NUOVA DEHILI – La pandemia ha colpito tutto il mondo e in una terra lontana dalla nostra come lo è di sicuro l’India, le condizioni della popolazione non sono state delle più ottimali. Un 2020 che ha inciso sulla salute e anche sul benessere della società, composta in gran parte dai lavoratori nelle piantagioni di tè. Leggiamo che cosa hanno passato dall’articolo scritto da Rezwan e tradotto da Giulia Federici su it.globalvoices.org.
L’india, la quinta economia più grande del mondo, ha sofferto immensamente durante la pandemia della Covid-19
A maggio 2020, il tasso di disoccupazione è salito al 24%, lasciando i lavoratori a giornata – come quelli che si occupano delle piantagioni di tè del paese – ad affrontare povertà e fame dovute alla scarsità del lavoro e la mancanza di assistenza governativa.
Ad aprile 2020, molti di loro sono stati costretti a riprendere il lavoro nonostante le restrizioni causate dalla Covid-19 nel paese, anche se non c’erano in atto sufficienti misure di assistenza sanitaria o di sicurezza per la loro protezione.
La #VeritàSulTè
L’India è uno dei maggiori produttori di tè al mondo. Due regioni in particolare, Assam e il Bengala Occidentale, producono insieme oltre il 70% del tè del paese. L’industria è il secondo più grande fornitore di occupazione nel settore formale in India, offrendo lavori per più di un milione di famiglie nelle piantagioni di tè. Un sorprendente 70% di questi lavoratori sono donne, pagate con salari molto bassi e costrette a lavorare in situazioni spaventose.
Di conseguenza, la maggior parte di loro conduce una vita senza dignità – una condizione rappresentata nelle serie di campagne #VeritàSulTè su Youtube dalla no-profit Oxam India. Anche prima della pandemia, afferma la serie, vivevano in condizioni antigieniche, sopravvivendo a malapena con salari a basso costo con scarso o nessun accesso ai sistemi sanitari ed educativi: stando al video, in media, un lavoratore di una piantagione cammina 16 chilometri e trasportano chilogrammi di foglie di tè ogni giorno, solo per guadagnare una paga giornaliera di circa 150 rupie indiane, cioè l’equivalente di 1,70 euro, dopo 13 ore di lavoro. Solo l’87% dei lavoratori riceve lo stipendio massimo di 4500 rupie al mese (52 euro).
Alcuni operai lavorano a piedi nudi e solo una piccola percentuale di loro è dotata di indumenti protettivi come guanti, mascherine e stivali. A volte le donne sono costrette a tornare al lavoro pochi giorno dopo il parto e non ci sono abbastanza asili nido efficienti per i bambini. Inoltre, nelle piantagioni di tè non ci sono servizi igienici e molti operai non ne hanno nemmeno uno a casa.
In India il costo umano della produzione di tè è alto; privati dei diritti fondamentali, gli operai e le loro famiglie dicono di sentirsi come schiavi dei proprietari di giardini da tè.
Opzioni limitate
Il 25 marzo 2020, quando l’India è entrata nella prima fase della sua quarantena da Covid-19, molte piantagioni di te hanno cessato l’attività. Tuttavia, il 4 aprile, l’Associazione Indiana del Tè aveva scritto al governo statale chiedendo la “ripresa delle normali operazioni nei giardini da tè nel rispetto delle linee guida di sicurezza prescritte e il distanziamento sociale”.
Preoccupato per gli effetti economici, il giornalista Pratim Ranjan Bose ha messo in dubbio le misure di quarantena, ma ha anche notato “lo stigma sul settore delle piantagioni riguardo i problemi di sanificazione, salute e igiene tra i gli operai”.
Tuttavia, le amministrazioni statali hanno consentito ad alcune piantagioni di riprendere le operazioni già dal 10 aprile. Quando è arrivata la terza fase del blocco (4-17 maggio), le piantagioni di tè sono state autorizzate a funzionare normalmente, anche se le strutture sanitarie che le sostenevano erano mal dotate per gestire i pazienti COVID-19.
I sindacati nei giardini del tè dell’India settentrionale hanno presto iniziato a presentare denunce alla polizia per violazioni della quarantena, ma in quel momento le persone erano più preoccupate per l’economia che per il benessere dei lavoratori del tè.
Harihar Nagbansi, un corrispondente della comunità di VideoVolunteers la cui famiglia lavora e vive nella piantagione di tè di Bhatkawa nel Bengala occidentale, ha riferito:
“Mentre l’intero paese è bloccato per combattere il coronavirus, il lavoro continua come nelle piantagioni di tè del distretto [di] Alipurduar del Bengala occidentale. Queste tenute si trovano in aree così lontane che le informazioni sul virus non sono arrivate a tutti e sono disposte a lavorare senza alcun equipaggiamento protettivo. Ovviamente, anche i proprietari di giardini da tè non si preoccupano di cosa farà la pandemia a questi lavoratori.
I lavoratori dell’India protestano
In un altro video report, questa volta dal Madhu Tea Garden nel Bengala settentrionale, Nagbansi ha detto che ai lavoratori delle piantagioni di tè non vengono forniti i 100 giorni minimi di lavoro previsti dal Mahatma Gandhi National Rural Employment Guarantee Act (MGNREGA).
Con la vita resa ancora più difficile a causa delle restrizioni per la Covid-19, il 29 giugno i lavoratori hanno organizzato una protesta, chiedendo di ricevere 200 giorni di lavoro e un aumento del pagamento a 600 rupie (cioè 7 euro) al giorno: tuttavia, negli ultimi anni, i lavoratori delle piantagioni di tè indiane hanno protestato contro i bassi salari senza alcun successo.
‘Una tazza piena di disgrazie’
Uno studio di ricerca del febbraio 2019 intitolato ‘Una tazza piena di disgrazie’, in cui Subhashri Sarkar e Reji Bhuvanendran esaminano la scala salariale dei lavoratori del tè, ha rivelato che l’industria indiana del tè è in crisi.
La rigida concorrenza, l’aumento dei costi di produzione e la chiusura di diverse piantagioni di tè dovute a una diminuzione della domanda hanno provocato enormi perdite che ostacolano la sostenibilità del settore.
Ad aggravare la situazione dei salari ingiusti c’è una miriade di fattori, tra cui la mancanza di interesse da parte della direzione, la mancata attuazione delle leggi statali e l’assenza di un monitoraggio efficace da parte del governo centrale.