domenica 22 Dicembre 2024
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Karuna Chocolate, gli artigiani dell’Alto Adige “Ecco perché non si trova al supermercato il cioccolato di cacao pregiato”

Armin: “Una cosa sicuramente da tenere d’occhio è la fascia di prezzo: non è possibile acquistare un cioccolato composto da cacao pregiato che sia sotto i 4 euro a tavoletta. Questo perché il cacao pregiato ha dei costi molto più alti di quello usato a livello industriale"

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MILANO – In Alto Adige il cacao di alta qualità c’è e ha il nome di Karuna Chocolate, un laboratorio artigianale dove Armin e Katya trasformano le fave di cacao da loro selezionate in un prodotto finito, passando ovviamente per la tostatura. Con loro entriamo in questo mondo di nicchia, dove la materia prima viene trattata con cura in tutti i suoi passaggi.

Partiamo dalla domanda più semplice ma che è la più complessa: come si fa a riconoscere un cioccolato di alta qualità?

“Una cosa sicuramente da tenere d’occhio è la fascia di prezzo: non è possibile acquistare un cioccolato composto da cacao pregiato che sia sotto i 4 euro a tavoletta. Questo perché il cacao pregiato ha dei costi molto più alti di quello usato a livello industriale.

Ricordiamoci anche che il piccolo produttore fa tutto in modo artigianale, senza macchinari automatizzati. Il fattore sensoriale poi gioca molto: ci sono tanti aromi secondari, si può percepire una vasta gamma di fragranze e una persistenza che il cioccolato industriale non possiede.

Il cacao industriale spinge molto sul profilo cioccolatoso e va verso un prodotto standard che elimina gli aromi secondari.

Nel cacao fino sono stati individuati oltre 400 flavor compounds. Certo, dipende molto dalla varietà, ma si va dalla frutta secca al floreale, da leggermente fruttato a spiccati sentori di frutta.

Facendo un po’ i conti

Alle origini del cacao (foto concessa)

L’industria per un cacao più commerciale paga intorno a 2 euro al chilo la materia prima, l’artigiano dai 7 ai 10 euro al chilo. Il cacao industriale arriva in Borsa, mentre quello fino è sul mercato libero in cui i prezzi sono equosolidali: questa è una differenza importante perché se prendiamo come riferimento il cacao industriale certificato, viene pagato un premium extra di circa il 12-15%, mentre nel mondo del cacao pregiato, a seconda dell’origine, dalla varietà e dalla quantità, il sovrapprezzo è intorno al 50-100% in più.

Forse in Italia siamo un po’ indietro rispetto ai Paesi Nord Europei, in cui il cioccolato fino è più diffuso e ancora più nel Nord America e in Canada, dove proprio è nato il bean to bar.

Il totale della coltivazione di cacao fino si aggira intorno al 5% e di questa percentuale, forse un 20% è certificato bio. Bisogna aggiungere che il cacao fino, anche al di fuori della certificazione biologica, già non viene sottoposto a grandi trattamenti.

Noi abbiamo deciso di essere una ditta al 100% biologica e questo ci apre ad altri mercati che richiedono la certificazione.

Questo rappresenta una tendenza soprattutto nel nord Europa, ma parliamo sempre di una nicchia. Il consumatore medio compra il cioccolato al supermercato, dove non si trova questo tipo di cacao.

Potremmo dire che è una nicchia giovanissima – anche le ultime generazioni sono più attente a questo tipo di discorso, peccato che non abbiano ancora un maggiore potere d’acquisto -: i nostri clienti rientrano nel range dai 30 ai 50 anni.”

Come fate a rifornirvi per Karuna Chocolate?

“Il fatto che siamo in pochi a fare questo lavoro – in Italia una trentina e negli altri Paesi europei poco più – e che l’industria non sia interessata, ci permette di fare rete e di sfruttare ciò che si trova sul mercato.

Penso che sarà sempre un po’ così, un settore circoscritto. Oggi si vedono però nel mondo del cacao fino sempre più trader che cercano nuove varietà, selvatiche e particolari, così nascono le collaborazioni con popolazioni indigene per amplificare la produzione e indirizzarla sul mercato europeo.

Forse rispetto allo specialty è più semplice avere rapporti con i coltivatori, perché tra noi e loro c’è solo una figura intermedia. Noi importiamo attraverso un trader e siamo in grado di contattare ciascun produttore direttamente.

