domenica 22 Dicembre 2024
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Parla Matteo Caruso di Tazze Pazze a Genova: “Specialty? Va oltre perché..”

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MILANO – Questa intervista nasce da uno scambio di battute con Matteo Caruso di Tazze Pazze, per molti una delle caffetterie più interessanti di Genova. Il fatto è che Caruso, non credeva di poter avere spazio per raccontare la sua attività su queste colonne. Gli abbiamo spiegato che è vero proprio il contrario. Perché, come mostriamo ogni giorno, tutti gli addetti ai lavori trovano spazio su Comunicaffè, a patto che si tratti di informazione e non di comunicazione commerciale.

E, ai dubbi di Matteo Caruso, probabilmente gli stessi di altri lettori, rispondiamo mettendogli a disposizione questo spazio. Esattamente come facciamo quotidianamente con gli addetti ai lavori più interessanti, quando hanno qualcosa da dire di significativo.

Matteo Caruso, chi è?

“Un barista. Perché ormai da 15 anni, attraverso tutte le evoluzioni che ha interessato questa figura, appartengo al mondo del bancone. I primi corsi risalgono a circa 12 anni fa con Aicaf, insieme a Luca Ramoni. Da lì ho scoperto che esistevano diversi canali di divulgazione della cultura del caffè di qualità, appassionandomi con Andrej Godina allo specialty.

In famiglia avevamo già dal 2009 il primo punto vendita bar-latteria sempre a Genova, in periferia, che ci ha permesso di entrare nel mondo del caffè. Avendo un fornitore commerciale però alle spalle. Essendo una persona estremamente curiosa e alla ricerca costante di un miglioramento per quanto riguarda la cura del cliente e la proposta di nuove esperienze, ho capito che c’era tanto lavoro da fare. I corsi sono stati gli strumenti necessari per lanciarsi, assieme alla tostatura e ai viaggi in piantagione.”

Tazze pazze afferma sul suo sito: “Con noi scoprirete il mondo dello specialty coffee”. Che cosa vuol dire?

“Vuol dire che il caffè esce dall’anonimato e dà spazio al racconto di una storia che lega le persone. Ricordiamoci sempre che dietro un prodotto, tutti i vari passaggi che lo coinvolgono, hanno delle persone alle spalle con qualcosa da condividere. Per lo specialty c’è dell’altro e di più. Perché mette in campo temi legati alla sostenibilità sociale e ambientale, e la collaborazione con produttori che danno valore alla qualità più che ai volumi. Con un risultato in tazza assolutamente diverso che stupisce le persone.”

Spesso e volentieri quando si parla con i torrefattori ci si sente chiedere: secondo lei qual è la percentuale degli specialty sul totale del consumo?

“La percentuale è bassa. Secondo me quello che è giusto fare in questa fase soprattutto in Italia, con la forte tradizione dell’espresso, è instradare il consumatore senza percorrere la strada dell’estremismo. Non aiuta né gli addetti ai lavori né l’utente finale. Bisogna proporre specialty con un profilo sensoriale in tazza senza grossi spigoli di acidità e note spinte sul fruttato e offrire altre opzioni di questo genere. Le persone una volta educate, possono spingersi a gustare anche le soluzioni di microlotti con dello speziato e dargli un’esperienza molto diversa. Ma vanno accompagnati mano nella mano.”

E così che percentuale si può raggiungere sul mercato generale che attualmente sta sul 3%?

“Anche le grandi aziende stanno strizzando l’occhio allo specialty e quindi il mio sogno nel cassetto è che bene o male si andrà sempre più verso la scelta di caffè più sostenibile, con una filiera più controllata. Anche da parte degli addetti ai lavori rispetto ai paesi produttori. È lì il fulcro di tutto: se non si ha la materia prima che soddisfa il barista qualificato, non si possono fare miracoli.”

Lei opera in una realtà genovese: Genova è nota per la caratteristica del braccino corto. Come si fa a piazzare lo specialty e il suo prezzo più alto?

“C’è una scrematura naturale del cliente. Effettivamente, rispetto alla mia piccola realtà a 360 gradi dalla selezione alla tostatura del chicco, sino all’erogazione in espresso e filtro, è inevitabile vedere e chiedere diversi pareri: i 30 centesimi in più sono percepiti da delle persone che nella loro esperienza stanno pagando dei caffè che non riescono a paragonare ad altri prodotti simili dello stesso livello e proprio per questo affrontano un prezzo più alto volentieri.”

Lo specialty coffee si può quindi introdurre serenamente in una caffetteria non specializzata?

“Sì. Bisogna sempre fare un’analisi del posizionamento e della clientela. Senza avere fretta di offrire caffè troppo complessi. Le persone vanno educate e ci deve esser tanta comunicazione, verbale e digitale il più possibile. Seguendo il cliente durante la presentazione e la vendita della tazzina. Mi è capitato spesso durante qualche viaggio di trovare poco dialogo e spiegazione sulla bevanda. Magari tra 10 anni, si potrà parlare con un consumatore più preparato a percepire l’acidità di un Etiopia o un El Salvador. “

Qual è attualmente in questi giorni il menù della sua caffetteria?

Dentro Tazze Pazze, (foto di Matteo Caruso)

“Per l’espresso abbiamo fisso un brasiliano naturale. Lavoriamo sempre con l’ultimo raccolto, nonostante i problemi determinati dal clima. Presenta una bassa acidità e l’amaro lieve, quindi chi si sta appena approcciando agli specialty lo trova dolce e con un sentore di cacao leggermente fruttato. La nostra scelta poi è stata quella di far ruotare mensilmente l’offerta: adesso abbiamo un caffè del Costa Rica, Perla Negra, che attraversa un processo di essicazione del frutto molto lungo e controllato, per una tazza dolce, piacevolmente acidulo e con sentori fruttati. Abbiamo inserito da non molto la varietà più pregiata dell’Arabica che è il Geisha, estratto in doppio espresso soltanto.”

