di ELISA POLI*
Due anni di duro lavoro, fianco a fianco con la moglie Lara, ed ecco in uscita la “bibbia” su Bottura. Quello di Massimo Bottura è però un libro diverso, che racconta il cuoco più originale e più internazionale che abbiamo. E non il solito tomo di ricette (che ci sono, ma solo in fondo, come delle note al testo). Bottura proprio come la sua terra, che ospita a Modena l’Osteria Francescana (www.osteriafrancescana.it), racchiude in sé anime contrastanti, attaccate ai valori tradizionali ma anche alla velocità: “l’Emilia, è terra sia di Ferrari che di cibo slow per eccellenza come l’aceto balsamico e il parmigiano, invecchiati per anni”.
In “Never trust a skinny italian chef” (titolo azzeccato della versione inglese che in italiano diventa però “Vieni in Italia con me”, editore Phaidon Ippocampo, prezzo 39,90 euro, www.ippocampoedizioni.it ) Bottura racconta cosa c’è dietro ogni piatto. Ovvero il risultato, compresso in una ricetta, di arte, musica, incontri, assaggi, studi. Troppo complicato? No, perché Massimo Bottura è anche un grandissimo comunicatore. E ogni scelta, anche quelle difficili, il “vecchio” (così lo chiamano i suoi amici) la sa spiegare con leggerezza e ironia.
La copertina? Nessun piatto o ritratto, ma lettere dorate su una superficie seriosamente bordeaux. Come una tesi di laurea, o una bibbia, con l’intento di essere atemporale. Come la creatività. Le foto del libro? Nemmeno queste sono “normali”. Massimo Bottura ha chiesto a due artisti, Carlo Benvenuto e Stefano Graziani, di immortalare il caos che vive nella sua cucina, il suo fidato team, i piatti perfetti come pezzi d’arte.
Massimo Bottura: vieni in Italia con mePer spiegare l’essenza della sua cucina Bottura infatti cita opere e artisti: “pensate a quando l’artista Ai Wei Wei distrugge un vaso cinese antico (video su vimeo.com) per metterne in esposizione i resti. Questo è il suo modo di dire che noi siamo sì passato e tradizione ma vogliamo esserlo in una forma completamente diversa, nuova. Ecco la mia filosofia”.
Prima però bisogna studiare, imparare andare a fondo il più possibile, assorbire le regole. Solo allora si potranno rompere gli schemi: “leggete, immergetevi nei libri, lasciate stare per un po’ il resto”, consiglia Bottura a chi vuole provare a seguire le sue orme, “umiltà, passione e sogno. Con questi tre ingredienti possiamo fare tutto, io ne sono la dimostrazione vivente”.
Anche se oltre a questi punti cardinali, all’amore per l’Italia, per la tradizione e l’innovazione, il variegato mondo Bottura non può prescindere da quello che, secondo noi, è il suo asse portante, ovvero il legame con donne eccezionali, con quelle che chiama “le sue donne”: la mamma Luisa, la bellissima moglie Lara e le ragazze del team in cucina. Intanto gustatevi un estratto dal libro, la storia di come nasce il suo piatto Cappuccino.
Cappuccino
Ecco un brano tratto dal libro, quello dedicato al cappuccino.
In principio fu il cappuccino. Il cappuccino è uno degli emblemi dell’Italia. Esistono diverse teorie sull’origine del nome, ma vari documenti storici lo attribuiscono ai monaci cappuccini che nel Quattrocento diedero manforte al Papa per impedire l’avanzata dell’impero ottomano in Italia e in Austria.
Furono i frati ad avere la meglio e la leggenda narra che i turchi in ritirata abbandonarono alcuni sacchi di caffè tostato. I monaci ne fecero un infuso e lo bevvero con latte e miele. In ogni angolo d’Italia, quasi a tutte le ore, qualcuno ordina un cappuccino al bancone di un bar. Il cornetto completa l’immagine della tipica colazione all’italiana.
Cappuccino è una delle mie primissime ricette. Risale al 1989 e al mio primo ristorante, la Trattoria del Campazzo: una zuppa cremosa di cipolle e patate servita in tazza, con sopra uno schizzo di aceto balsamico tradizionale. Di questa vellutata ho sempre amato la curiosa dicotomia tra gli ingredienti ingannevolmente semplici e la sopraffina delizia al palato.
Già prima di inaugurare nel 1995 l’Osteria Francescana pensavo a come perfezionare quel piatto. L’elemento da cambiare non era il contenuto, ma la forma. All’inizio separavamo i due ingredienti principali, cipolla e patata, dando a ognuno una particolare consistenza, come nel cappuccino. Oggi prepariamo la spuma di cipolle in un sifone, prima invece la montavamo con un frullatore a immersione; l’effetto era simile anche se meno scenografico. Il piatto fece subito colpo: i clienti pensavano che fosse uno scherzo. Guardavano il cappuccino e il cornetto, poi ridevano nervosamente. Io invece ero serissimo. Avrò ripetuto cento volte: “Quello che si vede è dolce, ma il sapore è salato. Vedete l’Italia, ma il sapore è l’Emilia”. Decontestualizzando gli ingredienti e presentandoli in un contenitore diverso chiedevamo ai nostri commensali di concederci il beneficio del dubbio e di fidarsi.
Una volta abituati all’idea, i clienti apprezzavano quel modo nuovo di consumare una minestra di patate e cipolle, sorseggiandola da una tazza per il cappuccino. La schiuma di cipolla col suo ghirigoro di aceto balsamico extravecchio faceva da contrasto alla purea di patate, evocando gli autentici sapori emiliani. La brioche salata ai ciccioli frolli di maiale, servita con il cappuccino, rendeva l’insieme ancora più spettacolare: entrava in scena la tavola della prima colazione, riprodotta tal quale.
I cambiamenti che si sono avvicendati in cucina dai tempi della Trattoria del Campazzo sono sintetizzati in questo Cappuccino. La ricetta esprimeva la nostra curiosità per il gioco di parole, con il quale stavamo cimentandoci per la prima volta. Se si poteva fare con le parole, perché non con i sapori Avevamo avviato il dialogo, scatenando critiche e lodi.
Correvamo dei rischi, sfidavamo i nostri limiti. Volevamo provocare un attrito, qualcosa che costringesse la cucina italiana ad abbandonare le sue certezze. Il movimento Slow Food ha preceduto solo di pochi anni l’apertura dell’Osteria Francescana. Il “glocal” non era ancora all’ordine del giorno e il Cappuccino era diventato un simbolo del vento di rinnovamento.
È stato come una chiamata alle armi in difesa degli ingredienti locali e un ritorno al terroir ispirato dal desiderio di un’identità e di un linguaggio tutti nostri.