domenica 22 Dicembre 2024
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L’intervista rilasciata nel 2004: “Lui sa leggere nel caffè i segni della fine del ciclo cosmico”

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MILANO – L’incontro con Gianni Frasi, “veneratore” di caffè e depositario del “conio” della sua arte – suo il Laboratorio di Torrefazione Giamaica Caffè, in Verona – è stato devastante. Da allora esiste un “prima” ed un “dopo”. Ora posso bere – e far bere – non solo caffè di qualità assoluta, ma anche caffè con una storia da raccontare: quella del territorio – preciso, identificabile – da cui proviene; quella delle persone che di “quel” territorio sono al tempo stesso figli e genitori e che “quel” caffè coltivano. Ogni chicco, ogni tazza, ne è espressione. Godiamoci dunque, superbi e veri, i suoi cru.

di Stefano Lorenzetto

Ehi, caffeinomane!

Sì, proprio tu. Tu fortunato che sorseggi in casa la tazzulella ‘e cafè sgorgato dalla napoletana, e tu distratto che consumi il terzo espresso della giornata al bar, e tu tralignato che ti abbeveri alla macchinetta dell’ufficio. Ti rendi conto di quello che stai facendo?

Hai sotto il naso “un segno della Gerusalemme celeste”. Stai ingollando “un analogo microcosmico”. Forse partecipi addirittura a “un riflesso dell’era messianica”.

Così assicura Gianni Frasi. Un veronese che ha fatto del caffè la propria fede. Un torrefattore visionario che ha consacrato cuore, mente e tempo a questa fede, fino a non aver lasciato posto per altro nella sua vita.

Forse il massimo esperto di caffè che ci sia in Italia. Ma guai a dirglielo: comincia a sbuffare come una moka e infine ti caccia.

Nei suoi discorsi, gridati anziché pronunciati, Frasi mescola religione, scienza, filosofia, esoterismo.

Lo descrivono come presuntuoso, arrogante, misantropo, narcisista, integralista e sicuramente incarna tutti e cinque questi difetti messi insieme.

Ma trabocca anche di umanità, se è vero che gli uomini, stando al cartello appeso sopra un orologio da parete proveniente da qualche fazenda brasiliana, “devono essere come il caffè: forti, buoni, caldi”.

Dentro un laboratorio di pochi metri quadrati, battezzato Giamaica, dove i macchinari risalgono agli Anni 50, Frasi lavora più per sé che per la sua selezionatissima clientela di droghieri, baristi, pasticcieri e ristoratori.

“Ho chiamato un affrescatore perché me lo dipinga bello in grande su quel muro: “Questa azienda non ha futuro”. Infatti per ordine di Leopoldo I d’Austria io non posso andare a propormi a nessuno, né avere commessi viaggiatori, né portar via i clienti agli altri, né parlar male dei colleghi, né strappargli i dipendenti promettendo aumenti di stipendio.”

Già, lui è rimasto l’unico al mondo ad attenersi al dettato corporativo asburgico che impone “rispetto, onorabilità, disciplina, pietà e successione”.

Fu emesso dall’imperatore il 16 luglio 1700 “a scopo di protezione del mestiere” giacché in Vienna a quel tempo c’erano già ben quattro torrefattori cui era stato concesso il privilegio di tostare il caffè: un marrano, due austriaci e un croato.

L’obbligo della successione Frasi l’ha assolto: “Simone Fumagalli, anni 24. Figlio di mia moglie. Dovrei dire la mia compagna, ma mi ripugna. Non ha avuto bisogno d’iniziazione a di formazione. Sapeva tostare il caffè fin dal primo giorno. Non gli ho insegnato niente: solo mostrato come si faceva. Un apprendistato di grazia. La benedizione di questa casa”.

La cui storia comincia in una botteguccia nel secolo scorso con i Prando, prosegue col loro socio Giovanni Erbisti, il fondatore al quale è tuttora dedicata l’unica miscela Giamaica, per arrivare infine ai Frasi.

In particolare a Franco Frasi, che prima di occuparsi della torrefazione fu la bandiera del Verona Hellas negli Anni 50 e poi centromediano della Pro Patria Busto Arsizio, dove il figlio Gianni venne al mondo.

