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venerdì 22 Novembre 2024
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Il locale. Scrive Eugenio Scalfari: “Il Rosati come una casa”

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La scorsa settimana su questo mio “Vetro soffiato” (la rubrica che Eugenio Scalfari tiene sul settimanale l’Espressi; n.d.r.) ho scritto che avrei voluto raccontare le case in cui avevo vissuto, anzi che avevo frequentato (che è un caso alquanto diverso): due endecasillabi che potevano essere il titolo: “Le case che nei tempi ho frequentato / e il racconto nei sogni e nella vita”.

Nel frattempo però ci ho ripensato: non sono soltanto le case ma anche i luoghi. Qualche esempio servirà a spiegare meglio ciò che intendo dire.
Chi conoscerebbe oggi l’esistenza di Recanati se non ci fosse nato e per molti anni vissuti Giacomo Leopardi? Chi penserebbe di visitare l’isola di Caprera se non ci fosse vissuto Garibaldi dopo l’impresa dei Mille? E poi dopo un lungo intervallo ci tornò per altri quindici anni prima di morirci nel 1882? E chi conoscerebbe l’esistenza dell’isola di Sant’Elena se non ci fosse morto Napoleone dopo quindici anni di prigionia?

Non voglio far paragoni. Dico soltanto che i luoghi non sono soltanto geografici ma animati da una qualsiasi iniziativa che mette in moto un certo spirito e un significato che dura nel tempo. Può durare pochi giorni o pochi mesi ma può durare perfino secoli o millenni. Il luogo di morte di Shakespeare è diventato noto in tutto il mondo da quattro secoli ma da tre millenni è nota l’isola di Itaca dove Odisseo voleva a tutti i costi tornare. Mi vengono anche in mente esempi di diverso genere: il “Romancero gitano” di García Lorca; la “Dolce Vita” di Federico Fellini.

Personalmente ho voglia di ricordare il caffè Rosati dove a partire dal 1950 e almeno per dieci anni si riunivano gli amici del “Mondo” fondato da Mario Pannunzio pochi mesi prima. Io a quell’epoca avevo ventisei anni e fui semplice testimone di quanto vidi. L’ho poi scritto nel mio libro “La sera andavamo in via Veneto”, uscito nel 1986. Penso che molti giovani non l’abbiano letto e penso anche che sia utile che lo facciano.
Grazie.

***
La sera andavamo in via Veneto, al caffè Rosati, che aveva soppiantato fin dall’immediato dopoguerra la terza saletta di Aragno.

Le deviazioni da questo itinerario erano poche e di raggio assai limitato: talvolta ci si avventurava, fino da Carpano, che era a una cinquantina di metri più in su; oppure, passando davanti alla libreria Rossetti, si arrivava ai tavolini del Golden Gate sotto alle mura pinciane. Alcuni eccentrici attraversavano addirittura la strada spingendosi fino allo Strega, da dove presto tornavano riferendo d’imprevisti incontri e di pessimi gelati.
La cerchia dei “devoti” serali era stretta attorno a Mario Pannunzio e a Franco Libonati (una coppia a suo modo irripetibile per la solidità dei legami “a contrasto” che li unirono dal 1940 fino alla morte di Mario nel 1968). L’altra coppia che teneva il campo era quella di Sandro De Feo con Ercole Patti. Spesso veniva Moravia. Più di rado Elsa Morante. Qualche giovane faceva da coro: Giovanni Russo, Paolo Pavolini, Renato Giordano, Chinchino Compagna.

Ma da Rosati la compagnia s’allargava. Tra le dieci e le undici arrivava Brancati, Attilio Riccio, Flaiano, Piero Accolti, Gian Gaspare Napolitano, Gorresio, Gino Visentini, Vincenzo Tallarico. Poche le mogli accolte nel gruppo e pochissime ammesse al diritto di parola. Se ne vendicavano bonariamente, giudicandoci da qualche tavolo di distanza.

Verso la mezzanotte, scortato dal meno brutto dei due fratelli Lupis e da Italo De Feo, che avevamo soprannominato “il teschio sul gagliardetto”, faceva il suo ingresso Saragat, che però si sedeva a parte. Con lui s’intrecciavano messaggi e si ostentava da parte nostra un esuberante quanto assolutamente non sentito rispetto. L’opinione prevalente era che fosse politicamente fatuo, culturalmente inesistente, Goethe a parte. Per di più circondato da un personale politico che fin d’allora avevamo battezzato “la banda del buco” e che mettevamo all’ultimo posto come qualità morale, perfino dopo il Msi.

Dopo mezzanotte, specie nelle tiepide sere estive, arrivava l’ultima ondata che risaliva da piazza del Popolo: Maccari, Amerigo Bartoli, Alfredo Mezio. Qualche volta Roberto Rossellini. Qualche volta Carlo Laurenzi. Stoppa. Anna Proclemer. La Rossi Drago.

Passate le due, quando già i camerieri sbandati dal sonno avevano da un pezzo ritirato i vassoi e chiuso i battenti, Sandro De Feo dichiarava provocatoriamente che, visto che l’indomani doveva alzarsi tardi, era venuta l’ora d’andare a letto, e la compagnia si scioglieva, in attesa che il rito si ripetesse il giorno dopo con identiche modalità di luoghi, discorsi e persone.

Pannunzio diceva: com’è bello ogni tanto partire da Roma per poterci ritornare. Flaiano diceva: siamo un gruppo di uomini indecisi a tutto. Gian Gaspare, silenzioso, fantasticava della sua “Mariposa”. E Moravia, a chi ogni tanto lo prendeva in trappola raccontandogli enormi invenzioni e fatti mai accaduti, sbuffava: spirito di patata.

Questo era il cerchio esterno del gruppo, giornalisti, scrittori, artisti. Vitelloni con un pizzico di snob. Molto misogini. Molto voyeurs. Molto indolenti. Alquanto sciroccosi. Testardamente sedentari, eccetto Moravia e compreso invece Gian Gaspare, che pure aveva viaggiato per mezzo mondo, ma sembrava non si fosse mai mosso da quella strada e da quei caffè.

Correva l’anno Cinquanta. L’Italia era ancora profondamente contadina e papalina. Il partito comunista rumoreggiava ai bordi delle istituzioni. “Il Mondo” era stato fondato da un anno e vendeva quindicimila copie. Non ne avrebbe mai vendute molto di più, ma la navicella dei liberal italiani aveva preso il mare.

Eugenio Scalfari

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