MILANO – L’inchiesta che si propone di scavare nel mondo complesso e duro della gestione delle caffetterie in Italia, inizia con un nome importante: Francesco Sanapo, tre volte campione italiano di caffetteria, finalista al Mondiale di Melbourne. Una partenza significativa, proprio con il fondatore e proprietario di Ditta Artigianale, con in attivo due locali e presto anche un terzo, in centro a Firenze. Il primo punto aperto nell’aprile del 2014 e il secondo nel marzo 2016.
Sanapo, com’è nata l’idea di aprire un proprio locale?
“Perché sono folle – scherza Sanapo. – L’idea è nata dal fatto di voler diffondere la cultura dello specialty coffee. Per esser ancora più precisi, io inizialmente ho avviato una torrefazione, nel 2013: Ditta Artigianale micro roastery specialty coffee.
Aprire invece una caffetteria è stato un desiderio nato dalla voglia di entrare in contatto di più con la gente. Perché, il problema con la torrefazione è appunto che la possibilità di dialogo con il consumatore finale è limitata.
Io invece volevo arrivare direttamente al cliente. Perché volevo davvero diffondere la cultura del buon caffè. Da lì, l’idea di aprire una caffetteria.”
Quindi Sanapo nasce prima come torrefattore e poi diventa gestore
Secondo lei, che cosa dovrebbe sapere chi decide di avviare una propria attività?
“Deve innanzitutto esser consapevole di star creando un’azienda. Un concetto che sembra scontato, ma non è poi così banale. Il primo punto in assoluto che una persona deve metter in chiaro quindi, appena apre un suo locale, è che deve comportarsi pensando che stia gestendo un’azienda.
Di conseguenza dovrà poter basarsi su un business plan fatto coi fiocchi e un controllo dei costi che sia maniacale. Questo perché i margini oggi nel mondo della caffetteria sono molto bassi. Quindi è importantissimo riuscire a valorizzare ogni centesimo per ottenere qualche profitto e evitare problemi.”
E nel business plan quali voci inserirebbe tra i costi?
“Sicuramente il costo della materia prima e quello del personale. Che forse è quello maggiore. Su questo punto, suggerisco di valutare ogni singola ora. Purtroppo, i contratti italiani non permettono di essere malleabili e facilmente gestibili.
Quello che suggerisco è di prender in attenta analisi le diverse fasce orarie: perché ci sono dei momenti caratterizzate da un minor flusso e allora l’impiego di troppo personale costituisce una perdita inutile. Invece, dividere la giornata in fasce orarie, permette di impiegare e retribuire il personale in maniera più sostenibile.”
E risparmiare, assumendo del personale meno qualificato?
“E’ un risparmio davvero relativo. Perché il personale non formato porta a non avere profitti. Noi formiamo il personale internamente: per noi la crescita avviene dentro la nostra attività e porta i ragazzi a firmare un contratto a lungo termine.
Il risparmio vero avviene nell’applicazione di stage veri e propri. A volte però, il gestore è il primo che non comprende l’importanza di questa forma contrattuale. Adesso non ce ne sono tanti e in Italia non sono bene organizzati.
Anche le scuole mandano i ragazzi a fare gli stage solo nei fine settimana. Noi invece ne proponiamo della durata dai 3 ai 6 mesi. Ogni stagista viene inserito all’interno di un percorso formativo: segue corsi di Latte art, di assaggio, di barista. Sono tre moduli completamente regalati. E poi gode anche di una retribuzione di 500 euro. È un rimborso spese.
Questo modo mi permette di risparmiare sulla voce “costo del personale”. È difficile anche trovare però dei ragazzi che vogliano impegnarsi in uno stage. Perché non vedono la formazione come una possibile partenza di carriera. Il ragazzo di 18-20 anni, entra nel mondo della ristorazione come lavapiatti, si fa la stagione, spesso pagato in nero, per guadagnare qualche soldo.
In realtà, oltre al fatto che le condizioni di lavoro sono spesso in nero, l’esperienza lavorativa non è davvero formativa. Se dovessi consigliare a mio figlio, col cuore in mano, come iniziare il suo percorso in questo settore, è quello di fare più stage possibili. Non saranno una fonte di guadagno immediato, ma lo saranno certo sul lungo termine.”
