rigorosamente made in Italy.
Una storia di successo, un’azienda che oggi produce quattro milioni di cialde al mese.
Quando nasce Lucaffè?
“Lucaffè nasce nel novembre del 1996 in una stanzina di 30 metri quadrati dove tostavo e confezionavo il caffè torrefatto con una macchina degli anni Cinquanta. Andavo da solo a Trieste per caricare 20 sacchi di caffè alla volta e risparmiare 10 lire al chilo di trasporto. Di giorno il viaggio, la sera si scaricava e tostavo di notte, a volte mi alzavo la mattina alle 4. Si lavorava sempre, il sabato e la domenica. Con il grande sogno di esportare il caffè all’estero”.
Come ha imparato a tostare?
“Ho avuto un grande maestro, il signor Martini, oggi ottantenne, che aveva una piccola torrefazione a Desenzano del Garda. All’epoca frequentavo il liceo e andavo ad aiutarlo. Ero affascinato dai suoi discorsi sul caffè e lì scoprii che il caffè è un prodotto dove non si finisce mai di imparare. Io, dopo 20 anni, sto ancora apprendendo. Il caffè è un prodotto molto complesso, quello tostato è il frutto di centinaia di reazioni chimiche ma c’entra anche la fisica. L’aroma del caffè dipende dal mille dettagli e cambia continuamente prima di arrivare nella tazzina”.
Dopo la scuola che scelta ha fatto?
“Quella di produrre caffè. Quando poi ho compiuto ventiquattro anni ho comprato la mia prima tostatrice, una Vittoria perché Martini mi aveva insegnato che era la prima che tostava ad aria calda. Era una macchina che lavorava 60 kg per volta, un sacco intero di caffè. Tostava ad aria con la fiamma che sfiorava il caffè per questo ogni due giorni si incendiava la macchina perché il caffè è anche combustibile”.
Dopo l’acquisto della Vittoria che cosa succede?
“Succede che sono partito subito per una fiera importante e ho portato i miei barattoli alla Fancy Food di New York con il marchio Lu Caffè, Lu staccato. Subito mi fece causa dal Belgio la General Bisquit che ha un biscotto che si chiama LU. Alla fine siamo andati d’accordo che avrei sottolineato il LUCA. Da quella scelta è nato un marchio ancora più bello”.
Perché Lucaffè?
“Perché in Sicilia si dice Lucaffè e perché mi chiamo Luca. Così volevo creare il doppio senso. E fu Lucaffè. Ma non volevo dare troppa importanza al mio nome, poi me lo hanno fatto sottolineare…”.
E l’uomo del marchio?
“Ci ho messo due anni a individuare il marchio dell’azienda. E’ stato il risultato di tanto lavoro con un disegnatore di Varese che avevo conosciuto tramite una rivista. Volevo un uomo che sorrideva. Avevo anche provato con una donnina che usciva dalla tazzina, me lo aveva proposto il disegnatore del marchio di Luciano Pavarotti. Ma alla fine è piaciuto di più l’uomo sorridente. Che mi ha aiutato ad avere successo nel mondo. Tanti si sono innamorati del marchio, lo hanno messo su manifesti e furgoni, è diventato famoso. Il marchio è sempre molto importante anche perché il mondo del caffè in Italia era molto difficile da penetrare perché ci sono centinaia di torrefazioni e per vendere il caffè a un bar bisognava addirittura prestargli dei soldi. Così ho puntato sull’estero dove è piaciuto molto questo marchio”.
Torniamo al Fancy Food, come è andata negli Stati Uniti?
“Purtroppo ho perso tempo perché ho conosciuto degli italiani che mi avevano promesso grandi cose ma con pochi risultati. Poi dopo due o tre volte sono riuscito ad entrare in quel mercato che è immenso”.
Sempre in viaggio.
“Sì, le mie vacanze erano andare a visitare i nuovi distributori. Arrivavo, prendevo le pagine gialle e cercavo i clienti. Così ho trovato importatori in Marocco, Irlanda, Bulgaria, Albania: dappertutto. Una volta sulla poltrona dell’ufficio ci stavo molto poco. Adesso un po’ di più”.
Come funzionava?
“Nessuno mi conosceva. Mi presentavo portando in automobile latte e caffè, preparavo cappuccini con le mie macchine, facevo assaggiare il prodotto e loro erano contenti perché non erano abituati a vedere queste cose. Io portavo tazzine e panettone, la concorrenza arrivava regolarmente con i soliti cataloghi di carta. In questo modo il 10 per cento dei rivenditori che visitavo all’estero diventava concessionario. Magari la decisione maturava sei mesi dopo la mia visita, ma arrivava. Naturalmente avevo il prodotto giusto perché il primo punto del marketing è il prodotto. E quello c’era, come c’è anche oggi. Caffè buono e salutare”.
Un buon prodotto presentato in confezioni belle.
“Si, la bella confezione fa scattare nel cliente aspettative alte, la convinzione che dentro la scatola ci sia qualche cosa di particolare. La mia passione è fare le cose per bene. La migliore furbizia è l’onestà. È così che oggi il 90 per cento del nostro fatturato arriva dall’estero”.
Un prodotto made in Italy.
“Ho un rapporto speciale con il made in Italy. Sono convinto che chi fa qualità lo sviluppa e lo costruisce, chi non lo fa lo sfrutta e lo distrugge. Io ho sempre cercato di puntare sul prodotto italiano e sull’Italia di qualità”.
Che caffè è richiesto all’estero?
“L’espresso italiano si sta diffondendo bene, è sempre più richiesto, Basti dire che la Nestlé, la più grande azienda mondiale nel settore del caffè, vale il 40 per cento del mercato totale, ha nella sua scuderia il colosso Nespresso. Va detto che il consumo dell’espresso rappresenta meno del 5 per cento del totale perché il grosso è caffè all’americana, il caffè lungo che in America viene regalato dappertutto. E’ un caffè tostato in modo più chiaro, macinato più grossolanamente. Però l’espresso funziona in tutto il mondo, anche se il mercato diventa sempre più difficile: non siamo capaci di difendere il nostro prodotto. Basti l’esempio del marchio Nespresso: noi italiani il marchio Champagne non lo possiamo usare, gli svizzeri espresso sì, eccetera”.
Lei ha affermato che la sua azienda continua a studiare il caffè. Che cosa vuole dire?
“Che non smettiamo mai di fare il nostro mestiere e di studiare, commissionare studi. Così abbiamo scoperto che gli antiossidanti contenuti nel caffè, 20 volte quelli contenuti nel tè verde, si preservano soltanto tostando il caffè crudo a bassa temperatura. Per questo abbiamo costruito un impianto di torrefazione particolare adatto a lavorare a basse temperature. Di progetti ne abbiamo tanti. Stiamo anche pensando ad una cialda Smart”. Intanto l’azienda cresce: da un milione di cialde all’anno a quattro milioni di cialde al mese, in 15 anni di attività con un export che raggiunge 50 Paesi”.