“Erbisti era il fratello di mia mamma. E l’uomo che mi ha messo la mano sul capo. Fino al 1975 ho fatto finta di andare a scuola: medie, superiori, un po’ di università. Avevo l’impressione che tutti mi passassero sulla testa. Non mi accorgevo che invece mi passavano sotto i piedi”.

Adesso il torrefattore legge solo René Guénon, il metafisica e orientalista francese che abbracciò l’Islam cambiandosi il nome in ‘Abd Al Wahid, “servo dell’Unico”; chiude il laboratorio solo il mercoledì delle Ceneri, perché all’inizio della quaresima i Prando-Erbisti-Frasi hanno sempre fatto così; smette di tostare l caffè solo per cinque giorni a Ferragosto, quando nei silos non deve restare nemmeno un chicco.

Calendario balzano.

<<E’ consono alla dignità di quest’opera, che prevede la freschezza senza eccezioni. Come ogni vita, anche quella del caffè comincia a decadere 36 ore dopo la tostatura e termina inesorabilmente dopo 60 giorni. Negli Anni 50 si consegnava il caffè ai bar tre volte la settimana per garantire al massimo grado questa freschezza>>.

Che cosa c’entra l’era messianica col caffè?

<<Tutto nasce dal mio incontro con Marcelo Vieira, ingegnere e latifondista brasiliano, coltivatore di caffè nel Minas Gerais>>.

Dove vi siete conosciuti?

<<A Trieste, dove sono stato invitato due volte a parlare del caffè. La prima volta non hanno capito nulla di ciò che avevo detto, la seconda volta hanno capito e da allora non mi hanno più chiamato>>.

Che gente.

<<Vieira è il discendente, sto aspettando di vedere se è anche il successore, di colui che avviò l’epopea del caffè. Il suo antenato, un africano partito dall’isola di Sao Tomé, era stato al servizio di Pedro II , l’ultimo imperatore del Brasile, e poi aveva intrapreso le prime coltivazioni 450 chilometri a nord est di San Paolo. Cinque-sei anni fa Vieira m’invitò nelle sue piantagioni. Me le mostrò orgoglioso e io rimasi paralizzato per due giorni>>.

Per quale motivo?

<<Niente di quello che vedevo corrispondeva ai racconti che mi erano stati fatti dai miei avi. Una degenerazione totale. Le ciliegie del caffè erano state abbandonate sulla pianta fino quasi a marcire, poi strappate brutalmente con le loro foglie e messe tutte insieme: mature, acerbe, bacate, fradice. Spiegai a Vieira che non si fa così, che vanno raccolte a mano una per una, messe a essiccare al sole, lasciate riposare nella perfezione zuccherina della polpa che le avvolge, indi spolpate, fatte riposare sulle tele e tostate>>.

E lui?

<<Non voleva crederci. Dovetti mostrargli alcune foto risalenti al 1907, quando in Brasile il caffè si raccoglieva come dicevo io e a trattare i frutti maturi erano, guarda caso, gli immigrati italiani. Il fatto è che oggi non si attende la maturità né per le mele, né per il caffè, né per gli uomini. Infatti parliamo con i nostri simili anche quando sono malmaùri, immaturi. Alla fine con Vieira abbiamo stilato e firmato a due mani un protocollo che sancisce il ritorno all’unica prassi possibile di coltivazione. E abbiamo convenuto su un punto: il senso di quest’opera è l’ordine giubilare>>.

Cioè?

<<Secondo le scritture, ogni azione che preveda il ripristino di uno stato primordiale è il riflesso dell’inizio dell’era messianica. Lo stesso sto facendo nella foresta pluviale, detta anche “selva di nebbia”, a Tingo Maria, in Perù. Anche lì ho portato il protocollo in una cooperativa di coltivatori che vivono in condizioni di completo disagio>>.

In che modo è arrivato a Tingo Maria?

