MILANO – Cialde e capsule stanno scrivendo una pagina storica per l’espresso (italiano) nel mondo e nel Belpaese. Ma il Parmesan del caffè mostra come noi abbiamo perso su tutta la linea : altro che i fratelli Righeira.
di Luca Majer
Quasi due anni dopo aver parlato Comunicaffè del 30 novembre 2010) di guerre stellari nel mondo del caffè grazie al cosiddetto porzionato, nessuno può negare l’ovvietà dei fatti: il caffè in capsule sta scrivendo una pagina storica per il caffè. Se l’idea di confezionare il caffè in porzioni individuali data dagli anni trenta e anche prima, il primo colpo ben assestato fu quello delle cialde in carta, anni ‘50/’60. Poi, nel 1986, arrivo Nespresso e – come scrisse John Nasbitt – rischiò molto nell’affermare questo modo pratico di eseguire un caffè: “massicce perdite, tre volte sull’orlo della chiusura – molti in azienda pensavano fosse una strada verso il nulla”.
Nespresso Boutique – Via Belfiore, Milano – novembre 2011 Oggi il leader mondiale nell’alimentazione – fatturato oltre gli 80 miliardi, il 10 per cento del caffè prodotti in tutto il mondo passa in qualche modo da Nestlé – ha gusti porzionati per tutti, da zero a 92 anni e oltre: Nespresso, ma anche Dolce Gusto, Special T e BabyNes.
Gli altri attori globali sono Kraft con Tassimo (dal lusinghiero +25% nelle vendite previsto per il 2012), Douwe Egberts Master Blenders, con Senseo (il più ampio parco di macchine al mondo: oltre trenta milioni di macchine vendute) e la nuovissima Sarista e ancora l’americanissima Keurig o GMCR, che sforna macchine a milionate ed ha cambiato il modo di consumare degli statunitensi. La sua Rivo, frutto della collaborazione con Lavazza, aggiunge espresso/cappuccino alla gamma molto Usa delle bevande disponibili presso Keurig, anche se con un’altra piattaforma tecnologica.
Stessa cosa fatta da Starbucks (anticipando di qualche mese Keurig)
Che – con un’azienda tedesca specialista in latte – ha già lanciato Verismo. Noi, che siamo nati a Milano dove il sciur Gaggia, grazie anche al sciur Cremonesi, ha inventato l’espresso, rimaniamo un po’ frastornati con questi nomi che storpiano/usano l’italiano per vendere magari anche l’espresso. Sembra l’industria automobilistica: mai pensato alle varie Impreza, Leganza, o la… Sorento?
Continua Luca Majer: Insomma, a parte la griffe sfiziosa e il fazzoletto nel taschino, noi italiani abbiamo saputo perderci per strada belle occasioni e persino i nomi, verrebbe da dire
Qualcuno ha parlato di Nespresso come del “parmesan del caffè” e in un certo senso non si può dargli torto. E’ la storia dell’aceto balsamico, l’atroce beffa subita dai gourmets italici: un alimento assolutamente senza aceto a cui viene imposto di cambiare nome (adesso è signor “aceto balsamico tradizionale”), a favore di interessi (anche) stranieri.
A favore d’industrie che non potendo riprodurre la mitica tradizione d’invecchiamento del mosto cotto in botticelle di legno (a Modena quando nasceva una figlia una botticella veniva messa in soffitta, così che arrivasse pronta in dote al matrimonio) hanno deciso di sgomitare a livello normativo, aggiungere coloranti a dell’aceto e via della quarta.
Industrie che – sgomita di qua, sgomita di là – ottengono quello che gli ungheresi hanno ottenuto (con ancora peggiori risultati per noi) nel campo del vino: obbligare a mozzare il nome da Tocai Friulano a Friuliano. Roba che a pensarci mi verrebbe da dire: e che fine ha fatto la trafila a Bruxelles per un “espresso STG”, iniziata nel 2009? Han consentito che si faccia anche col seltz ?
Torniamo al porzionato
Continua Luca Majer: Ho qualcosa che davvero stupisce e rende attoniti. Non sono i nomi. Sono le quote di mercato di questo (ancora piccolo) segmento del mercato del caffè. In una “stima” (l’economia moderna è tutta così: stime, teorie, modelli e mai la realtà’) Nestle’ controllerebbe il 34.7% e – sommando Douwe Egberts, Kraft e Keurig – in quattro arrivano quasi al 68%.
Poi, quinta, Lavazza (che controllerebbe l’uno virgola tre percento del mercato) e un 30% + rotti lasciato al resto del mondo. Sarà vero? Boh. In un’altra di queste stime Nestle’ controllerebbe invece il 50% del mercato mondiale, e Keurig un altro 24%. Aggiungete Douwe Egberts e Kraft e a tutti gli altri non rimane che un 11 (undici) percento!
Numeri sconvolgenti per un mercato che è ancora lì dall’esplodere ma è già il futuro. Un archetipo, tra l’altro, di due ineluttabili evidenze. Uno: la tecnologia paga. Perché queste fortezze di mercato, questi imperi sulle cui vendite di caffè non cala mai il sole, sono state creati a forza di esperimenti, test e brevetti – e idee che fanno la differenza.
Due: la marca premia
E su quest’ultimo punto ammettete anche voi lo stupore. C’è qualcosa di magico nel vedere le code nelle boutique Nespresso, quando concorrenti vendono 7 (al posto di 5) grammi di polvere marrone a meno di venti centesimi (che dico! A meno di dieci centesimi, a volte) invece dei trenta o dei quaranta centesimi di Euretto pagati da coloro “che fanno la fila”. Altro che i fratelli Righeira! Altro che “No tengo dinero”.
Si chiami Sarista, Verismo, Dolce Gusto o Esio, i prezzi che i leader spuntano dimostrano che la premium-isation del mercato non e’ una favola. E che anche in tempi di crisi, il caffè non ce lo si nega e la capsula conviene. Perché il paragone che insistentemente viene fatto non è più con il costo dell’equivalente caffè sfuso, ma con l’equivalente di una tazza servita da uno Starbucks. Ragionamento che avrà pure qualche smagliatura logica, ma (per noi) non fa una piega.
Luca Majer