domenica 22 Dicembre 2024
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L’opinione: antropologia, Starbucks

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Ecco un’interessante opinione alla catena di caffetterie Starbucks dopo l’annuncio dell’apertura in Italia.

Ogni tanto pure io devo tirare un attimo il fiato da questioni ben più drammatiche e serie o seriose per rifarmi la bocca con qualcosa di quasi frivolo. Non di sola geopolitica e antropologia vive l’uomo.

Indi per cui, come ormai il tam tam mediatico vi avrà informati, Starbucks arriverà in Italia. Nel 2017, ma arriverà. Non c’è niente da fare, prima o poi doveva succedere, “E’ la globalizzazione, baby”. Ma non strappatevi i capelli per adesso, o nazisti del cappuccino e integralisti del macchiato.

Ora, a dispetto di quello che ne possiate pensare, Starbucks in Italia non rappresenta l’Apocalisse. Non è la fine del mondo. Dico davvero. Non è la fine del nostro “normale” espresso al banco. Come ben sa la mia generazione, quella che ha iniziato a viaggiare anche fuori dall’Italia quasi ogni fine settimana coi voli low low cost o che ha passato estati a Londra e Berlino, Starbucks non è una semplice caffetteria, anzi, il caffè è forse l’ultima delle sue caratteristiche.

Starbucks è prima di tutto un luogo. E mi direte “Grazie Pacio, complimenti per il pensiero profondo”. Un attimo, fatemi finire perché ogni tanto mi sale l’antropologo (lo so, avevo detto niente antropologia ma non ce la faccio proprio).

Starbucks è un “luogo antropologico”, inteso, nelle parole del buon Augè, come uno spazio connotato antropologicamente da tradizioni locali (il marchio associabile a una certa gamma di prodotti), e che conferisce un’identità alle persone che lo vivono e che in esso e attraverso esso entrano in relazione tra di loro e con il luogo stesso (ormai andare all’estero e non entrare in uno Starbucks per molti equivale a non essere nemmeno partiti).

Mi seguite?

Starbucks è un/il luogo che qualcuno ha inizialmente creato, non espressamente con questo intento, ma che è andato definendosi in una certa maniera come “luogo in cui si possono mettere in atto certe ritualità”, che può essere il prendere rapidamente un frappuccino come il mettersi seduti su una poltroncina a navigare su internet senza che nessuna venga a chiederti di alzarti se non hai intenzione di consumare almeno un caffè.

Fino all’identificazione totale tra Starbucks, tazza, hipster e instagram, un connubio ormai inscindibile.

Starbucks è un luogo e al contempo un non luogo. Ora potete infamarmi. Ma è sempre Augè a parlare. Starbucks è quell’insegna sulla strada che puoi riconoscere a Parigi, a Dublino, a Tokyo e a Sydney: quando vedi quella sirena verde sbucare tra i ristoranti di sushi e, presto, tra le calli di Venezia, sai che lì c’è Starbucks.

Differente nella forma ma non nella sostanza. Quando entri da Starbucks entri sì in un luogo, una caffetteria, ma che è al contempo anche un non luogo: tra le pareti di Starbucks, se non vedessi all’esterno, non potresti capire in quale città ti trovi. E’ un po’ come trovarsi in un aeroporto, un territorio di nessuno, un luogo che è fisicamente “in quel posto” ma anche “in nessun posto”.

Nessun dettaglio all’interno di una caffetteria Starbucks può farti capire dove sei. Sei semplicemente da Starbucks, non importa in quale parte del mondo. Prendi la tua sedia, scrocca il tuo wi-fi, leggi il tuo libro, accendi il tuo pc, fai le tue telefonate di lavoro ma non preoccuparti del dove. Preoccupati solo che sei da Starbucks, un piccolo bozzolo senza locus. Sono luoghi che non hanno funzionalità se non quella che il singolo utente decide da dargli.

Siamo noi che decidiamo che uso fare di Starbucks. Siamo noi che creiamo Starbucks come semplice caffetteria o come luogo per una riunione. Astratto da ogni utilizzo, resta un involucro senza fine, un non luogo.

Sono spazi in cui in rarissimi casi chi ne usufruisce entra in contatto l’uno con l’altro: se entri da Starbucks da solo difficilmente ti metterai a fare conversazione con la persona seduta accanto a te col suo Kindle in mano, se entri con un amico ti limiterai a parlare con lui. Le interazioni sono ridotte ai minimi termini.

Transitiamo attraverso le varie aree di uno Starbucks. Ma non le viviamo. Sono spazi liquidi in cui nella parvenza di essere parte di un processo (“Ehi, guardate, sono anche io da Starbucks”) stiamo in realtà ribadendo e la nostra solitudine e il nostro incessante bisogno di contatto e appartenenza con un gruppo. Come dicevo prima, ormai se vai a Londra e non passi da Starbucks almeno una volta, ti sembra quasi di non esserci andato. Sono luoghi della mente che noi creiamo e decostruiamo continuamente in un incessante processo di ricodificazione dello “spazio”.

Ma quindi perché Starbucks in Italia non è una Apocalisse? Nessuno ci vieta di entrare e prendere un normalissimo espresso al banco e scappare via, ma parimenti per quel tipo di esperienza c’è sempre il nostro bar di fiducia all’angolo sotto casa. Un tipo di caffetteria diversa, un tipo di esperienza diverso e soprattutto un tipo di luogo diverso con cui Starbucks non vuole mettersi in competizione ma a cui vuole essere complementare.

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