TORINO – Leggiamo l’articolo di Paolo Griseri su repubblica.it, la storia di una famiglia, di un’azienda del made in Italy. L’America di Luigi si chiamava Torino. Cinquanta lire di prestito dal padre per lasciare Murisengo, sulla collina del Monferrato e andare garzone in una drogheria nel cuore della città, quando la capitale era appena trasferita a Firenze ma non si erano perse le vecchie abitudini della politica, a cominciare dai caffè del centro. «Quelle cinquanta lire mio trisnonno le restituì tutte al padre», racconta con orgoglio Giuseppe Lavazza di fronte al quadretto che incornicia l’assegno originario, l’inizio di tutta la storia.
A fine Ottocento il garzone avrebbe fatto carriera fondando nel 1895 una sua drogheria specializzata nella vendita del caffè. Erano anni di trasformazione per l’ex capitale: quattro anni dopo, in un palazzo non molto distante, una decina di nobili torinesi avrebbero fondato un’industria di automobili.
Lavazza, una storia di famiglia
Giuseppe, Alberto, presidente del gruppo, Francesca, Marco e Antonella E’ in queste radici contadine e sabaude, concretezza e rigore, che si trova il dna del successo di Lavazza? O nel connubio con Armando Testa, nei 107 filmini pubblicitari girati con Nino Manfredi («più lo mandi giù e più ti tira su») e nell’ormai infinita serie del Paradiso, cominciata con Solenghi, proseguita con Bonolis e oggi approdata a Enrico Brignano? O ancora nella «sala prototipi» della sede centrale di Settimo Torinese dove si sperimentano il «caviale di caffè», il «caffè solido» (giri la tazzina e rimane all’interno)e altre diavolerie destinate ad aggredire il mercato nei prossimi anni?
Il risultato è un’azienda che fattura oltre un miliardo di euro, tosta 100.000 tonnellate di caffè per la moka e i bar
E che impacchetta oltre due miliardi di cialde. Soprattutto, realizza ormai il 45 per cento del suo fatturato all’estero. E non era affatto scontato: «All’inizio- ricorda Marcello Arcangeli, ai vertici della direzione marketing – il caffè come lo conosciamo noi aveva un mercato quasi esclusivamente italiano. E ancora oggi in molte parti del mondo l’espresso in tazzina è quasi un prodotto etnico». Il passaporto per andare nel resto del mondo si chiama latte.
Dal cappuccino, al latte macchiato, ai beveroni a base di latte di soia e caffè che tanto attirano gli statunitensi: sono questi i prodotti sui quali la Lavazza sta puntando per invertire le proporzioni attuali e realizzare fuori dall’Italia la maggior parte del suo fatturato. Che è anche un modo sicuro per mettere al riparo i bilanci dall’andamento non esaltante dei mercati dell’eurozona.
Recentemente Lavazza ha firmato un contratto con l’americana Green Mountain per realizzare una macchina destinata alle famiglie che produce il caffelatte del mattino
Ma il vero segreto del successo è probabilmente nell’innovazione originaria di Luigi Lavazza: la miscela. Creare un gusto originale mischiando diversi tipi di caffè al momento della tostatura. «Quel che conta – spiega Giuseppe Lavazza – è riuscire a mantenere il gusto della miscela costante nonostante gli alti e bassi dei raccolti in Africa, Sudamerica e Brasile. Non esiste il caffè d’annata, come accade con il vino. Ogni anno bisogna equilibrare le diverse qualità in modo da raggiungere sempre lo stesso gusto». Nella sua drogheria del centro di Torino, Luigi Lavazza aveva acquistato una piccola tostatrice, la «Eureka» e con quella tostava e miscelava piccole quantità di caffè. L’erede di quella macchinetta artigianale è lo stabilimento di torrefazione di Settimo Torinese, il più grande dei quattro italiani.
I tir-cisterna con il caffè verde (in sacchi da 60 chili o già in grani) riempiono 98 silos che contengono in tutto 5.000 tonnellate di prodotto diviso secondo le diverse qualità. Poi, la miscela la fa il computer. Impostato per i diversi prodotti, utilizza i silos come i tasti di un pianoforte decidendo quale quantità di chicchi e di quale qualità devono finire in una delle quattordici tostatrici al termine di un tortuoso percorso nei tubi di carico. La miscela e soprattutto il profilo di cottura (le diverse temperature che raggiunge la tostatrice) sono le ricette dei prodotti finali, dalla «Qualità oro» alla «Qualità rossa», alla polvere per le capsule.
Questo è il cuore della produzione. Tutto il resto è studio, laboratorio, comunicazione, sperimentazione, glamour
Nel laboratorio Arcangeli narra dei «ventimila recettori tra naso e faringe» per dare un’identità all’aroma; dei quattro elementi fondamentali che compongono ogni gusto (amaro, dolce, salato e acido). Soprattutto racconta dell’«azione protettiva della schiuma che nella tazza dell’espresso impedisce agli aromi di volatilizzarsi in modo che si liberino solo quando, inclinando la stessa tazza, la schiuma si sposta». Studi che hanno fatto nascere oggetti di design come la «e-cup», la tazzina con la parete inclinata per far scivolare meglio la schiuma sotto il beccuccio della macchina da bar.
E’ in questi laboratori che vengono invitati i barman nei 51 centri di addestramento nel globo, dall’Europa all’Australia agli Usa. Ed è in questi laboratori, in fondo, che si perpetua e si difende l’identità di una delle eccellenze italiane nel mondo: «Noi possiamo fornire il prodotto migliore – spiega Arcangeli ma vogliamo essere sicuri che chi lo utilizza lo faccia al meglio. Sulla tazza c’è pur sempre il nostro logo».
Produzione totale Lavazza:
Fatturato 1.330 milioni 2012 1.268 milioni 2011 100.000 tonnellate di caffè torrefatto all’anno 2,2 miliardi di cialde Lavazza è leader nel mercato caffè Italia 43,4 quota a volume 48,4 quota valore Stabilimenti: Verres (Aosta) Torrefazione Gattinara (Vercelli) Produzione cialde Blue, Espresso Point e A Modo Mio Torino – Strada Settimo Torrefazione Pozzilli (Isernia) Decaffeinizzazione All’estero Nuovo stabilimento indiano a Sri City Fonte: la Repubblica