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martedì 03 Dicembre 2024
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Le capsule possono provocare infertilità maschile per gli ftalati, dice studio

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LECCE – C’è chi non inizia la giornata senza berne almeno una tazzina, ma ora un recente studio condotto a Padova getta qualche ombra sul caffè espresso ottenuto dai preparati monodose.

“Abbiamo visto che quello in cialde o in capsule di plastica o alluminio è un potenziale veicolo di interferenti endocrini”, spiega all’agenzia Adn Kronos il professor Carlo Foresta. Foresta è ordinario di Endocrinologia all’Università degli Studi di Padova e presidente della Fondazione Foresta Onlus, ed ha parlato su questo tema al convegno ‘L’infertilità di coppia: dalla medicina generale al centro Pma’, che si è tenuto a Lecce.

“Gli ftalati – ricorda Foresta – sono agenti chimici aggiunti alle materie plastiche per aumentarne la flessibilità. Sono ovunque, ma non ce ne accorgiamo. E svolgono un’azione simil-estrogenica nel nostro organismo. Secondo recenti ipotesi, aumenterebbero l’incidenza di patologie andrologiche osservata negli ultimi venti anni”.

Aggiunge Foresta: “In diverse specie animali gli ftalati modificano il funzionamento del sistema riproduttivo e sono ritenuti anche per l’uomo tra quei contaminanti che possono agire negativamente sulla fertilità”.

Ebbene, un recente studio del gruppo di ricerca guidato da Foresta, in collaborazione con il Cnr, ha valutato il contenuto di ftalati in una delle bevande più diffusa al mondo: il caffè.

In particolare, i ricercatori hanno rivolto l’attenzione a quello ottenuto dai preparati commerciali predosati.

Sorprendentemente “tutti i prodotti testati, dalle capsule in alluminio a quelle in plastica e materiale biodegradabile, si sono rivelate capaci di rilasciare gli ftalati nel caffè”.

“Non vogliamo demonizzare nulla – precisa Foresta – anche perché le concentrazioni riscontrate sono nell’ambito dei range consentiti. Ma dev’essere considerato che, anche attraverso questa contaminazione, si contribuisce al raggiungimento dei valori soglia segnalati come nocivi dalle autorità sanitarie nazionali ed internazionali”.

I risultati della ricerca, aggiunge lo specialista:

“pongono importanti interrogativi sui criteri indicati per valutare il valore soglia quando non è ancora nota la reale diffusione di queste sostanze che nei singoli casi rientrano nel range, ma è difficile comprendere la globalità dell’assunzione”.

“Noi siamo, di fatto, la somma di queste esposizioni. Quindi sarebbe importante cercare di capire se, nell’arco della giornata, si superano i limiti dell’assunzione, quantificando i valori medi di esposizione. Una ricerca che aiuterebbe anche a decidere in che modo eventualmente limitare l’esposizione”, conclude Foresta.

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