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martedì 05 Novembre 2024
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Lavazza, parla Cerutti:«Profondo il senso di responsabilità socio economica verso i coltivatori»

Anche con una tazzina di caffè si può cambiare il mondo. Ecco l'esempio di una grande azienda italiana che ha scelta la via della sostenibilità e che opera nel rispetto dell'ambiente e delle persone

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TORINO – La sostenibilità è una scelta ormai dovuta da parte delle aziende. Nello specifico, quando guardiamo al mondo del food e ancor più nel dettaglio al settore caffè, le possibilità per migliorare su questo punto sono veramente tante. Lavazza è una di quelle realtà che si sono messe in gioco per sostenere la filiera alle sue origini, dove la sostenibilità ha un doppio significato: il rispetto per l’ambiente ma anche un impatto socio-economico. Leggiamo quali sono state e sono tutt’oggi le strategie messo in atto dal colosso torinese con l’intervista a Mario Cerutti, Responsabile sostenibilità Lavazza e del bilancio CSR dell’azienda, oltre che Presidente del Comitato Italiano del Caffè, dal sito vanityfair.it.

Lavazza cambia il volto del chicco verde (e green)

Ogni volta che siamo di fronte a uno scaffale di un supermercato possiamo fare una scelta che non ha valore solo per noi, ma per il mondo. I prodotti non sono tutti uguali: ci sono aziende che si impegnano per un futuro migliore usando materie prime coltivate nel rispetto della natura, impiegando lavoratori pagati a un prezzo equo, promuovendo il lavoro delle donne, gettando le basi per l’autonomia delle nuove generazioni.

Lavazza è tra queste: da più di 120 anni ha fatto dell‘impegno etico ed economico in sostenibilità uno dei suoi pilastri. Un impegno concreto che ha manifestato sottoscrivendo l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e i suoi 17 Sustainable Development Goals, aderendo al Global Compact delle Nazioni Unite e facendosi partner attivo dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).

La Fondazione Giuseppe e Pericle Lavazza Onlus è nata proprio per coordinare e realizzare i progetti di sostenibilità dell’azienda: supporta 24 progetti in 17 paesi, a beneficio di oltre 97.000 cafficultori ai quali insegna pratiche agricole sostenibili, tecniche per la rotazione delle colture per mantenere in salute l’ecosistema, dotandoli anche di tecnologie per combattere il cambiamento climatico e promuovendo il lavoro femminile. Inoltre l’azienda ha aderito alla CEO Carbon Neutral Challenge, la sfida per la riduzione delle emissioni di CO2 e sostiene il Corporate Biofuel Programme di KLM, iniziativa di ricerca e sviluppo di biocarburante per la riduzione delle emissioni di CO2. Un impegno costante che è valso a Lavazza un posto nella top ten del 2019 Global CR RepTrak®, il più vasto studio al mondo sulla percezione della Responsabilità d’Impresa svolto presso l’opinione pubblica.

Mario Cerutti, Chief Institutional Relations & Sustainability Officer di Lavazza, in questa intervista ci parla dei progetti dell’azienda, e di come le nostre scelte possono cambiare il mondo

Perché un caffè non vale l’altro come impegno per la società?
«Il percorso che porta il chicco di caffè verde fino alla tazzina parte da lontano e coinvolge molteplici attori. Parte dalle piantagioni di caffè delle Americhe fino all’Asia, passando per il continente Africano, per esempio in Etiopia, paese di origine della pianta del caffè. In tutti questi paesi ci sono oltre 20 milioni di agricoltori che si dedicano e si sostentano grazie alla coltivazione del caffè: nel Gruppo Lavazza abbiamo un profondo senso di responsabilità proprio nei confronti di queste comunità. Lo esprimiamo nel nostro Manifesto della Sostenibilità e lo decliniamo sul campo con i progetti di sviluppo sostenibile della Fondazione Giuseppe e Pericle Lavazza»

Cosa vuol dire caffè sostenibile? Aiuta la società, l’ambiente o entrambi?

