FIRENZE – Simbolo di aggregazione, identità culturale e diversità, il caffè sta diventando sempre più hipster, cool, figo. Che sia la nuova frontiera dei foodlovers? Parrebbe di sì.
L’esplosione, partita dai quartieri di Brooklyn dove sempre più spesso si incontrano hipsteroni barbuti peripatetici con le loro tazze di coffee, si sta diffondendo con una certa rapidità in tutto il mondo occidentale, tanto che fette sempre più grandi di mercato continuano a essere conquistate.
E in Italia?
I segnali di un possibile boom ci sono, ma attenzione: la formazione prima di tutto perché va bene essere fighi, ma non dimentichiamo di preservare la qualità. Quante volte siamo rimasti delusi di fronte a improbabili e improvvisate tazzulelle dei bar italiani?
Miscele scadenti, assenza di professionalità, poca attenzione al servizio: un insieme di fattori che spesso non ci permettono di godere appieno della tanto amata bevanda.
Alla tazzina di caffè in Italia è stato dedicato il primo ring Taste del Gastronauta che ha visto coinvolti come interlocutori alcuni torrefattori nazionali: Attilio Bottala (Giordano Caffè), Leonardo Lelli (Torrefazione Caffè Lelli), Andrea Guerra (La Tosteria), Prunella Meschini (Le piantagioni del Caffè), Massimo Bonini (Torrefazione Lady Cafè), Ettore Scagliola (La Marzocco), Francesco Sanapo (Ditta Artigianale).
Davide Paolini ha dato il via al ring con una provocazione: gli Italiani credono di avere il caffè nel DNA, si ritengono “imparati” in materia perché sono nati nella patria del buon caffè, eppure capita spesso che nello stivale non si beva un grande espresso.
Magari l’arrivo di Starbucks potrà servire come pungolo a migliorare la qualità, a creare nuove offerte e a imparare l’arte della customer satisfaction?
Sicuramente fare il barista non è un lavoro di ripiego: occorre passione, formazione e un approccio aperto che permetta di mettere in discussione il proprio credo, di confrontarsi con i produttori e di fare esperienze all’estero.
Oggi, purtroppo, il mondo del caffè in Italia è fermo nella presunzione di sapere e nella mancanza di curiosità sia da parte di un consumatore abitudinario, sia da parte di un barista poco competente.
Sarà per il costo forse eccessivamente democratico, ma la verità è che al caffè non viene dedicata l’attenzione che merita, perfino nei ristoranti stellati dove, come fanno osservare i relatori, spesso si usano caffè di industrie sponsor.
Bisognerebbe ripartire da zero e iniziare a costruire una nuova comunicazione sul caffè, creare una cultura, anche attraverso il gioco e la cura dell’assaggio, renderlo più vicino, più tangibile, meno misterioso, in modo da stuzzicare la curiosità del consumatore.
Il ristorante è un buon punto di partenza per fare cultura del caffè perché ci si può fermare e riflettere su quello che la tazza contiene.
Dietro la filiera del caffè lavorano tantissime persone che hanno bisogno di dignità.