<<Quindici giorni prima di un viaggio in Sudamerica, mi bussano alla porta. Apro e mi trovo davanti una persona di carnagione scura che mi dice; “Sono un lattoniere peruviano, abito qui vicino da 12 anni e ogni mattina sento el sabor, I’aroma, della sua torrefazione. Mio fratello produce questo”, e mi consegna un sacchettino con dentro un pugnetto di chicchi. “Ho pensato che forse le farebbe piacere mettersi in contatto con lui”. Appena giunto in Perù, sono corso a trovarlo>>.

Non ne dubitavo.

<<Sto qua tutto il giorno in mezzo ai sacchi. Mi sento un somaro che si porta in giro le reliquie di questa conoscenza. Il caffè non attrae: è amaro. Non ha potere saziante. Non è euforizzante, non è inebriante, non fa obliare i problemi, prova ne sia che è nemico della viltà della psiche. “No, non offrirmi il caffè, che mi rende nervoso”, ti dice l’amico, “dammi piuttosto un bicchiere di vino così mi ubriaco”. Siccome il caffè ti mostrerebbe con più chiarezza i tuoi problemi, ti rifugi nell’alcol per dimenticarli. I nostri contemporanei sono attratti da ciò che ha il potere di vessarli. Invece il caffè è per uomini liberi. Il prodotto voluttuario per eccellenza. Non a caso volontà e voluttà hanno la stessa radice latina: volo, io voglio>>.

Eppure tutti credono che il caffè dia dipendenza.

<<Tutti sanno tutto. Viviamo nel regno dell’opinione, che è il letame della vera conoscenza. Hanno ragione tutti perché nessuno sa niente. E’ la lebbra del Duemila, I’opinione. I lebbrosi dicono di rispettare tutte le opinioni. Io dico che bisogna rispettare solo le opinioni rispettabili. Se lei mi fa l’esame su nomi, cognomi e indirizzi del caffè, sono fottuto, perché sto lavorando sullo spirito che è nascosto sotto questa forma esteriore chiamata chicco>>.

Parliamo del chicco, allora.

<<Il caffè è l’unico frutto per uso alimentare di cui si butta via tutto: la buccia, la polpa, il pergamino che lo rende seme. La cosa inerte che rimane, la quale a sua volta sarà buttata via come fondo del caffè, è un osso di stupefacente resistenza che non si può utilizzare in nessuna maniera se non sottoponendolo a un battesimo del fuoco. L’immersione del chicco nella fiamma diretta è una vera purificazione. Per lavarlo col fuoco il margine d’errore varia da uno a tre secondi. Il che spiega perché la stragrande maggioranza dei torrefattori usi la fiamma indiretta e tosti il caffè per induzione>>.

Per non cadere in errore come fa?

<<Osservo il colore. A un certo punto il chicco diventa color tonaca di frate. Quello è il momento in cui arriva a 20 atmosfere solforate. Un vulcano! Nel magma stipato si manifestano secondo gli scientisti moderni oltre mille aromi volatili essenziali>>.

Li hanno contati?

<<Nel 1938 erano 57. Poi in un convegno a Firenze nel 1972 hanno detto che erano 363. In realtà siccome l’uomo è capace solo di mediocrità e le cose o troppo grandi o troppo piccole non appartengono alla sua misura, sono molti di più Io le comunico ufficialmente che conosco con precisione il loro numero: gli aromi che il caffè è in grado di sviluppare a un certo momento della tostatura sono tanti quanti sono. L’importante è capire quando sono sviluppati tutti. E quel color tonaca di frate che legittima il mio essere torrefattore. Macché amore! Macché passione! Non servono né amore né passione per tostare il
caffè. Basta essere conformi all’ordine>>.

Un ordine monastico.

<<L’esercizio della virtù propria, come lo chiamava Dante. Fino al 1945 esisteva una gerarchia naturale, la gente si rivolgeva a un torrefattore piuttosto che a un altro in base a valore e meriti, così come gli artigiani sceglievano il loro mestiere in base a un’attitudine. Ma quando un imbianchino arriva a occuparsi di Chiesa e un netturbino mancato di amministrazione, è evidente che un battitore di tamburi si occuperà di caffè. Fino al 1300 non si chiamava mestiere bensì mistero, contrazione di ministero>>.

Siamo nei paraggi della Gerusalemme celeste.

