MILANO – Bere caffè non è un gesto qualsiasi: oltre ad essere un prezioso alleato della nostra quotidianità e del benessere, rappresenta tradizioni, culture, popolazioni e storie. Un discorso sempre aperto che andrebbe approfondito e condiviso il più possibile, per tentare nuove vie più sostenibili ed eque lungo tutta la filiera lunga e complessa del chicco.
Per plasmare il futuro di questo settore, e magari anche un po’ il suo presente, uno strumento potente è l’analisi storica: lo sguardo al passato, attento e consapevole, di Jessica Sartiani – professionista preparatissima ben conosciuta agli addetti ai lavori – è quello che vogliamo raccontare insieme al suo ultimo progetto.
Che non la vede nei consueti panni di barista, di assaggiatrice, di trainer, ma di ricercatrice. Cerchiamo di spiegare il suo studio che prospetta il caffè e il colonialismo come due realtà speculari, che si sono sviluppate in parallelo nei secoli e ancora oggi mantengono una enorme influenza sugli attori che popolano il mondo dietro la tazzina.
Sartiani, perché ha deciso di fare ricerca su una tematica così delicata come il rapporto tra caffè e colonialismo?
“Certamente è un argomento spinoso. Tutto è nato nel 2020 quando, mi sono avvicinata all’Associazione Black History Month di Firenze, composta da artisti con un background simile al mio, e in cui sono entrata proprio in cerca di un senso di appartenenza. Loro danno vita a diverse iniziative ed eventi: il primo a cui ho partecipato si chiamava “fischi per fiaschi”, un nome scelto proprio per ribadire il concetto che tante volte abbiamo difficoltà nel confronto e nel dialogo. Ci siamo incontrati così e abbiamo creato empatie tra diverse persone che non si conoscono.
È stato in questa occasione che Justin Randolph Thompson, uno dei creatori dell’Associazione mi ha fatto una proposta, sentendomi spesso parlare di caffè e vedendomi arrivare con il thermos pieno di cold brew d’estate mi ha proposto un progetto espositivo. Si trattava di “Recovery Plan”, dedicato a 5 artisti che avrebbero accompagnato un ricercatore. Uno di questi artisti, Francis Offmann, è originario del Ruanda e nelle sue opere mette molto al centro proprio il caffè. Ci siamo incontrati e ne abbiamo discusso insieme.
Pensando al Ruanda, viene in mente soprattutto il genocidio del ’94: lui è scappato con la sua famiglia in Italia, a Bergamo. Mi ha raccontato del rapporto di odio e amore di sua madre per il caffè. Questo perché, quando sono arrivati i colonizzatori dal Belgio, hanno costretto la popolazione locale a trasformare gli appezzamenti di terreno coltivati con prodotti utili al consumo familiare, in terreni per fare crescere il caffè. Si trattava di una materia prima che non consumavano, che non conoscevano e da cui non ottenevano grandi guadagni.
Abbiamo anche trattato il periodo del ventennio in Italia, importante per il sogno colonialista fascista rivolto verso l’Etiopia e l’Eritrea. È partita così la ricerca: all’estero ci sono tantissime risorse, soprattutto negli Stati Uniti, dove è un argomento che viene affrontato particolarmente. Nella mostra ho voluto esporre come, mettendo a confronto la mappa del viaggio del caffè e quello della tratta degli schiavi, le due carte geografiche abbiano molti punti in comune, purtroppo. C’era bisogno di forza di lavoro nei campi: spesso le forze indigene venivano ridotte in condizioni di semi schiavitù e al loro fianco si trovavano gli africani.
E’ stata organizzata una mostra a Parigi a partire dal 13 gennaio e poi da questo inverno abbiamo uno spazio al SRISA in via Santa Reparata 19r a Firenze. L’esposizione l’anno scorso si è svolta all’interno del complesso monumentale delle Murate a Firenze, l’ex carcere, dentro quella che era originariamente una cella. Mi hanno proposto: “Se vuoi usare quello spazio per continuare con la tua ricerca, puoi farlo qui”. E così è diventato il mio ufficio provvisorio fino a febbraio.”
Ci spiega come mai è un argomento più che mai attuale?
“Il mio lavoro è molto legato all’analisi di un’idea inconscia ancora presente dei paesi coltivatori che in qualche modo ci dice che l’uomo bianco ha portato la cultura europea nelle terre africane, senza però che in questo processo se ne rispettassero le tradizioni e la storia. C’è il pensiero diffuso ancora oggi, che il lavoratore in questi posti non abbia esigenze e che quindi non debba esser per forza pagato adeguatamente. È una questione di ignoranza. Parliamo di storia, di sviluppo. Non è una cosa lontana come spesso ci sembra, ma è una realtà che abbiamo contribuito come società a creare. Dobbiamo pensare come collettività per creare un cambiamento nella struttura mentale.