«I nostri programmi di sviluppo sostenibile nei paesi produttori di caffè mirano a ottenere un impatto positivo sia ambientale che sociale: hanno l’obiettivo di migliorare la resa produttiva e la qualità del caffè, promuovendo allo stesso tempo l’imprenditorialità dei contadini e il miglioramento delle loro condizioni di vita».

Come aiutate le comunità?

«Attraverso la Fondazione coordiniamo e implementiamo progetti di sostenibilità, insieme a organizzazioni locali per sostenere l’autonomia delle comunità e delle piccole aziende familiari che le compongono. Per farlo ci concentriamo, tra gli altri, su due obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. Il primo è la valorizzazione del lavoro delle donne attraverso programmi di formazione agricola ma anche training motivazionali affinché abbiano un ruolo più attivo. Poi il coinvolgimento dei giovani, con la formazione costante delle nuove generazioni affinché, invece di abbandonare le campagne, comprendano e sviluppino le potenzialità della coltivazione del caffè».

Cosa fate per l’ambiente?

«Ci muoviamo su moltissimi fronti, per esempio finanziando ricerche scientifiche come quella sul genoma del caffè o partecipando al World Coffee Research al fine, tra l’altro, di individuare le varietà più resilienti agli effetti dei cambi climatici in atto o collaborando con altre aziende del nostro stesso settore, in ottica pre-competitiva, per incidere con progetti pilota di buone pratiche agricole. Un ambito su cui stiamo intensificando il nostro impegno è il contrasto alla deforestazione: è uno dei problemi più urgenti che purtroppo affligge molti paesi produttori di caffè».

In Etiopia, il maggiore produttore di caffè del continente africano, la Fondazione Lavazza sostiene un progetto triennale iniziato nel 2019 per il ripristino e la produzione del caffè a «deforestazione zero». Cosa significa «deforestazione zero»?

«È un caffè che viene prodotto in piantagioni create grazie a progetti di riforestazione o in aree in cui è proibita la deforestazione. I circa 4 milioni di piccoli coltivatori etiopi devono affrontare molte problematiche nella quotidiana gestione delle loro coltivazioni, per esempio quelle sempre più frequenti dovute all’impatto del climate change. Per provvedere ai bisogni delle loro famiglie, quindi, espandono le loro piantagioni a sfavore delle foreste, mettendo a repentaglio le già scarse risorse ambientali del loro Paese.

L’obiettivo del progetto in corso nella Riserva della Biosfera Unesco di Yayu è insegnare ai contadini un modello di piantagione alternativo, quello dei «garden coffee»: evita l’avanzare della deforestazione creando aree di coltivazione del caffè in zone apparentemente inadatte grazie alla piantumazione di alberi da frutto che creano l’ombra necessaria alla crescita delle piantine».

Lavazza ha un progetto anche per proteggere l’Amazzonia, ce lo spiega?

«È un innovativo progetto in corso in Perù, realizzato insieme al Cesvi, che ha già consentito la preservazione di 36.000 ettari di foresta amazzonica, in una zona lo scorso anno martoriata dagli incendi, oltre che dalla deforestazione. L’idea vincente consiste nell’aver reso protagonisti gli indigeni locali, dando loro il ruolo di guardiani della foresta nel momento in cui viene arricchita dalla piantumazione di noce amazzonica, messa a loro disposizione per essere raccolta e venduta nei mercati locali. La noce amazzonica è preziosissima per l’ambiente: può crescere fino a 50 metri di altezza, vivere fino a 700 anni e immagazzinare circa 64.000 kg di CO2 nel corso della sua vita».

Ci racconta un progetto che ha particolarmente a cuore?