<<E del carattere alchemico del caffè: separerai il sottile dallo spesso con grande sapienza. Non è curioso che il vocabolario, tanto ricco di sinonimi, in questo caso sia incapace di trovarne, non riesca a compiere alcuna separazione? Caffè è la pianta, caffè è la bacca, caffè è la bevanda, caffè è il luogo dove si beve.

Per fortuna nel 1902 ci venne in soccorso un ingegnere milanese, Giuseppe Bezzera, che inventò la macchina per l’espresso. Cosicché la parte esteriore del chicco, cioè la soluzione idrosolubile, il liquido nero, si manifestò sotto, mentre la parte interiore si sublimò sopra, nella forma di un disco dorato, di una luce solida.

Ma a contatto con l’abiezione del mondo esterno, questo segno dell’avvento della Gerusalemme celeste, questo sole terreno che gli ignoranti chiamano schiuma, in alcune decine di secondi si dissolve e precipita nel mare di tenebre che lo guarda da sotto.

Ecco l’analogo microcosmico: questa è la rappresentazione della fine del ciclo cosmico che stiamo vivendo, questo è l’aspetto occulto del caffè, che per la sua capacità di attrazione è stato definito bevanda dell’intelletto. Chi non capisce il senso del caffè non può capire niente di nessun’altra cosa al mondo>>.

Che caffè beviamo in Italia?

<<Quello che è stato pensato per il consumatore, una figura antropologica nuova: l’uomo del materialismo. Per fortuna esiste la memoria del sangue, il ricordo di un’integrità anteriore. Altrimenti non si vede perché alcune persone, non molte, abbiano deciso di frequentarmi e di avvalersi del mio lavoro senza tornaconti>>.

E quanto ne beviamo?

<<Consumo pro capite, intende? Ho qui una circolare: 5,41 chili I’anno. L’industria ha imposto il caffè a nazioni che non ne capiscono l’uso, figuriamoci il senso. Mercati alternativi; li chiamano>>.

Tipo?

<<L’India, dove nel ’94 il consumo pro capite era di 72 grammi l’anno, ripeto: 72 grammi. Durante uno dei miei viaggi sono stato nel Sarawak, la giungla immaginata da Emilio Salgari. Li, nel Borneo malese, ho visto che gli indigeni adesso bevono tazzoni di caffè come al David Letterman show. Però in tutta la Malaysia non esiste una torrefazione, ci pensa?>>.

Che cosa le ha dato e che cosa le ha tolto il caffè?

<<Niente. Attiene al mio essere. Pensandoci bene, mi ha dato due ernie cervicali. Sollevando sacchi da 60 chili, capita. Mio padre, nonostante fosse un calciatore, si procuro un valgismo al ginocchio. E Simone è già in cura per la schiena>>.

Mai pensato di fare altro nella vita?

<<Il basso drammatico. Ho cominciato la scuola di canto tardi, a 28 anni, con la maestra Elisabetta Cherri, custode dello spirito di Toti Dal Monte, e ho continuato fino ai 40. Lei insisteva perché proseguissi, diceva che in circolazione non c’erano voci fenomeniche. L’ho tradita per il caffè. Sul letto di morte continuava a chiedere di me, ma io non ho avuto il coraggio di andare a trovarla. Il peso della vergogna è la mia punizione>>.

Ha mai conosciuto qualcuno cui non piace il caffè

<<Sì. Bisogna diffidarne>>

Il caffè fa male?

<<Non c’è niente che l’uomo metta in bocca e che gli faccia male. E’ solo quello che esce dalla bocca che fa male all’uomo. I prodotti della natura non sono nati per avvelenare>>

Il curaro si estrae dalle piante eppure ammazza.

<<No, è la perdita dello stato adamitico, o edenico che dir si voglia, a uccidere. Il caffè fa male a chi non lo comprende>>

Quanti caffè beve in un giorno?

<<Adesso mi fermo a sei-sette>>.

E prima?

<<Arrivavo a 12-14>.

Ha avuto delle conseguenze?

<<Be’, provi a guardarmi. Mi pare che le conseguenze siano state pesanti, no? .

