MILANO – Fu «il più bel Caffè-Ridotto dell’Europa» ottocentesca, ammirato dagli intellettuali in Grand Tour: per Théophile Gautier «nulla vi era di più monumentalmente classico», per Stendhal vi si trovava «il miglior ristoratore d’Italia, quasi come quelli parigini» e a Valéry «sembrava un palazzo o un tempio, più che un caffè».
Lo storico Pedrocchi di Padova ha appena festeggiato, lo scorso 9 giugno, il suo 183esimo compleanno, con una fastosa riapertura dopo gli ultimi lavori di restauro e una ghiotta e corposa pubblicazione curata da Paolo Possamai e Lionello Puppi: Il Caffè Pedrocchi.
La storia, le storie è un florilegio di racconti e saggi, bozzetti e foto d’epoca, aneddoti e curiosità; un viaggio sentimentale nella lunga, e non sempre fortunata, vita del locale, con la sua clientela di dirigenti e rivoluzionari, politici e scienziati, militari asburgici e popolani.
Lo stesso fondatore Antonio Pedrocchi era «figlio di un umil stranier» e «garzone del popolo»: grazie alle sue doti imprenditoriali, e a una buona dose di megalomania e visionarietà, divenne il prim’attore e più potente patavino e conquistò, «per sola individuale industria e coraggio, la gran fama e l’immortalità», tanto da essere ribattezzato «il Palladio o il Napoleone dei caffettieri».
Addirittura, alla sua morte, il podestà chiese «gli onori pubblici municipali».
Avviato nel 1831, il locale fu un «personaggio storico», ma anche cuore vivo e pulsante di Padova, un capoluogo dal proverbiale understatement, con il suo «caffè senza porte», il suo «santo senza nome» e il suo «prato senza erba».
E con la stessa umile ironia, lo scrittore autoctono Giulio Mozzi confida di essere stato «concepito lì», ai tavolini del bar in cui si davano appuntamento i suoi genitori. Dall’intervento autobiografico si passa all’excursus di Piero Del Negro, che racconta «lo Stabilimento Pedrocchi tra Ottocento e primo Novecento»: la caffetteria, infatti, fu chiusa nel 1938 (e riaperta solo nel dopoguerra inoltrato), all’indomani della promulgazione delle leggi razziali, perché l’allora presidente della Società che lo aveva in gestione, il professor Brunelli Bonetti, si rifiutò di estromettere i soci ebrei.
Eppure il Pedrocchi era nato come «un adeguato, e democratico, luogo di incontro culturale, di conversazione elevata, di fecondo dibattito e financo d’esercizio pratico della vocazione economica». Il caffè fu, insomma, un crogiuolo, il «volano di una nuova sociabilità»: tra borghesi e nobili, forestieri e gran dame, studenti e professori.
Così, ben prima dei fascisti, la promiscuità sociale e culturale provocò i mugugni degli aristocratici, tra cui il fumantino letterato Carlo Leoni, che definiva il proprietario «un misero, un disgraziato, un plebeo, un venditor d’acqua bollita» e rimproverava alla pasticceria di accogliere «ogni razza di genti: sensali, mercanti, barbassori, ciarloni, sapienti, buffoni, critici, petulanti, sciocchi, maldicenti, spie».
Infatti, quello fu «il punto di riunione dei patrioti italiani e uno dei focolai del Risorgimento», tanto che in un muro c’è ancora il buco di una pallottola sparata l’8 febbraio del 1948.
Il melting pot non riguardava solo la fauna degli avventori ma persino il canone estetico dell’edificio, come ricordano Marisa Macchietto e i due curatori. Uno storico francese non esitò a definire il Pedrocchi «un caffè con un’architettura folle, un palazzo etrusco-gotico-greco-romano-moresco-rinascimentale»: oltre al bar, il «magico edifizio» ospitava l’offelleria, la borsa, un casino e diverse sale per letture, balli e incontri mondani.
Era una vera e propria «reggia cittadina, una “fabbrica” polifunzionale e modulare», una bizzarra ibridazione di stili ed epoche, progettata con estro e fasto da Giuseppe Jappelli, architetto, agrimensore e appassionato di giardini: si va dagli affreschi della Vittoria dei padovani su Cleonimo, re degli Spartani ai bassorilievi raffiguranti Dioniso e le Baccanti; dalle poltroncine imbottite con i colori patri alla sala Ottagona che rimanda al numero massonico; dalla stanza ercolana a quella napoleonica; dalle sculture egizie ai grifoni gotici.
Dopotutto il Pedrocchi è «un’isola» e, come nella miglior bottega goldoniana, ci si può imbattere in «sconci villeschi, sudice vesti, o facce da cozzoni».
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Il Caffè Pedrocchi. La storia, le storie,
a cura di Paolo Possamai e Lionello Puppi, Il Poligrafo, pagg. 288, € 38 Via Slotmachine.it