Faccio tutto questo perché ho la speranza che in futuro il tessuto sociale sia cambiato e qualcuno si ponga delle domande come: io avrò contribuito a dare qualche risposta? “
Come si sviluppa, su quali punti essenzialmente, la sua ricerca?
Sartiani: “Per ora si sviluppa su determinati argomenti perché il tema è davvero ampio: comprende molti Paesi, contesti diversi e tanti secoli. Per l’esposizione di febbraio mi sono focalizzata su un testo della storica dell’Oregon Diana Garvin: The Italian coffee triangle: From Brazilian colonos to Ethiopian colonialisti. Leggendo questo testo mi si è aperto un mondo: parliamo da una parte di tutto ciò che era anche il desiderio di avere una coltivazione di caffè italiano 100% in Etiopia del fascismo; dall’altra invece, dell’immigrazione degli italiani tra fine ‘800 e inizio ‘900 per lavorare nelle piantagioni del caffè in brasile, in condizioni di vita e di lavoro terribilmente disagiate.
Un altro focus: ultimamente si è letto spesso del decadimento di qualità del caffè in Kenya e di quei Paesi che soffrono di un sistema simil colonialista che li sfrutta, tutti punti importanti per portare avanti un cambiamento. Bisogna comprendere la filiera del caffè per poterla far evolvere.
Per cui inviterò una produttrice e importatrice, Vava (qui un suo video) per portare in luce il punto di vista dei coltivatori. Per toglierci dalla prospettiva del colonialista che ancora oggi abbiamo incamerata nella nostra cultura. Anche l’immagine stessa, la narrazione del coltivatore sporco di terra, non aiuta la crescita reale di questi Paesi. Bisogna aggiornarla.
In questo senso è attuale uno degli ultimi moduli di Sca, sulla sostenibilità, con in capitolo che si concentra proprio sul colonialismo. Per ora ci sono solo due trainer credo in tutta Europa.”
Sartiani, che obiettivi si è data?
“A lungo termine, considerato che facciamo tutto questo senza scopo di lucro, mi piacerebbe portare ancora avanti la ricerca: l’argomento non è molto discusso in Italia, ma tra 5-10 anni, qualcuno vorrà informarsi e troverà del materiale da consultare. Non mi immagino di esser seguita da tutto il settore e magari non farà tanta notizia: eppure voglio parlare della storia e dei fatti, per dar la possibilità di capire le situazioni dei Paesi d’origine, al di là dell’approccio paternalistico che spesso si riscontra attualmente nella cultura europea. Voglio capire perché sono poveri, perché guadagnano poco. Parliamone per creare un dialogo e così ampliare le nostre menti.
L’obiettivo è quello di produrre qualcosa di simile a un archivio, mettendo in evidenza le ricerche svolte e cercare di annullare questa sorta di rimozione della nostra storia.
Faccio riferimento alle tante risorse nell’archivio di Stato e l’Istituto militare che ha delle foto delle nazioni: ho scoperto che il confine tra Kenya ed Etiopia ad esempio, è stato definito proprio nel periodo in cui c’erano lì gli italiani. Il tutto in accordo con i britannici. A Firenze, molto materiale l’ho potuto reperire presso l’Istituto agronomico dell’Oltremare, che nonostante abbia chiuso da qualche anno, conserva molte informazioni anche se purtroppo non tutti i documenti sono stati digitalizzati.”
E quali informazioni l’hanno più stupita o incuriosita in quest’analisi storica?
“Una cosa che mi ha sorpresa è stata scoprire una canzone originaria del casentino che si chiama: Italia bella, mostrati gentile. Canto popolare che parla proprio della miseria del primo novecento. Il ritornello descrive esattamente le condizioni nelle piantagioni e che gli stessi coltivatori italiani intonavano in Brasile. Se pensiamo alle tante immagini legate al lavoro agricolo, dove il lavoratore veniva sfruttato, la musica nasce sempre come modo di sfogarsi. “
L’affermazione “un pacchetto di caffè rappresenta una mappa”: che cosa vuol dire esattamente?
“Questa è una delle cose che mi ha detto Francis: comprando un pacco del caffè si viene a contatto con tante provenienze. È quasi come se si stringesse tra le mani una mappa.”
Dove possiamo trovare il frutto di questa ricerca?
“Noi faremo l’evento a febbraio e poi la prima parte è stata stampata in un minibook che raccoglie tutte le ricerche svolte. Per ora esiste il testo, che però è in forma ridotta. Contiene anche uno studio sull’iconografia dell’immagine razzista dei neri. Si trova sul sito di History Black Month, con anche degli articoli e informazioni sugli eventi. E speriamo in futuro di poterne fare un libro. “