MILANO – Per approfondire ancora una volta il tema della gestione dei bar, abbiamo contattato anche un docente in economia e ristorazione, che collabora con la Scuola Galdus di Milano: Luca Spadoni ci ha aiutati a capire dal suo punto di vista di formatore dei futuri titolari di caffetterie, le dinamiche che possono determinarne il successo o la chiusura.
Qual è la prima regola che insegnate e che deve sapere chi apre un’attività come un bar?
“In Italia nel 2021 sono state registrate 339mila attività di ristorazione, ovvero circa 170 persone per ogni esercizio: è un numero altissimo. Tra le prime cose che bisogna sapere, vi è l’acquisire le competenze giuste per avviare una di queste aziende. La maggioranza degli aspiranti imprenditori si innamora dell’idea del contatto con il pubblico e dell’avere una propria attività, senza però possedere la capacità commerciale, amministrativa essenziale per rimanere aperti.
Attenzione quindi a coprire le varie competenze di base: che vuol dire anche appoggiarsi ad altri professionisti.”
Quant’è la marginalità (cioè il guadagno) che deriva dalla vendita del caffè, al netto dei costi a carico del gestore?
“In un bar impostato sulla colazione, uno dei centri di ricavi più importanti è la fascia che va dalle 6 del mattino alle 11. Quindi il caffè è il prodotto più importante, non tanto perché dà più margine degli altri, ma perché è un veicolo che porta dentro la clientela. Il consumo di espresso è sempre stato un indice per dare valore all’attività (quanti chili di caffè all’anno consumi) ed è ancora oggi – gli inglesi lo definiscono KPI key performance index – l’indice per capire il livello della performance di un’attività.
Ogni mattina il cliente ordina il caffè e porta con sé il consumo di altri prodotti. Volendo considerare il quadro più ampio, il caffè ha un’alta marginalità ancora adesso: costa mediamente un euro e venti al consumatore, con una grammatura intorno ai 7 grammi per tazzina, e ha un costo di prodotto che si aggira attorno ai 15 centesimi per i gestori.
Tuttavia il caffè è lo specchietto di tanto altro, ciò che attira la clientela, ma si deve tenere d’occhio il food cost che riguarda l’intera colazione. Il costo del caffè è basso, è vero, ma se poi si aggiungono altri elementi, tra zucchero, miele, tovagliolino, l’aggiunta di latte, il bicchiere d’acqua, presto i 15 centesimi diventano 20, 25, questo senza considerare il costo di chi lo prepara e tutti i costi generali dell’attività.
Facendo un discorso legato all’intera colazione, le brioche, che paghiamo anche un euro e 40, hanno un costo alto per il gestore: dalla parte dell’acquisto per l’esercente, è di 60/70 centesimi, e non è possibile, per la cultura di pricing, proporle ad un costo eccessivo: le persone non sono disposte a pagare la brioche più di due euro. Il caffè, quindi, ha una certa marginalità, ma aggiungendola alla brioche, equivale, in modo aggregato, ad un food cost fino al 40%. “
Dal confronto con molti gestori, la fase della giornata in cui si ottengono più entrate è l’aperitivo e non la colazione: cosa significa questo per una caffetteria che vuole puntare sul caffè?
“Dipende dai numeri e dalle economie di scala. Tendenzialmente però, la colazione ha, per il gestore, un costo complessivo superiore al costo che deve sostenere per l’aperitivo. La differenza è che un buon bar che vive di colazione e di aperitivo, di solito fa 200 colazioni e 40 aperitivi. Quindi, se è vero che la marginalità unitaria è superiore nell’aperitivo, è altrettanto vero considerare che le colazioni hanno un peso numerico superiore.
Anche con gli studenti presso Galdus Formazione, accendo dei semafori per guidarli sulle strade più equilibrate. Quindi, in sintesi, noi siamo degli amanti delle colazioni, principalmente quella tradizionale italiana ancora oggi, mentre l’aperitivo si sta sviluppando in maniera differente: dal classico aperitivo dei bar, veloce prima di cena, a quello dei ragazzi, dell’happy hour, locali che si focalizzano sulla sera/notte aprendo alle 6 di sera.
Se guardiamo gli scontrini (un locale produttivo emette 250 scontrini al giorno, con un obiettivo di cercare di aumentarne il valore medio, mediante una strategia sull’offerta), la colazione ha una prevalenza sul numero di scontrini della giornata. Numericamente, la colazione resta la fase più interessante: dei locali che ho seguito, aperti dalle sei del mattino sino alle 8 di sera, la soddisfazione arrivava dagli incassi della prima mezza giornata.”
È ancora un modello che funziona il bar che resta aperto tutto il giorno, anche nei periodi in cui non entra nessuno?
