DI DANIELE CASTELLANI PERELLI*
Ma saremo davvero più buoni quando compriamo il caffé Etiopia o la cioccolata Compañera? Aiutiamo sul serio il Terzo Mondo acquistando i prodotti del commercio equo e solidale, il movimento che dagli anni 60 aiuta i piccoli produttori dei Paesi in via di sviluppo a farsi largo nei mercati dei Paesi ricchi? Sono domande che in questi mesi tornano a risuonare nel dibattito internazionale.
Tutto è cominciato con la pubblicazione di una ricerca degli economisti della prestigiosa università londinese Soas (Scuola di studi orientali e africani), uno studio durato quattro anni e finanziato dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale del governo britannico. Il risultato? I guadagni della vendita di prodotti con certificazione Fairtrade, come caffé, tè e fiori, non migliorano le condizioni di vita dei contadini più poveri dell’Etiopia e dell’Uganda.
I ricercatori, guidati dal professor Christopher Cramer, hanno analizzato il mercato del lavoro di 12 aree di quei due Paesi africani, mettendo a confronto le situazioni in presenza e in assenza delle certificazioni Fairtrade.
Hanno condotto 1.700 interviste, anche a lavoratori bambini, e alla fine hanno dimostrato, dati alla mano, che in media i lavoratori legati al commercio solidale, in particolare le donne, hanno paghe inferiori rispetto agli altri, e hanno accesso più limitato a scuole e ospedali. Il succo è che a guadagnarci veramente sono i produttori, più che i contadini.
Qualche esempio portato da Cramer sarà anche estremo, ma pur sempre allarmante. In una cooperativa del tè legata a Fairtrade, per esempio, alcuni bagni moderni, finanziati con il cosiddetto “Social Premium” che i consumatori occidentali pagano come sovrappiù per quei prodotti, sono a disposizione soltanto dei manager.
Fairtrade International ha replicato e ha lanciato un programma per migliorare le condizioni dei contadini. La risposta non ha entusiasmato, come si vede anche dai commenti degli utenti sul loro sito, anche se accanto agli indignati c’è chi dice: «Sono deluso anch’io. Però Fairtrade rimane un serio tentativo di rendere il mondo un posto migliore».
Abbiamo sentito Paolo Pastore, direttore di Fairtrade Italia, che cita ricerche più favorevoli, come i rapporti Ceval e Coder o quello di Angus Lyall, e spiega: «Lo studio Soas prende in considerazione lavoratori di tre soli gruppi, a fronte dei più di 1200 con cui lavoriamo. Inoltre confonde i dipendenti, tutelati dagli Standard Fairtrade, con gli stagionali, rispetto alla cui condizione abbiamo avviato una profonda riflessione».
Anche Alessandro Franceschini, presidente di Agices, che rappresenta le organizzazioni di categoria italiane, mentre Fairtrade è il marchio di certificazione internazionale, parla di «letture parziali di una realtà molto complessa». Ma riconosce che «gli elementi negativi, soprattutto quelli legati alle condizioni di braccianti e stagionali, non vanno assolutamente sottovalutati».
In effetti l’indagine della Soas prende in esame solo due Paesi, Etiopia e Uganda, per di più dello stesso continente. Ma è proprio lì, in Africa, che si registrano i problemi maggiori per Fairtrade. Lo dimostra The FairTrade Scandal: Marketing Poverty to Benefit the Rich (“Lo scandalo del commercio equo e solidale: fare marketing sui poveri a beneficio dei ricchi”), un libro appena pubblicato dalla Ohio University Press a opera di Ndongo Samba Sylla, un economista 35enne senegalese della tedesca Rosa Luxemburg Foundation, che in passato ha collaborato con Fairtrade.
Anche questo saggio ha avuto una vasta eco sulla stampa internazionale. E se era prevedibile l’interesse di settimanali come l’Economist (per cui «il movimento di etichettatura equa e solidale è servito finora più ad alleggerire le coscienze nei Paesi ricchi che a sollevare dalla povertà i Paesi in via di sviluppo»), colpisce che di nuovo, come già per la Soas, a parlarne sia stato anche il progressista Guardian.
