Giuseppe Lavazza racconta i sogni e le speranze che hanno come protagonista la sua amata città Torino. Con una nota di nostalgia, il vicepresidente dell’azienda, parla di come oggi investire nei bar sia diventato molto più difficile rispetto al passato ma che Torino è stata, è e sarà sempre la città per cui la caffetteria rimarrà un simbolo di appartenenza. Riportiamo di seguito i punti salienti dell’intervista di Luca Iaccarino per l’edizione torinese de Il Corriere della Sera.
L’intervista a Giuseppe Lavazza
TORINO – Non c’è imprenditore innamorato di Torino più di Giuseppe Lavazza. Forse non c’è torinese più appassionato di questa città, nella quale l’azienda di cui è vicepresidente – così come il cugino Marco – investe dal 1895. È evidente nei fatti – il grande headquarter in via Bologna, il ristorante Condividere, la Factory a Settimo Torinese, l’adesione a tutti i grandi eventi – ma anche glielo si legge in faccia: quando parla di Torino si appassiona, si infervora. Orgoglioso, ma non cieco, vede tanto ciò che va bene, quanto ciò che va sistemato.
Così, prendendo un caffè nella luminosa caffetteria della Nuvola, parte con una analogia agricola, adatta ai tempi: “Non è facile seminare a Torino, il terreno è secco da troppi anni, si è indurito.
Ma bisogna insistere a farlo, perché questa città è un setting fantastico, andrebbe curata come un giardino”. “Ma come si fa?”, gli chiediamo. “È complesso, mi rendo conto, e sono tempi difficili. Ma bisognerebbe occuparsi di Torino un pezzo alla volta, risistemandolo con attenzione”.
Sono in corso le trattative per portare in città la cerimonia dei 50 Best Restaurants: gli eventi sono un volano?
“Certo, come le ATP Finals: gli eventi non solo portano persone da fuori ma spingono questa città a confrontarsi con gli altri, ad alzare l’asticella. Avere 50 Best andrebbe certamente in questa direzione”.
Lavazza ha in piedi un grande progetto sulle colazioni: Torino è ancora la città dei bar, come un tempo?
“Oggi investire nei bar è molto difficile, ai problemi del passato si sommano quelli del reperimento del personale. Ma Torino rimane una città in cui ci sono grandi bar, che sono quelli accoglienti, che fanno qualità, che ci tengono. L’unione tra bar e pasticceria, oggi, mi sembra la scelta che dà maggiori soddisfazioni“.
Mercoledì alla Centrale Lavazza è stato assegnato a Massimiliano e Raffaele Alajmo – chef e maître del ristorante Le Calandre di Sarmeola di Rubano – il Premio Bob Noto, intitolato al celebre gastronomo e dedicato all’ironia. Lo humor rimane un tratto distintivo dei torinesi?
“Bob era quel tipo di torinese signore e ironico che sa prendere la vita con leggerezza. Ancora ce ne sono persone così, e sono preziose: bisogna sperare di incontrarle, e avere la fortuna di diventarne amici”.
La vostra sede storica, il San Tommaso 10, è ora un cantiere. Cosa succederà?
“Posso solo dire che sarà una bella sorpresa”.
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