Quando andiamo ad Amsterdam alla fiera Chocoa, incontriamo di persona i coltivatori e trader. E poi c’è la possibilità, per chi se lo può permettere, di viaggiare direttamente dal produttore e toccare con mano la materia prima. Noi siamo stati in Perù, in India, quest’anno dovremmo andare in Tanzania.

Normalmente un trader importa una o due volte l’anno un container che basta a soddisfare la piccola scena europea. Capita ogni tanto che un determinato cacao si esaurisca, ma di solito un container ne può trasportare sino a 20-25 tonnellate che poi il trader provvede a dividere nelle giuste quantità per rifornire chi ha fatto l’ordine.

Per ogni evenienza il trader ha anche materia prima stoccata nei magazzini. Noi siamo riusciti anche ad importare un cacao direttamente dal Belize, ma siamo in grado di farlo perché abbiamo avuto l’opportunità di agganciarci ad un’altra ditta tedesca che ne importa una quantità di 2-3 tonnellate all’anno.”

Ma qual è la scadenza delle fave di cacao?

“Il cacao viene essiccato ad una percentuale di circa il 7% di umidità residua, in modo da non far sviluppare muffe, ma bisogna fare attenzione, perché non deve essere neppure seccato troppo. Deve esser lavorato entro due-tre anni, anche se è bene ricordare che questo non va male grazie al suo contenuto di flavonoidi e il contenuto basso di umidità.

Qualcuno lo fa addirittura invecchiare: inizialmente il cacao ha delle punte di acidità che poi svaniscono in quanto volatili. Secondo me l’ideale per la lavorazione è nella sua fase intermedia: oggi la logistica è più veloce e questo comporta il fatto che il cacao arrivi addirittura troppo fresco, con un’acidità spiccata perché ancora molto vicino al processo di fermentazione.”

Da quando avete iniziato a oggi con Karuna Chocolate, il mercato italiano è più aperto verso il cioccolato di qualità o è ancora molto indietro?

“La scena del cacao fino, 20 anni fa quasi non esisteva. La maggiorparte dei piccoli produttori nasce negli ultimi anni e questo è un bene, perché aiuta a sensibilizzare insieme il cliente ad una realtà più artigianale, ad un prodotto più etico e più ricco.”

Il concetto di bean to bar: è ancora attuale, oppure è superato in quanto anche l’industria se n’è un po’ appropriata?

“Da due anni si vede questa dicitura comparire anche sulle confezioni industriali ed è una sfumatura che confonde un po’ il consumatore finale. Ma il punto è che il cioccolato di alta qualità non lo si trova nei supermercati in ogni caso e bisogna quindi cercarlo nei negozi specializzati.

Oggi anche Lindt può dire di fare bean to bar e lo usa come sinonimo di artigianalità. Ma un cioccolatiere non fa il cioccolato, ma ne compra uno industriale, lo scioglie e ne fa un prodotto finale. Ci sono tavolette da 5-7 euro che però non provengono da un processo trasparente e non parte da una materia prima eccellente.

Per raccontarci, noi usiamo l’espressione di craft chocolate, facciamo tutto in casa, cosa che gli altri non fanno.”

La questione delle percentuali sulle etichette: sfatiamo la loro importanza

“Quella percentuale spiega solo la quantità del cacao totale contenuto nel prodotto, ma non ne giustifica la qualità. È come scegliere il vino in base alla gradazione alcolica. L’80% di cacao non significa molto.

Nel nostro ambiente, l’importanza viene data alle note sensoriali e sono maggiormente apprezzabili quando si rimane attorno al 75% di cacao più che all’80-90%, perché lo zucchero esalta il gusto e la quantità di questo ingrediente bilancia l’amaro e l’acidità. Se voglio conoscere il produttore, la sua cifra, devo scegliere questa percentuale per percepirne le caratteristiche.

Ci sono tante operazioni che un produttore piccolo svolge, che poi rendono riconoscibile il suo prodotto. A partire dalla tostatura: dipende tanto dal grado e dalla lunghezza della cottura, se si vuole spingere su certi aromi o per diminuire acidità.

Ognuno usa macchinari diversi: noi usiamo una forno a convezione, tostiamo 12 chili di cacao alla volta e per un batch facciamo 3 giri di tostatura. Da 36 chili di cacao, che dopo viene decorticato – gli scarti di lavorazione noi li diamo a un contadino che li usa come mangime per le galline e il resto come fertilizzante -, otteniamo 28 chili di granella.