Un esempio da Ditta Artigianale
Racconta ancora Francesco Sanapo. “Una ragazza che faceva 24 ore settimanali in stage, a 500 euro mensili, è partita dal Sud per lavorare con noi a Firenze. In pratica 400 euro li spendeva per la stanza in cui viveva. Di sicuro è stata supportata dai genitori, ma ora, dopo 4 anni con noi in Ditta, ha gareggiato e ha ottenuto diverse certificazioni. Oggi ci lascia perché prenderà posto come Responsabile formazione per un’importante torrefazione.
A noi rattrista da una parte, ma dall’altra sono orgoglioso di questo suo sviluppo. Di persone così però, se ne trovano troppo poche. In definitiva, per contenere i costi, è importante riuscire a gestire il personale in maniera adeguata. Quindi valutando le fasce orarie e scegliendo la forma dello stage.”
Altri modi economicamente sostenibili senza rinunciare alla qualità e alla formazione per differenziarsi?
“Un’applicazione di servizio che sia differente. Ovvero: quello al tavolo ormai, in una caffetteria, non è più sostenibile. Perché il valore di questo servizio non viene coperto davvero dal costo di un espresso. Sarebbe bello poterlo garantire, ma non è realistico. Quindi, quello che è possibile fare è dare un servizio limitato: non è più il cameriere che prende l’ordinazione, ma è il consumatore che si avvicina al banco e solo poi gli viene portato l’ordine al tavolo.”
E l’idea di creare un’ibridazione tra la caffetteria e altre attività, come una libreria o altri pubblici esercizi?
“Non è questa la chiave che di sicuro porta al successo. Per raggiungerlo serve avere un’idea ben chiara del perché si apre. Con Ditta Artigianale la nostra ragione d’essere l’abbiamo costruito con il nostro format. Non siamo solo una caffetteria, ma un vero e proprio diffusore di cultura.
Quindi abbiamo creato un concept molto forte che ci permette di trasmettere un plus che va oltre gli incassi giornalieri. Lo stesso che forse è più difficile da analizzare è la forza del nostro brand. E noi abbiamo puntato molto sulla valorizzazione del brand.”
E a proposito di comunicazione del brand: quanto investite in termini di strategie social e online?
“Il canale in cui abbiamo più investito è la comunicazione all’interno dello stesso mondo del caffè. Partecipando a varie competizioni della community, sostenendo il barista che utilizzava il nostro caffè e posizionando in questo modo il nostro brand a un livello alto.
Abbiamo anche investito nella documentazione dei viaggi all’origine. Dimostrando ai consumatori a noi fidelizzati, la nostra attenzione maniacale per la materia prima. Noi abbiamo strutturato il nostro format: quindi ricerca del caffè speciale; diffusione tra la gente, passando da un centro di ricerca e sviluppo molto solido. Attraverso le competizioni di cup tasting, coffee & good spirits, roasting: posizionandoci sempre ai primi posti. Per un’azienda piccola come la nostra, sono successi importanti.”
Ricerca e sviluppo: le è capitato e le capita tutt’ora di studiare gli altri format di successo in Italia e all’estero?
“Traggo ispirazione da ogni cosa che mi passa davanti. Cerco sempre di trovare che può stimolarmi e che posso apportare alla mia azienda. Viaggiando nel mondo, normalmente vado sempre a scoprire i ristoranti e i caffè, per capire come si sta muovendo il mondo dell’hospitality. Prendere ispirazione non è copiare: ogni format dev’esser applicato al territorio in cui essa è costruita.
Un concept che ha successo negli States, magari a Firenze non funziona. E’ un mondo diverso, nonostante il processo di globalizzazione. Mi capita quindi spesso di viaggiare per cercare nuovi spunti anche in maniera morbosa. Logicamente bisogna mantenere la mente aperta. E poi far nostra l’ispirazione.”
A Firenze il tipo di clientela che ha pensato idealmente con l’apertura di Ditta Artigianale, qual era?
