PALERMO – Una delle abitudini preferite dagli italiani è la tazzina di caffè… ma per il palermitano è anche segno di convivialità, di pausa; di relax e di stimolo verso ripartenze. La tazzina di caffè è la metafora di come affrontiamo spesso la vita!
La tazzina palermitana
Una tazzina al momento giusto, aiuta a carburare. Ad essere più attenti. Ci tiene svegli e vigili per affrontare al meglio impegni particolarmente noiosi o faticosi.
Più che un’abitudine alimentare, per molti di noi è un vero e proprio rito. Per i siciliani la tipologia di caffè cambia di cinquanta metri in cinquanta metri. Ogni barista deve votarsi alla pazienza per sopportare le richieste di chi pretende la bevanda preferita. Carica del pesante bagaglio fatto di abitudini, credenze, rituali.
La tazzina platonica
C’è chi porta la tazzina alle labbra girandola di 180°. Chi la sfiora appena. Oppure chi, prima di accostarla alle labbra, la ripulisce delle colature esterne (igienisti). Qualcuno la fa roteare. Un altro non indugia neanche se bollente.
C’è chi la posiziona in verticale per colar in bocca anche l’ultima gocciolina di bevanda. Quelli che non condividono il caffè con altri dalla stessa tazzina (superstiziosi). Chi sorseggia il caffè, oppure lo aspira con tanto di sonoro risucchio. Quello che assolve al rituale dei tre sorsi.
Il ristretto di un milanese ad un romano sembrerà un caffè lungo. La tazzina calda di un bolognese a un napoletano sembrerà quasi fredda…
E il palermitano? Vediamo di individuare le innumerevoli follie e perversioni di casa nostra, rispetto al caffè
Le dimensioni contano
Lungo o corto, l’esegesi della patologia. Insindacabili nello stabilire quanto lungo o corto lo vogliamo. Un ristretto non sarà mai tale. Uno lungo sarà passibile di misurazioni infinite. Mai contenti, mai!
Ed ai più fortunati, come me, potrà addirittura capitare di sentir chiedere al barista “una pillola di caffè“! Espressione originale, usata da chi gradisce il ristretto del ristretto.
La tazzina, tazza grande, quella di vetro. La tazzina fredda oppure calda. Macchiato, schiumato, a pois; con una goccia di latte, mocaccino, capcioc.
Ma non vi siete mai sbagliati invertendo i parametri della perversione?
E quanto avete impiegato per capire che tutta quella combinazione di materia prima e temperatura era la vostra quadratura ideale? Non è che il caffè macchiato in tazza grande è un modo per non pagare il cappuccino? Che differenza c’è tra un caffèlatte e un macchiato? E per chi lo vuole “molto macchiato”, “molto” che unità di misura è?
Domande alle quali non ho mai saputo rispondere!
Cosa dire poi sul caffè corretto?
Una colata di nutella, una spruzzata di panna, ginseng? I corretti moderni sono fiction trasmesse altrove.
Il “nostro” corretto prevede l’aggiunta di Sambuca, un liquore dolce ed abbastanza alcoolico. Vuoi mettere la caratteristica che contraddistingue l’intenditore di questa bevanda? L’alito di un bevitore di caffè corretto alla Sambuca lo riconosci da lontano.
Sorseggia la sua”bevanda”frugando nelle tasche della giacca, all’interno delle quali custodisce, per ovvie ragioni, una manciata di caramelle all’anice. Per l’esattezza le stesse che, anticamente, davano al posto del resto in moneta.
Perché se è comunque vero che, così come recitava Civiletti, al caffè ” ‘u culuri c’ ha taliari”….è altrettanto pacifico che al caffè corretto ” ‘u ciavuru c’ammucciari”
Esiste anche un modo di prendere il caffè… tutto palermitano!
L’arriminata dello zucchero col cucchiaino, infatti, è un luuuuuuungo rito da consumare col mignolo immancabilmente teso verso l’ alto.
Una sorta di movenza ritrovata anche nella scena in “Divorzio all’ italiana” di Pietro Germi. La tazzina in mano immancabilmente accompagnava i rimuginamenti di Fefè Cefalù. Quando scriveva le lettere anonime indirizzate a se stesso.
“Amunì, un c’è nnniaanti. Pigghiamunni ‘u cafè”. Finiscono tutte in gloria, pardon, in un caffè, le liti dei palermitani veraci. Non c’ è incidente “stradale” ed “ambientale” che non si componga davanti a una tazzina fumante. ( alla faccia dei moduli delle assicurazioni).