Per quanto riguarda il riutilizzo della cascara ci sono diverse opinioni: è proprio sulla buccia che possono restare delle tracce contaminanti che potrebbero nuocere alla salute e quindi noi non siamo convinti del tutto di riproporla per degli infusi.

C’è il produttore di carta Favini che ha una linea prodotta dal 15% circa di scarto alimentare, come il cacao, il caffè, l’uva, mais. Noi usiamo la Crush proprio per imballare i nostri prodotti, con buccia di cacao.”

Con Karuna Chocolate fate anche cioccolato bianco, che spesso si pensa non sia neppure “cioccolato”: ci raccontate il vostro artigianale?

Le tavolette di cioccolato Karuna (foto concessa)

“Generalmente per definizione legale, ci sono 4 tipi di cioccolato: il fondente, quello al latte, quello bianco e il Ruby. Quest’ultima contiene soltanto una piccola quantità di cacao non fermentato di colore viola. Il colore viene poi fissato con acidi e trasformato in un cioccolato al latte non troppo buono e neppure interessante dal punto di vista sensoriale.

Di solito c’è un po’ il pregiudizio attorno al cioccolato bianco perché quello industriale è troppo dolce, la qualità del burro di cacao usato è bassa, c’è il latte in polvere e del cacao c’è soltanto il grasso, spesso ottenuto da cacao povero e quindi deodorizzato. Per questo motivo tanti dicono che non è cioccolato. Anche se dal punto di vista legale lo è.

Nella scena del piccolo artigiano c’è invece chi fa un cioccolato bianco eccezionale, perché usa un burro di cacao non trattato che conserva tutti gli aromi. Noi realizziamo un prodotto che in realtà non può definirsi cioccolato perché non usiamo il latte e legalmente deve contenerlo.

Ora se si usa un altro prodotto non si può definire cioccolato, quindi noi lo abbiamo chiamato tavoletta a base di burro di cacao: come sostituto del latte usiamo la farina di mandorle disoleata.

Abbiamo fatto diverse prove perché da quando siamo partiti con la produzione di solo fondente, abbiamo deciso di restare plant based. In Alto Adige il latte è tanto e quello che avanza viene trasformato in quello in polvere e allora noi abbiamo fatto la scelta di non usarlo.

Quindi anche il nostro cioccolato al latte non possiamo chiamarlo tale perché usiamo gli anacardi in alternativa. Si potrebbe descrivere come cioccolato aromatizzato con frutta a guscio.”

Dove vedete indirizzarsi il futuro del cacao, anche di fronte alla problematica legata alla deforestazione?

“Un fatto interessante è che tutto il cacao fine crea un ecosistema di biodiversità, perché si sviluppa con altre piante. Due mie fornitori sono carbon footprint neutral.

Nello specialty di cacao se cresce, avviene il contrario della deforestazione, perché aumenta la vegetazione circostante. Quindi il cacao sostenibile esiste. Il fatto è che ce n’è molto poco e rimarrà probabilmente sempre così poco.

Parliamo sempre di 200mila tonnellate di cacao fino all’anno su una produzione globale di 5 milioni tonnellate. Ci sarà meno cacao in futuro? Difficile da prevedere. So che il cacao fino crescerà, restando però sempre di nicchia.

Di bello intravedo che alcuni farmers in origine scoprono varietà nelle giungle e questa è una buona iniziativa da portare avanti.

Sono quasi sempre popoli indigeni a coltivare da generazioni e forse fino ad oggi non riuscivano ad accedere al mercato, ma ora con progetti etici ci sono opportunità anche per queste comunità.

Per noi tutto questo è molto interessante: ogni anno abbiamo nuovi microlotti da sperimentare, con particolarità che ci permettono di creare prodotti unici e però adatti a chi ha già un po’ di competenze sulla materia prima.

Quando siamo partiti in Alto Adige il terreno qui era già fertile, perché i consumatori della zona sono abituati a spendere per la qualità e l’artigianalità. La cultura del cibo ci ha sostenuto nella nostra attività.

Negli ultimi anni abbiamo fatto tantissimi eventi di degustazione e food pairing con altri artigiani. Quello che ci spinge a continuare sono le reazioni dei nostri clienti da tutto il mondo, che sono la conferma del nostro lavoro e del nostro stile di vita.”

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