“La risposta unica non esiste. Mentre con i ristoranti siamo abituati a vedere l’orario spezzato e non ci stupisce il fatto di vedere un ristorante che chiude dopo pranzo e riapre per cena, per il bar il discorso è diverso. Ce ne sono pochi che lo fanno, per due motivi: innanzitutto per una percezione culturale. Il bar è un rifugio durante tutta la giornata, che vive delle colazioni, del pranzo, della merenda, del caffè corretto, dell’aperitivo. Il cliente che vede un bar che chiude durante la giornata, non si affeziona e quindi non lo premia.
Economicamente, per ridurre i costi, aiuterebbe, ma non ripaga in termini di fidelizzazione della clientela. Inoltre, il bar è quel luogo in cui la persona entra per socializzare e vi è anche un argomento un po’ tabù che riguarda la dipendenza dalle bevande alcoliche. Questi fattori creano un nucleo di clienti stabili, che si recano al bar per avere compagnia e tornano almeno 3 volte al giorno. Magari soltanto per il caffè, ogni giorno, garantendo un incasso superiore a 3 euro.”
Il comodato d’uso delle attrezzature per l’erogazione del caffè, che tipo di vantaggi può offrire al gestore?
“Sono da 20 anni nel settore della piccola ristorazione e non ho visto altro. Se dovessi definirlo come vantaggio o svantaggio, posso solo dire che il giorno in cui decidessi di avviare un bar, sceglierei il comodato d’uso. Innanzitutto, è comodo: è chiaro che si ha la percezione di legarsi ad un fornitore, ma dipende dal contratto di comodato che si sottoscrive.
Non è detto che il titolare subisca tutte le condizioni poste dal suo fornitore. Il comodato ad uso gratuito, tecnicamente è così, un contratto tra le parti: quindi ciò che viene scritto deve trovare d’accordo i due firmatari. Il rischio qual è? Se l’imprenditore non ha una cultura aziendale alle spalle per valutare il contratto, può facilmente firmare a condizioni per lui sfavorevoli.
Se si dice invece: io acquisto il caffè a 20 euro al chilo, un prezzo medio per una qualità mediamente buona – ovvero per un prodotto che funziona proprio perché ha una certa costanza in tazza, anche nel caso il barista non sia bravissimo a prepararlo – e questo mi evita di farmi carico dell’investimento iniziale (fino a 15mila euro per una tre gruppi oltre gli accessori), mi trovo sulla strada più facile per affrontare un investimento considerevole.
Avere un impianto, una certificazione di conformità, una manutenzione periodica, la sostituzione della macchina in caso di malfunzionamento, tutto questo e altro è compreso nel comodato d’uso. Quindi il caffè che il gestore paga a 20 euro al chilo, anche se potrebbe trovarlo ad un costo molto inferiore, include un sistema strutturato che garantisce le attrezzature nuove ed avanzate, l’addolcitore, il macinacaffè, la lava tazze e magari anche la macchina del ghiaccio.
E quindi perché non preferire il caffè a 20 euro al chilo a quello da 10? La marginalità del settore è ancora sufficientemente alta che, spesso, le società di torrefazione, oltre all’attrezzatura, offrono dei finanziamenti ai bar per dar loro una mano.
Quindi il caffè per un bar ha un valore alto, non solo per la marginalità, ma per tutto ciò che si porta dietro.
La bravura del gestore è quella di alzare il valore dello scontrino medio che include il caffè. Più le colazioni sono strutturate da un attività di up selling (ad esempio una spremuta nel “menù colazione “), più lo scontrino si alza, abbassando la marginalità puntuale di ogni singolo prodotto, ma aumentando l’incasso medio che può arrivare a 4 euro 50 a scontrino.
Tornando al tema del comodato, oggi non vedo un’alternativa valida. Bisognerebbe acquistare direttamente la macchina oltre all’altra attrezzatura, preoccuparsi della manutenzione, rischiando di spendere 20mila euro senza riuscire a gestire nel modo corretto l’attività soltanto per poter scegliere il caffè.
L’unico consiglio è: leggere bene i contratti compreso quello di comodato e non firmare alla cieca.”
Il personale invece, come gestire questa spesa che porta via gran parte del fatturato?
“In una situazione classica di bar e ristorazione, i dipendenti rappresentano almeno circa il 40% di costo sul fatturato. La maggior parte dei locali italiani ha il titolare operativo che lavora più di tutti gli altri: questo abbassa il 40%, andando verso al 30%. Il problema è quando, nei bar più grandi, non c’è il titolare dietro al banco: in questi casi, l’unica possibilità è il fattore numerico. Più volumi si fanno, maggiore è la possibilità di sopportare l’incidenza del costo del personale.
In Italia esiste il problema tra la differenza di ciò che percepisce il dipendente ed il costo aziendale (il così detto cuneo fiscale) e questo porta spesso alla scelta del lavoro irregolare, che non è mai una scelta giusta. Inoltre, attualmente, è diventato tutto più
controllato, con l’introduzione della fatturazione elettronica e del conseguente maggiore controllo sul flusso di entrate ed uscite.”