“Sapevo di poter contare su una clientela internazionale. Firenze ha una popolazione di stranieri che vive in città, senza contare il grande afflusso di turisti. Questo ha aiutato Ditta Artigianale in maniera decisiva. Perché, se l’avessi dovuta impostare sulla clientela esclusivamente locale, non avrebbe avuto successo.
Il motivo è legato al fatto che lo specialty è ancora un format poco conosciuto. Certo, il nostro ideale di clientela rimangono gli studenti, sia stranieri che italiani, i turisti, gli stranieri che vivono a Firenze. E, infine, i curiosi più in generale. Che sono per fortuna in forte crescita.”
La situazione dello specialty è cambiata, secondo Sanapo?
“Sì, ma parliamo ancora di numeri troppo ridotti. Non assisto all’esplosione dello specialty coffee di cui spesso leggo sui giornali. Però, senza esser troppo negativi, c’è uno spiraglio. Il futuro del caffè sta nello specialty. La caffetteria altrimenti non sarebbe più sostenibile come prima, quando le gestioni erano dirette e familiari. Spesso ora esiste l’applicazione del nero: ma sono tutte formule che non possono durare a lungo. Questa impostazione crollerà.
I locali a gestione familiare, se non si innovano, chiuderanno: perché si tratta di un lavoro troppo duro e poco remunerativo. Sono sempre più i gruppi a emergere, le aziende strutturate che comprano sistematicamente, basandosi su diversi punti vendita.
Il lavoro in nero è il male dell’hospitality. Non fa bene al settore, perché chi lo applica fa concorrenza sleale: logicamente, un dipendente a cui viene proposto “ti pago 4 ore contrattuali e poi il resto in nero”, sta con loro e non con Ditta Artigianale.
A me è capitato un ragazzo che volevo assumere. Offrivo un contratto a tempo indeterminato, regolare, statale, a 1.250 euro al mese. Mentre un altro datore gli garantiva 1500-1600. Io gli ho consigliato di andare lì, nonostante conoscessi il tipo di contratto: faceva 10 ore giornaliere per 5 giorni, di cui 24 erano pagate a contratto e le altre in nero.
Ho provato a spiegargli che la malattia e le ferie, sarebbero state calcolate per le 4 ore contrattuali. Ma un ragazzo di 22 anni, non ci pensa a queste cose. Non valuta questi aspetti, come la pensione.”
Secondo Francesco Sanapo, quindi, queste chiusure nell’arco di un anno, come si spiegano?
“Perché non c’è sostenibilità economica e il lavoro è troppo duro.”
Per quanto riguarda l’aspetto legato alla location: quanto incide la scelta della zona e l’allestimento interno? La parola a Sanapo
“Sono entrambi aspetti importantissimi. Il mio obiettivo principale quando abbiamo aperto è di trasformare la location in un luogo dove far sentire a casa i clienti. Questo è stato il key factor di ogni apertura.
Mi sono lasciato guidare dal nostro team di architetti. Una scelta obbligata: io non ho le conoscenze per realizzare da solo lo spazio. Serve uno studio attento sia nell’organizzazione del lavoro e quindi dell’area proprio dedicata al bancone bar. Perché uno sbaglio nel back, può portare problemi durante il servizio. Quindi è essenziale appoggiarsi a dei professionisti.
Invece, per quanto riguarda il luogo dedicato alla caffetteria, un gestore può avere le sue idee personali, il suo gusto e consegnarle agli architetti. Poi saranno loro ad assemblare ogni elemento e realizzare un ambiente bello sia per il gestore che per il consumatore. Mantenendo un’atmosfera accogliente. Un aspetto da non sottovalutare per il consumo degli specialty.
La posizione poi è altrettanto essenziale. Va scelta in base a un’analisi del bacino di utenti della location. Non può esser sottovaluto questo parametro.
Quando ho deciso le location, mi sono fermato per ore, mattinate intere, sul marciapiede. Per capire i diversi flussi e la tipologia dei clienti che passavano nella zona. Sperimentando diverse fasce orarie e osservandone le abitudini di consumo. Si può sempre sbagliare, ma quanto più si studia prima, più saranno chiare le effettive opportunità della propria attività.
Ho replicato questo modus operandi per gli altri locali.”
Per quanto riguarda invece la liberalizzazione delle licenze?