A patto che “l’ incidentante” possa offrire, anzi, pagare, mettendo a disposizione dell’ incidentato, e del manipolo di testimoni, caffè, bancone, barman (e cassiera compresa). Altrimenti la lite ricomincia.
Noi palermitani infatti, crediamo che il caffè anziché fare “salire” i nervi li distenda!
il caffè del palermitano è qualcosa che può giustificare persino un’ auto lasciata in tripla fila.
Lo usiamo come un calumet della pace per ristabilire la distensione dopo una lite. E poi la “pigliata” del caffè è un intervallo necessario e inevitabile: in qualsiasi posto.
Allorchè manchi qualcuno è sufficiente sostenere “è andato a prendere il caffè“, per trovare un”efficace giustificazione. Una contro la quale non si obietta nulla. Neanche quando la durata del caffè si esprime con un termine di lunghezza assai esplicito: mi’, cafè luuuuaaangu”.
Il caffè è, insomma, un risolutore dei mali
Anche in senso molto più caustico e letterario del termine. In un suo celebre monologo Caruso inframezzava le battute con il ritornello della canzone “Venga a prendere il caffè da noi, Ucciardone cella 36”. Alludendo alla celebre tazzina avvelenata che in carcere uccise Gaspare Pisciotta, compare, luogotenente e alla fine traditore del bandito Salvatore Giuliano.
Anche in quel caso il caffè, malignamente corretto, servì a risolvere i problemi. Definitivamente.
Impossibile non parlare di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Il caffè in quel caso creò malumore nel principe Salina, per via di una macchiolina sul candido panciotto; “caffè forte con i biscotti di Monreale” assaporato da padre Pirrone. Ma soprattutto caffè come luogo dell’ispirazione. Dalla forte carica evocativa.
Infatti Tomasi di Lampedusa, ha scritto parte de “Il Gattopardo” seduto ai tavolini di un notissimo bari, nel centro di Palermo.
Arrivando invece ai narratori dei nostri giorni. Andrea Camilleri, ad esempio, concentra tutte le dicerie, le maldicenze, le allusioni nel “caffè di Masino”. “Che si diceva, stasera, al caffè?” è la domanda ricorrente nelle pagine dello scrittore di Porto Empedocle. Fatta per essere tenuti al corrente dei pettegolezzi che facevano il giro del paese.
Alcune forme di manìa patologica
Il caffè si sorseggia in uno stato di pseudo equilibrio dinamico. Labbra e tazzina devono sfiorarsi appena. Provenendo da una famiglia in cui l’igienismo più che una norma di profilassi era credo religioso, per tutta l’adolescenza venni tenuta occhiutamente distante da qualsiasi bicchiere. Vietata la tazza o tazzina di locale pubblico, storico o meno storico che fosse.
Potevo schiattare di sete, tanto quanto dello spinnu di un caffè; ma mai accostare le labbra ad un recipiente da bar. Pena il sicuro contagio di malattie innominabili. – e, di fatto, non le si nominava, lasciando adito alle più catastrofiche supposizioni.
E c’era infine la vetta, il culmine del purismo: la tostatura personale. Dai racconti tramandati, infatti, apprendo che il caffè si comprava in chicchi crudi e poi, a casa, li si abbrustoliva sul fuoco, secondo i propri gusti.
L’arnese utilizzato era simile ad un passaverdure. Il cui fondo bisognava tenere in continua rotazione per il tramite di una manovella. Sia l’arnese, il tostacaffè, in dialetto ” ‘u caliaturi”. La procedura “atturrari ‘u cafè”.
Entrambe furono tanto comuni e diffusi da lasciare la loro traccia nel linguaggio familiare.
“I manu ru caliaturi”
Espressione oggi in forte disuso, valeva come ammonimento a non toccare una qualche cosa che si temeva potesse venire sciupata o manomesa. “Atturracafè”o ” ra matina ‘a sira st’atturracafè”. Espressioni usate nei confronti di personaggi noiosi e ripetitivi. ( dal rumore stridulo e fastidioso prodotto dal tostacaffè).
Così, augurandomi di non esserlo stata anch’io per voi….amunì pigghiamunnì ‘u cafè! Inoltre, ditemi se ho dimenticato qualche perversione, la vostra per esempio. Come lo ordinate il caffè? Lungo o corto; macchiato o senza schiuma; amaro, corretto, freddo, shakerato, tazza piccola, grande, di vetro calda o fredda….
“Mimì, u culasti u cafe’? Prima mi lavu i manu e poi…”. Questa bevanda appartiene ai riti della socialità…ma ognuno ha i propri!
Federica Cordone*
*Fonte: Monrealenews
http://www.monrealenews.it/cucina-siciliana/6885-una-qpillolaq-di-caffe.html