I benefits potrebbero aiutare ad attirare il personale, senza avere la possibilità di dare una maggiore introito nello stipendio?
“Fiscalmente, anche i benefits sono limitati a una cifra inadeguata: tutto ciò che si dichiara ha delle soglie molto basse, sopra le quali si pagano contributi ed imposte e questo ci fa tornare allo stesso problema. Ogni tanto si parla di 500 euro di premio una tantum defiscalizzati, ma si parla di contentini. Mancano concretamente più di 100 euro in busta paga al mese, ma se il dipendente costa 250 euro al gestore, i conti continuano a far fatica a quadrare.
Ho vissuto, in un’azienda dove non c’erano virgole fuori posto e dove non esisteva il nero, raggiungendo un margine operativo lordo (primo risultato economico indicativo dell’andamento di un’azienda prima dell’ utile) del 12-14%, ottima percentuale ottenuta in maniera trasparente. Un tale risultato è stato possibile avendo un particolare vantaggio competitivo: lavorare su un turno solo. Quel locale aveva il vantaggio di essere in una zona industriale, aperto da lunedì al venerdì, dalle 6 e mezza del mattino alle 5 del pomeriggio, concentrandosi sulle colazioni e sul pranzo.
Chi lavorava, faceva 8 ore ogni giorno senza straordinari, 5 giorni alla settimana. I cuochi accettavano uno stipendio relativamente basso, perché erano liberi tutte le sere, i sabati e le domeniche e potevano, volendo, andare a lavorare altrove nel resto della giornata. Quello era un vantaggio competitivo: i costi del personale erano alti, ma in equilibrio.
Quando si avvia un’attività si studia e si analizza il mercato, si elaborano degli obiettivi previsionali e si confronta, successivamente, lo scostamento rilevato sul fatturato effettivamente riscontrato, aggiustando mensilmente il confronto tra obiettivi e risultati.”
Per essere un’attività che fa profitti e non chiude nell’arco di un anno, quali sono quindi i punti da monitorare? E quali quelli su cui investire di più?
“Una caffetteria, più dolci mette in mostra, al di là delle brioche, più incrementa la possibilità di vendita. Sulle bevande invece, le ultime novità vegetali in bottiglia, danno poca marginalità al bar: per poter avere margini, bisognerebbe alzare il prezzo finale in maniera eccessiva, perché, anche in questo caso, il consumatore non è disposto ad accettare un aumento di prezzo così elevato. Quindi, dal punto di vista del business, non penso sia una strategia lungimirante.
Quello che fa la differenza per un bar, è avere un buon caffè, una vetrina nutrita di dolciumi, un giro di affari che ti permette di vendere brioche fresche, preparate da una pasticceria. Questo può dare personalità all’attività. Quindi, per me, nell’attività di un bar, scelgo la colazione su aperitivo tutta la vita.”
Il bar di oggi, ma soprattutto del futuro, come deve evolversi per poter continuare a rappresentare una fonte economica interessante? Le speciality, per esempio, sono o non sono, una possibilità per guadagnare di più sul caffè?
“Stiamo tornando al bar di prima, quello conviviale. Il Covid è stato un selezionatore naturale di molte attività che erano borderline e già poco redditizie. La tipologia di locale, a mio avviso, è e rimarrà un’attività con buone possibilità di fatturato e marginalità.
Ho seguito 3 locali in piena pandemia come consulente: uno ha dovuto chiudere per problemi finanziari pregressi, gli altri due sono sopravvissuti ad un anno e mezzo molto duro. Perché? Quello che vendevano, era registrato e fatturato. Per quanto i ristori siano stati appena sufficienti, sono arrivati in funzione del fatturato dichiarato l’anno precedente: ciò che è stato erogato è bastato appena a sopravvivere, ma si basava su quello che era stato dichiarato negli anni precedenti.
Chi aveva un bar da 100mila euro, dichiarato però come uno da 50mila, ha ricevuto aiuti per una struttura di quella capacità e quindi i ristori non hanno potuto funzionare efficacemente. Per quanto riguarda i nuovi sistemi organizzativi, la digitalizzazione, il totem per pagare lo scontrino, le casse automatiche non sono nati con il Covid, così come pure le capsule delle bevande calde monoporzione. Erano dei prodotti e servizi già presenti prima della pandemia che poi hanno conosciuto un’accelerazione.
In conclusione, bisogna dare enfasi oggi al caffè così come alla pasticceria. Caffè inteso non solo come espresso commerciale ma in tutte le accezioni in cui lo si può proporre, la caffetteria specialty, come i numerosi coffee pairing (l’abbinamento creativo tra cibo dolce e salato e la “bevanda caffè”), aprono, di sicuro, nuove possibilità di offerta nel settore della caffetteria, come prodotti innovativi con un conseguente impulso sul fatturato.”