Sanapo è deciso: “Io dico: vinca il più forte. Non è una cosa che si può fermare. La liberalizzazione delle licenze ha permesso a tanti di aprire un locale senza avere le giuste conoscenze. Ma non è una reale minaccia: perché per la selezione naturale, chiuderanno. Ora viviamo un periodo di transizione, per via di queste tante aperture. Ma sono certo che in futuro andrà avanti solo chi è più bravo. Se tu sai ciò che fai, lo porti avanti con il giusto impegno, formazione, obiettivi chiari, potrai solo vincere.”
Altro tema scottante: il collegamento con i torrefattori e la questione del comodato d’uso
“Il comodato d’uso è una pratica ormai abbastanza diffusa. Non voglio affermare che sia il male dell’industria. Oggi è una strategia commerciale applicata a quasi il 99% delle torrefazioni. Sono escluse solo quelle piccole.
Per Ditta Artigianale, come torrefazione è un po’ difficile competere con le realtà torrefattrici che ne fanno uso. Per quanto riguarda invece i gestori: apparentemente all’inizio può convenire accettare il comodato d’uso. Potrebbe esser un sostegno in apertura: se apro un bar e ci investo 100mila euro e il torrefattore mi fornisce la macchina e il macinino, può sembrare conveniente.
Logicamente, è un aiuto che in realtà è una reatizzazione del costo delle macchine. Perché alla fine le torrefazioni non regalano nulla, piuttosto fanno un business plan accurato, che poi va a incidere sul prezzo finale del caffè. Basta fare la prova pratica: i gestori dovrebbero attivare una trattativa commerciale con una macchina di proprietà o con una in comodato: è ovvio che il prezzo avrà una riduzione del 30-40 e addirittura del 50% sul prezzo del chilo.
Quindi uno può decidere di comprare una macchina investendo 10mila euro e però esser libero di acquistare il caffè a 10 invece che a 15, parlando ipoteticamente; oppure, prendere la macchina dal torrefattore, evitando la grossa spesa iniziale ma poi scontandola sul lungo periodo sul prezzo del caffè.”
Lei cosa consiglia?
“A un gestore che è agli inizi, che può contare su risorse economiche, consiglio di acquistare la propria macchina. Perché può esser più dipendente nell’analisi della materia prima. So però che la mia visione è un po’ romantica, perché comprendo le difficoltà delle spese iniziali.
Il male non è il comodato d’uso di per sè. Il male sta quando non viene messa attenzione al caffè che si serve. Quando non c’è cura di ciò che si fa. Oppure quando viene acquistata una miscela a 10 euro al chilo per risparmiare, ignorando la sostenibilità di tutta la filiera. Si gioca su margini talmente bassi, che non fanno bene a nessuno degli attori dietro la tazzina.”
Quanto è importante fare rete tra i gestori, al di della community di riferimento di Ditta artigianale allo specialty: la Fipe è un reale sostegno, un collegamento valido?
“La Fipe è un organo che aiuta il settore nello sviluppo, alla ricerca continua di un’evoluzione. Di sicuro gioca un ruolo importantissimo nel fornire le giuste linee guida a tutti nel settore. Ma pensando più a livello individuale, ognuno deve poter basarsi sulle proprie competenze. La Fipe può esser solo un supporto in più. Le organizzazioni non possono agire su ogni singolo bar.
Devo dire però che la nostra idea di caffetteria è distante da quelle che sono ancora oggi le conoscenze dei vari membri della Fipe. Che non sono ancora arrivati a conoscere lo specialty, ad esempio. Non ne hanno un’idea precisa. Per quanto riguarda le caffetterie specialty, sono indietro, così come lo sono il 99% dei clienti italiani. E’ un peccato, ma è un dato di fatto.”
Sanapo comunque è riuscito a trasformare il caffè, lo specialty per di più, in un business di successo
Conclude con una nota di umiltà, Francesco Sanapo. “Non posso dire “di successo”. Quello che stiamo cercando di costruire è la nascita di un brand che parla di caffè con Ditta Artigianale. Per dire che è di successo, dovremmo aspettare qualche anno ancora. Siamo ancora giovani.”