MILANO – Chi crede di poter vincere la sfida dell’industria 4.0 da solo, senza compagni di squadra, rischia di ritrovarsi fra qualche anno alla premiazione dei campioni digitali. Non sul palco, con la medaglia al collo e una best practice da raccontare.
Ma in platea, da spettatore e con tanti rimpianti.
Dalla presa di coscienza di questo rischio dipenderà in buona parte la spinta tecnologica alla crescita dell’economia italiana.
Esaurito il tempo degli elogi al piano Calenda, i riflettori della quarta rivoluzione industriale all’italiana si sono spostati sulle aziende, a cui tocca accendere quanto prima il detonatore preparato dal governo.
È vero che in tema di innovazione digitale l’Italia è sempre stata fra le lumache d’Europa e quindi non c’è tempo da perdere.
Ma bisogna ricordare che la strategia italiana è stata sviluppata per stimolare un’evoluzione hi-tech di tutto il sistema Paese.
Specialmente in un contesto come quello dell’economia digitale, della fabbrica smart e delle filiere interconnesse, la convinzione di poter fare tutto da soli appare dunque rischiosa, se non insensata.
Ecco perché i teorici e i sostenitori dell’industry 4.0 vanno ripetendo come un mantra una sola parola: ecosistema.
Un termine che richiama una logica di collaborazione fra grandi imprese, Pmi, startup, istituzioni, associazioni di categoria, centri di ricerca e chiunque altro possa spingere un’innovazione di sistema basata sulle nuove tecnologie di Internet of Things e machine- to-machine.
Non solo all’interno del singolo stabilimento produttivo ma in tutti i passaggi della catena industriale, dalle fasi di ricerca e sviluppo fino all’arrivo sul mercato.
Questo concetto è stato l’ossessione 4.0 del ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, fin dalla stesura delle prime bozze di un piano che suona come un’ultima chiamata.
E ha fatto da filo conduttore alla politica digitale partorita dal Mise che tra sgravi fiscali, sviluppo delle competenze e altri iniziative promette alle imprese numerosi vantaggi (abbattimento dei costi, riduzione del time to market, aumento della produttività, migliore formazione e innalzamento della competitività, anche sui mercati internazionali).
Il pallino dell’ecosistema non ha faticato a far breccia nella sensibilità delle grandi aziende hi-tech che operano in Italia, rapide nel realizzare il proprio ruolo di chioccia nei confronti di Pmi, università e altri enti, istituzionali e non, in questa delicata e urgente fase attuativa della strategia italiana.
Una di queste è Cisco, colosso americano che da un anno e mezzo sta portando avanti il piano Digitaliani, frutto di un impegno preso in tandem con l’esecutivo italiano che punta su sviluppo delle competenze, open innovation e digitalizzazione dei settori chiave del Made in Italy, delle infrastrutture strategiche e della Pubblica Amministrazione.
Sforzi incrociati che hanno già permesso a Cisco di portare a termine con successo progetti di digital transformation con diverse aziende italiane, come il gruppo Marcegaglia, Inpeco, La Marzocco e Fluid-o-Tech.
«Studiamo con le aziende un percorso ad hoc, una roadmap digitale che, partendo dalla mappatura dello stato attuale, definisce le priorità di business, gli investimenti da pianificare e i singoli passi di questo percorso per un’adozione graduale delle tecnologie abilitanti – spiega Agostino Santoni, amministratore delegato di Cisco Italia – L’industria 4.0 disegna uno scenario in cui l’interconnessione di persone, processi, dati e oggetti che già oggi conosciamo raggiungerà livelli senza precedenti».
Grazie al digitale, aggiunge Santoni, le aziende italiane «hanno l’opportunità di proiettare la loro eccellenza su mercati più ampi, inclusa quella artigianale che può recuperare spazi importanti in un mondo in cui la produzione su piccola scala e la personalizzazione sono ulteriormente facilitate dalla tecnologia».
Eppure non tutti hanno percepito questi vantaggi. Un rapporto elaborato da Digital360 segnala infatti che il 54% delle medie e grandi imprese non ha avviato alcun progetto di trasformazione digitale 4.0.
L’aspetto interessante è che il portafoglio non c’entra nulla: solo il 5% delle aziende inattive dichiara come motivazione principale l’assenza di budget.
I problemi sono invece altri: il 52% si dichiara non ancora pronto o sostiene che non sia il momento, mentre un altro 27% ammette di non aver capito se il paradigma della fabbrica connessa sia rilevante per il proprio business.
A mitigare questo panorama di incertezza, scarsa consapevolezza e dannosa assenza di urgenza, ci sono invece le aziende di medie e grandi dimensioni che si sono già mosse e che rappresentano l’altro 46% del totale.
La collaborazione in azienda
La fotografia delle imprese attive scattata da Digital360 segnala una positiva collaborazione tra le diverse funzioni aziendali, in particolare fra l’area IT e le operations, e un proficuo rapporto con fornitori di tecnologie Ict e di sistemi per l’automazione e la robotica, consulenti esterni, università e altre società dei gruppi.
L’impresa italiana 4.0 sta insomma viaggiando sui binari di una visione consortile e questa è senza dubbio una buona notizia.
Andrea Frollà