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sabato 02 Novembre 2024
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L’espresso da tradizione italiana a brand globale

Un interessante analisi scritta da un ambasciatore italiano e apparso sull'Huffington post a proposito dello sbarco di Starbucks in Italia

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di Antonio Armellini*
Ambasciatore

Se è vero che Starbucks è decisa ad entrare nel mercato italiano e la cosa verrà confermata, il percorso globale del “caffè all’italiana” avrà compiuto il suo full circle.

La trasformazione dell’espresso da bevanda legata a usi e tradizioni del tutto locali, in un brand conosciuto in tutto il mondo è avvenuta senza che da noi quasi ci si accorgesse.

A parte infatti il modo di farlo il caffè, non vi è stato nulla di italiano in questa trasformazione, non un progetto, non una strategia commerciale, non soprattutto un investimento di capitali.

Secondo una vulgata di moda Howard Schultz, allora dipendente di una piccola società di caffè dal nome Starbucks, rimase affascinato dal fatto che non solo la qualità del caffè nei bar di Milano era eccellente, ma che essi servivano al tempo stesso da luoghi di ritrovo informale per clienti che con i loro bar avevano un rapporto di grande fedeltà.

E così, tornato a Seattle, decise di replicare il modello anche negli Usa e, in breve tempo, riuscì a rilevare Starbucks per farne il gigante che è ora diventato.

Che l’idea fosse giusta lo si vide subito e non passò molto tempo perché a Starbucks facessero seguito altre catene, come Aroma, Caffè Nero e altre minori; tutte col nome italiano e tutte senza che di italiano vi fosse nulla, a parte il prodotto che veniva venduto.

Con l’unica eccezione di Costa, che iniziò con un investimento italiano ma venne ben presto ceduta passando in pochi anni da una quarantina di esercizi a oltre un migliaio.

Starbucks e gli altri hanno rappresentato una rivoluzione e sono stati una vera benedizione per i consumatori, soprattutto americani.

Chiunque abbia avuto modo di bere un espresso negli USA prima del loro avvento, ricorderà come si trattasse di un’esperienza davvero penosa.

Il caffè veniva ora tostato nel modo giusto e, al tempo stesso, l’idea che un bar non dovesse essere necessariamente un saloon dove bere birra in un contesto di grande confusione, ma potesse essere un luogo dove passare del tempo per leggere il giornale o guardare il computer su una comoda poltrona, piacque subito soprattutto ai metrosexuals delle grandi città, per poi espandersi a macchia d’olio in Europa, in Asia e anche in Africa.

L’espresso globale è stato un traino formidabile per tutta una serie di prodotti italiani: dai più ovvi come le macchine per il caffè che, accanto alle moka e alle napoletane hanno rilanciato marchi storici come Gaggia e Pavoni, ai più disparati: attrezzi per la cucina, a dolci prima quasi sconosciuti come il panettone, a paste che spiegano come ci sia un mondo oltre gli spaghetti, a salse e quant’altro, aprendo così la via all’invasione della gastronomia italiana che di lì a pochi anni sarebbe avvenuta un po’ ovunque nel mondo.

Tutto bene dunque? Si e no.

Rimane per me stupefacente come il “sistema Italia” non sia stato capace non tanto di intercettare sin dall’inizio una domanda latente che rappresentava una scommessa, quanto di cogliere tempestivamente le opportunità che si andavano aprendo, abbandonando il campo interamente ad altri.

La stessa Costa aveva sì all’inizio investito, ma lo aveva fatto da Londra in quanto impresa britannica, e non dall’Italia. Per la verità un’eccezione, isolata, ci fu: Lavazza rilevò qualche anno fa la catena indiana Barista (ancora un nome italiano) diventando così il primo gruppo italiano a investire in una catena straniera di caffè all’italiana, paradossalmente rimpatriandola.

Ma anche questo non è durato granché e Barista è nel frattempo passata nuovamente di mano.

E sì che di capacità, esperienza e capitali la nostra industria non manca, come non ha mancato di fantasia lungimirante in molte occasioni: la sua assenza colpisce ancora di più qui, in presenza di un prodotto che è italiano nella tradizione, negli strumenti e nella logica industriale.

Le strategie che presiedono oggi alla crescita della rete dell’espresso globale rispondono a considerazioni, e interessi di multinazionali rispetto a cui la componente italiana ha una valenza subalterna, meramente strumentale.

È evidente che ben diverse sarebbero le cose se la logica di questo sistema avesse potuto dipendere anche da una forte capacità di direzione della nostra industria.

Nel frattempo, il “modello Starbucks” è andato sottilmente distanziandosi dai referenti originari.

Il caffè è buono, ma è leggermente diverso, meno “aggressivo”; cappuccini, “latte” e gli altri prodotti di italiano hanno sempre meno (chi non ricorda quei macchiato annegati in una mare di panna e latte).

I “caffè globali” – Starbucks, Nero, Costa – dove puoi trovare giornali da leggere e wi-fi gratis e sei libero di passarci anche delle ore in un luogo accogliente e protetto, sono cosa ben diversa dal nostro bar di quartiere, dove le ore magari ce le passi ancora se hai degli amici e fai una partita a carte.

A Londra, New York e Delhi la vita di quartiere come la intendiamo da noi non c’è più, o non c’è mai stata; dove resiste, come a Parigi, del modello Starbucks non c’è traccia (la stessa Nespresso – il primo vero concorrente sul mercato mondiale – sta ben attento a tenersene alla larga).

Ora, completando un lungo periplo attraverso il globo, il caffè globale si appresta ad arrivare da noi portando con sé un’innovazione che rovescia le premesse da cui era partito, ma probabilmente non le rimpiazzerà, non riuscirà a strangolare le tradizioni locali e continuerà a far bene all’economia del nostro paese.

Non averne capito le potenzialità sin dall’inizio, ed esserci lasciati soffiare posizioni senza reagire come sarebbe stato necessario, resta però una pecca di cui dovremo prima o poi ricercare le ragioni.

Anche perché le insegne di Starbucks saranno lì, agli angoli delle strade e delle piazze, a ricordarcelo.

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