Parliamo ancora di aspetti particolari delle estrazioni alternative: quali vanno di più da Tazze Pazze e come reagiscono i clienti abituati all’espresso, quando li avvicina a queste altre preparazioni?

“Senza forzature, consigliamo per i nostri caffe aromatici e con tostature chiare, il caffè filtro. È spesso una piacevole sorpresa per chi è abituato a collegare questa modalità alla classica “acqua sporca” sperimentata altrove. Personalmente spingo il V60 perché lo apprezzo di più in termini di eleganza e dolcezza. Ma per chi è alle prime volte, possiamo proporre anche la preparazione French Press.

E il Cold brew d’estate ha conquistato i genovesi e non solo: dopo un paio d’anni abbiamo trovato la nostra ricetta equilibrata, con la origine Honduras della nostra piantagione e il caffè brasiliano naturale citato prima. Ha corpo, molto aromatico, mantiene le caratteristiche di cacao e fruttato, e si sentono entrambi all’interno del blend. Abbiamo studiato anche delle soluzioni aromatizzate con la scorza d’arancia, per dargli un senso evolutivo e personale.”

Attorno alla sua caffetteria specialty, in piazza delle 5 Lampadi 71R (per indicare in rosso le attività commerciali): come si lavora lì?

“Molto bene. Genova è una città turistica ma non 365 giorni l’anno. Noi lavoriamo molto bene con i clienti locali. Abbiamo imparato a avere una rete con la gente del posto che si è affezionata. Poi ovviamente ci sono i turisti, con una mentalità più aperta, che ci apprezzano molto. Siamo noi italiani che ancora abbiamo dei limiti nella scelta oltre il solito espresso.”

Lei quanti chili di caffè fa da Tazze Pazze?

“Abbiamo una forbice molto aperta tra inverno ed estate e abbiamo una ventina di posti a sedere fuori, mentre all’interno più di tre persone non entrano anche per via del Covid. Quindi possiamo passare da un paio di chili invernali sino ai 5 estivi. E i prezzi variano: per un espresso non si può contare solo la materia prima, ma si deve considerare la professionalità, l’investimento sul personale, il costo delle utenze.

Noi vendiamo il brasiliano a un euro e trenta, gli altri a uno e cinquanta, uno e ottanta e il Geisha a 4 euro.  Siamo abbastanza comprensivi nei confronti del cliente, soprattutto in questo periodo difficile. Devo dire che la gente si è così abituata che alla fine opta spesso verso le scelte più costose e intermedie.”

Che attrezzatura usa?

“La macchina espresso è una Black Eagle gravimetrica a tre gruppi Victoria Arduino. Una macchina enorme che si vede dalla vetrina. I macinini sono Mythos 1 e 2, per il caffè filtro usiamo il K43 Mahlkönig e poi il V60. Trattiamo l’acqua con i filtri BWT al magnesio, per avere come residuo fisso per l’espresso un valore attorno al 110. L’acqua dell’acquedotto di Genova di base è già molto buona, ma va un po’ modificata per essere perfetta per la preparazione del caffè. “

Spesso ha usato l’espressione “la nostra piantagione”: a cosa si riferisce?

“Cinque anni fa, Andrej Godina ha organizzato un campus in Honduras, in cui si sono svolti dei corsi di formazione. Io ho ultimato il corso Sca per barista e il sensory e in parallelo ho vissuto l’experience in piantagione del lavoro agricolo. In quel frangente ci era arrivata voce di un appezzamento piccolo in vendita senza ancora esser messo ancora a coltivazione. Abbiamo fatto fronte comune e con circa 25 soci di diverse nazionalità abbiamo fondato l’Umami Area, che dal primo giorno ha voluto rivoluzionare qualitativamente questa piantagione in micro lotti e rendere un chicco socialmente responsabile, per l’ambiente e per i coltivatori.”

Ha detto che si occupa anche di torrefazione del caffè che utilizza

“Da quando questo mondo mi si è aperto, il fatto di essere io a cucinare il chicco e comprenderne meglio i modi per valorizzarlo, mi ha sempre affascinato. Grazie a Marco Cremonese, ancor prima dell’esperienza in piantagione, ho fatto i corsi di roasting. Poi siamo diventati autonomi e ci siamo occupati dalla selezione all’origine sino alla tostatura.”

Ci sono dei colleghi suoi baristi che le chiedono di poter acquistare il suo caffè?

“È capitato in passato, ma devo dire che il mercato è composto da persone che stimo moltissimo, che hanno intrapreso una loro strada indipendente. E ora hanno anche loro la propria macchina tostatrice. Sono stato a Bologna e ho constatato con piacere che basta chiedere l’indirizzo su internet per bere lo specialty coffee e sentirsi un po’ a casa.”

Basta miscele quindi e avanti con lo specialty coffee?

“Non sono contrario alle miscele. La scelta di non averle nel mio locale è per semplificare le cose al consumatore ed educarlo. Non è detto che non possa esserci però il blend nel futuro di Tazze Pazze.”

Infine della certificazione Unesco per il rito dell’espresso italiano tradizione che cosa ne pensa?

“Non sono d’accordo, perché potrebbe esser confuso il rito con la qualità. Dovremmo prima fare un discorso su quest’ultimo aspetto e poi spostarci sul primo. Certo qualcuno mi chiede se ho il vero espresso italiano, ma ho notato che potremmo anche esser sbeffeggiati da un pubblico straniero che sa benissimo che la strada attuale non può continuare su questo livello. Da questo punto di vista è molto esigente anche il genovese, ma basta saperlo prendere.”

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