«Ci sono vari progetti che mi stanno particolarmente a cuore. Tra i tanti posso prendere ad esempio una storia vera, quella di Johana, una giovane colombiana madre di sei figli, che aveva perso tutto durante il conflitto armato dovuto alla guerriglia delle Farc. La Fondazione Lavazza, con ONG e organizzazioni locali, lavora dal 2015 nella zona dove vive Johana con un progetto che ha ripristinato le piantagioni di caffè sostituendole a quelle destinate a colture illegali, ridando a un centinaio di famiglie l’indipendenza economica e quindi migliorando enormemente le loro condizioni di vita. Johana ha raccontato la sua storia di speranza in un docu-film: Coffee Defenders, a Path from Coca to Coffee disponibile su Amazon Prime Video».

Il vostro impegno per le comunità è stato maggiore con il Covid?

«Lavazza ha seguito con preoccupazione l’evolversi della situazione in tutti i territori in cui opera. In Italia siamo stati tra le prime aziende ad attivarsi nel dare aiuti concreti con una donazione di 10 milioni di euro a progetti di sostegno a sanità, scuola e fasce deboli. Nei paesi produttori di caffè, durante le prime fasi dell’emergenza la Fondazione ha contribuito a distribuire presidi sanitari, come igienizzanti e mascherine, e ha affiancato i contadini nella formazione: accanto a quella tradizionale sulle buone pratiche agricole, è stata aggiunta quella mirata a trasferire tra gli agricoltori corrette prassi igienico-sanitarie a tutela della loro salute. Nel giro di poco tempo è emersa chiaramente l’urgenza di fornire anche cibo, sostegno al reddito e supporto all’istruzione.

In questo senso ci siamo attivati ​​con un Fondo Emergenza COVID-19 stanziato per programmi di aiuto in partnership con 15 ONG in altrettanti paesi dove operiamo come torrefattori: stiamo quindi contribuendo a combattere l’impatto della pandemia con decine di migliaia di pasti, oltre che di mascherine, ma anche con borse di studio, salari per gli insegnanti fino alla creazione di orti perché le famiglie possano avere forme di sostentamento alternative ed in autonomia».

Quanti dei soldi che spendiamo per una confezione vanno in aiuto dei progetti della Fondazione Lavazza?

«Non è possibile creare una correlazione diretta con singoli prodotti: l’impegno di Lavazza nei paesi produttori nasce dalle profonde radici valoriali dell’azienda ed è cresciuto diventando integrato e globale. La Fondazione nasce nel 2004 come ente autonomo rispetto all’azienda la quale sentiva la necessità di un’organizzazione dedicata a coordinare tutti i progetti di sviluppo sostenibile che andavano moltiplicandosi, a partire da ¡Tierra!, nato due anni prima, e che in pochi anni sarebbe anche diventato un prodotto: una miscela di caffè di alta qualità proveniente da agricoltura 100% sostenibile, certificato dall’ONG Rainforest Alliance».

Come facciamo a capire che un prodotto aiuta il mondo: lo leggiamo sulle etichette o dobbiamo informaci altrove?

«Le etichette sono uno strumento importantissimo, ma devono fare parte di un sistema informativo più ampio: i canali digitali, i punti vendita in cui viene venduto il nostro caffè, i siti web e, infine, il servizio consumatori. Hanno un ruolo molto importante, inoltre, i progetti di comunicazione più innovativi e con linguaggi contemporanei, come il docu-film su Johana. Infine, per condividere con trasparenza il nostro modo di operare e il nostro percorso per la sostenibilità, come azienda e attraverso la Fondazione Lavazza, da cinque anni pubblichiamo sul nostro sito il Bilancio di Sostenibilità».

Quanti sono i consumatori attenti all’ambiente per un futuro sostenibile?

«In grande crescita. Lo vediamo non solo attraverso i dati forniti dai vari istituti di ricerca con cui collaboriamo ma proprio dai riscontri che abbiamo da chi ci segue. Questo è altamente positivo perché più un consumatore è informato e preparato più potrà incidere, con le sue scelte, verso prodotti e servizi, ed aziende, che hanno una forte impronta sostenibile».

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