NEW YORK – Che ci fosse un ritorno per un marchio italiano sponsor per la prima volta degli US Open era cosa logica, ma che ci fossero due italiane in finale, con un effetto moltiplicatore incalcolabile era imprevedibile: «Quando abbiamo deciso di entrare anche negli US Open non era neppure prevedibile che le nostre italiane arrivassero ai quarti, la nostra decisione è stata esclusivamente di natura strategica. Oggi siamo felici, sul piano emotivo per quello che hanno fatto la Pennetta e la Vinci, lo siamo anche sul piano del business perché adesso il ritorno in termini di immagine ci ha dato ancora più soddisfazione», dichiara Giuseppe Lavazza (FOTO), vicepresidente del gruppo, a New York per gli Open di Flushing Meadows, che ha iniziato qualche anno fa la diversificazione delle sponsorizzazioni anche nel tennis.
Prima a Wimbledon, cinque anni fa, poi al Roland Garros, poi tre anni fa alla Roger’s Cup canadese: «Abbiamo deciso che quest’anno doveva essere l’anno dell’America. Siamo partiti con la Indian Wells in California e poi con gli US Open, ma la nostra è una scelta strategica che punta alla diffusione del nostro marchio anche in altri comparti, dalla cultura alla filantropia ambientale in un mercato che negli ultimi 5 anni ci ha dato margini di crescita annuali a doppia cifra».
La strategia Lavazza diventa dunque un classico “business case”. Oggi il fatturato americano viaggia sui 110 milioni di dollari all’anno con una copertura territoriale pari a circa il 40%. Ma se si considera la natura “speciality product” di prodotto di qualità, la copertura arriva forse all’80% di un mercato che vale per lo specialty circa 1,1 miliardi e per il generico oltre 14 miliardi.
«Ovvio che ci sono ancora margini di crescita importanti soprattutto dopo che siamo entrati nel settore dei filtri offrendo miscele adatte al caffé americano, ma la nostra diffusione va ormai dalle navi di crociera alle grandi catene di alberghi, da Las Vegas ai prodotti in casa soprattutto con le macchine Keurig o con le nostre macchine per il caffé espresso, fino alla ristorazione in genere», dice ancora Lavazza.
La strategia di penetrazione sul mercato americano ha avuto un’importante componente finanziaria: nel 2010 la Lavazza acquista un pacchetto di Green Mountain uno dei più grandi produttori e distributori di caffè in America che controlla fra l’altro le macchinette Keurig, presenti in milioni di case e uffici americani.
Il 2010 è ancora un anno difficile, siamo nel post crisi e l’investimento costa circa 200 milioni. Con la partecipazione finanziaria si chiude anche un accordo di marketing: la Lavazza produrrà le cialde adatte alla distribuzione per le macchinette Keurig.
Nel 2014 la partecipazione finanziaria in Green Mountain si moltiplica e vale oltre un miliardo di dollari.
Quest’anno, proprio prima di una forte caduta del titolo Green Mountain, Lavazza cede buona parte del pacchetto per avere disponibilità di cassa da destinare ad altre acquisizioni, in particolare della francese Carte Noir per la quale vi è un’offerta vincolante.
Ma la carta della comunicazione ha sempre giocato un ruolo chiave per Lavazza. L’anno prossimo investirà 20 milioni di euro solo in comunicazione, e questo include per l’America la sponsorizzazione della mostra di Burri al Guggeneheim Museum l’8 ottobre; l’anno scorso aveva sponsorizzato la mostra sul futurismo, che ha portato al Guggenheim un’affluenza record di oltre 600mila visitatori; appoggia le attività di Rainforest Alliance, importante non profit per la tutela dell’ambiente e dei metodi di coltivazione biologici in Paesi emergenti.
E il tennis. Perché proprio il tennis? «Perché a differenza di quel che si può pensare in Italia, il tennis in America e in altri Paesi è uno sport popolare che trascende classi sociali, genere femminile o maschile o di razza. Riflette in sostanza i nostri valori che sono poi quelli di rivolgerci a un vasto pubblico caratterizzato da una passione per il consumo di qualità. Che poi in finale siano arrivate due italiane aiuta la percezione di qualità del nostro marchio e dell’Italia in genere: come Paese siamo più forti di quel che si crede. A volte riusciamo anche a dimostrarlo».