Una sovreceitazione?

<<Non so. Le sembro sano?>> .

Può berlo anche di sera?

<<Come tutti. Il contenuto di caffeina di un espresso non tiene sveglio nessuno. Ma tutti usano il caffè come dito dietro cui nascondersi>>.

Il caffè è una droga?

<<Io conosco solo dei soggiogati dalla controcultura del bisogno, che ha creato nuove motivazioni per frequentare il caffè. Per costoro sorbirne una tazzina non è più un’esperienza di gradevolezza sensoriale ma un’abitudine: “Devo fermarmi perché ho bisogno di un caffè”>> .

Il caffè è un vizio?

<<No, un prodotto della natura>>.

Nel suo caso è diventato una religione?

<<No, un sacerdozio>>

Un missionario va in giro per il mondo alla ricerca dei chicchi migliori?

<<Di fatto non servirebbe. Arriva qui un mercante, scelgo tra i chicchi che mi offre, provo, tosto e se sono pregevoli ordino. Per 250 anni il caffè è progredito grazie al decoro dei miei padri torrefattori, uomini che non erano mai usciti non dico dalle loro città, ma addirittura dai loro quartieri, senza che ciò togliesse una virgola alla sapienza delle loro azioni>>.

Ma il Santos Montecarmelo brasiliano o il Chickmagalùr Karnataka indiano come li ha trovati?

<<Oggi che tutti possono andare dappertutto, m’è toccato diventare un viaggiatore nelle piantagioni. Però nel repertorio di famiglia una quindicina di origini, dal Brasile ad Haiti, da Santo Domingo a San Salvador, da Cuba all’India, le abbiamo sempre avute>>.

Che mi dice dell’espresso fatto in casa?

<<La caricatura di un mezzo di preparazione professionale. Che ha trovato nella cialda o nella capsula la sua forma satanica>>.

Quindi come va fatto?

<<Con la napoletana o con la moka>.

Che cosa pensa del caffè decaffeinato?

<<Un caffè impoverito, ammesso che sia dedotto da un prodotto di pregio. Ma di solito si decaffeinizzano caffè non bevibili altrimenti>.

E del caffè conservato sottovuoto spinto?

<<Secondo Rudolf Steiner c’è un’attinenza diabolica in questa prcedura tesa a togliere con violenza l’aria, nel senso di pneuma, soffio vitale>.

E del caffè corretto?

<<Mi è totalmente estraneo>.

C’è gente che nel caffè versa il vino.

<<Una costumanza contadina per raffreddarlo. E’ gente che ha poca confidenza con l’acqua, non la usa né per berla né per lavarsi. Fatale che ripieghi sul vino>>

Succede solo in Italia o anche in altri Paesi che al bar gli avventori chiedano il caffè in una quindicina di varianti: moka, espresso, lungo, ristretto , freddo, amaro, molto dolce, macchiato caldo, macchiato freddo, con la panna, senza la panna, in tazza grande, con acqua calda a parte all’americana, corretto grappa…

<<L’Italia è la nave scuola di questa barbarie>>

Quanto conta l’acqua per ottenere un buon caffè?

<<E’ la cosa più importante importante. Come tutte le altri variabili, che sono almeno 50. Come il caffè, che è la cosa più importante. Come il dosatore, che è la cosa più importante. Come la temperatura della tazzina, che è la cosa più importante.

Che cosa determina il prezzo elevato del caffè?

<<L’avidità e l’interesse>.

E’ vero che la raccolta avviene sfruttando popolazioni ridotte in schiavitù, come affermano i terzomondisti?

<<Parlo per quello che ho visto: no.

Però esiste il caffè <<equo e solidale>>.

<<Il mio è iniquo e crudele>>.

Il fatto che lei parli sempre a voce alta, con tono declamatorio, è sintomo di agitazione da abuso di caffè oppure di prosopopea, abbastanza scusabile in uno che si chiama Frasi?

<<Che sia perché vengo da Busto Arsizio?>>.

Non colgo il nesso.

<<A Busto Arsizio lavoravano tutti nelle fabbriche. Urlavano per farsi capire>>.

Stefano Lorenzetto

 

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