Per Ndongo Samba Sylla, quello di Fairtrade, le cui vendite sono passate da uno a 5 miliardi di dollari tra il 2004 e il 2011, è un successo di marketing che nasconderebbe un fallimento. Il sistema stesso della certificazione sarebbe alla base delle ingiustizie perché privileggerebbe i più ricchi e meno bisognosi tra i Paesi in via di sviluppo, dove infatti si trova la maggior parte delle organizzazioni del movimento.
Anzitutto «i costi delle certificazione sono gli stessi ovunque, e quindi sono relativamente più dispendiosi per i Paesi più svantaggiati» e per le piccole organizzazioni. Poi, i prodotti certificati sono soprattutto quelli esportati dall’America Latina: caffè, tè, frutta fresca e verdure, banane.
E in effetti 263 delle 317 certificazioni del caffè, e 70 delle 71 certificazioni delle banane, vengono registrate in centro e sud America, area dove i livelli di povertà non sono assoluti come in Africa. Il Continente nero è penalizzato anche dal peso dato all’agricoltura, visto che esporta pochissimo i prodotti agricoli, quando non deve addirittura importarli.
La conclusione del senegalese è simile a quella della Soas: «Fairtrade aiuta i produttori poveri e vulnerabili, ma non è al servizio dei più poveri». Fairtrade International ha replicato ammettendo un’attenzione prevalente all’America Latina, confermato anche da Franceschini di Agices: «Dei 15 milioni di euro di importazioni delle organizzazioni nostre socie, solo l’11 per cento viene dall’Africa. C’è ancora molto da lavorare».
Fairtrade aggiunge però che già dal 2009 (l’anno dei dati considerati da Ndongo Samba Sylla) a oggi le cose sono un po’ cambiate. Benché in Africa, ricorda Paolo Pastore, esistano tuttora «storie, sistemi politici e realtà produttive» tra i più arretrati al mondo.
Anche dalla Germania sono arrivate nuove critiche, stavolta al “mass balance”, procedura che permette di mescolare le materie prime certificate Fairtrade con materie prime tradizionali e mantenere comunque il bollino sul prodotto. Succede per esempio con i succhi di frutta e con il cacao, ha spiegato il settimanale Der Spiegel.
Pastore replica che sì, il “mass balance” è utilizzato da alcune aziende esportatrici, perché «i volumi del commercio equo certificato sono troppo piccoli per essere processati separatamente», ma ciò «non intacca la tracciabilità dei prodotti e i benefici di cui gli agricoltori godono grazie al sistema Fairtrade».
Non è la prima volta che il movimento è al centro delle critiche, ma forse queste sono aumentate perché le rivelazioni stridono con il successo delle vendite dei suoi prodotti, cresciute nel mondo del 15% in un anno. Fairtrade International produce in 74 Paesi e rappresenta 1,4 milioni di contadini e lavoratori, di 1.210 organizzazioni e cooperative.
Comprare equo e solidale, insomma aiuta davvero il Terzo Mondo? «Sì, solo nel 2013 grazie a Fairtrade i produttori hanno ricevuto 86 milioni di euro per costruire scuole, infrastrutture, ambulatori e molto altro», assicura Pastore. Franceschini di Agices ricorda che questo sistema mette al riparo i contadini da fluttuazioni di borsa e difficoltà di produzione: «Così possono accedere al credito, mandare i figli a scuola e pianificare il futuro, aspetti in molti casi anche più importanti del semplice aumento di reddito».
Tutto fa “fair”
Dici equo e solidale e pensi subito a caffé o banane. Ma gli scaffali del Fairtrade si sono arricchiti negli ultimi tempi di prodotti che un tempo non avremmo mai immaginato lì. Esistono ad esempio i palloni da calcio o da rugby, cuciti con l’assicurazione che non vengono impiegati bambini e che sia assicurato ai lavoratori un salario minimo.
Poi è arrivata anche la Fair Vodka, con una piccola differenza rispetto all’originale, ovvero si ottiene non dai cereali ma dalla quinoa, coltivata da 1200 contadini andini della Bolivia (visto il successo, ora si sta preparando anche il rum, fatto con lo zucchero di canna del Belize). Ma i prodotti più originali sono altri ancora.
Poche settimane fa la fondazione svizzera Max Havelaar ha lanciato infatti l’oro equo e solidale, proveniente dalla miniera Sotrami di Santa Filomena, nel sud del Perù. Anche il sesso, infine, può essere “fair”, se fatto con preservativi la cui gomma è stata prodotta dalla Fair Rubber Association.