di Patrizio Paolinelli*
Paolo Iacci è un uomo d’impresa e un esperto di marketing. Ha alle spalle numerose pubblicazioni e recentemente ha dato alle stampe un tascabile intitolato Il teorema del caffè.
Il paradosso che regola l’impresa. Il titolo e le ridotte dimensioni del volume potrebbero far pensare a uno libro semiserio scritto per puro divertimento.
Invece non è così. Il teorema del caffè è un libro impegnato e suggestivo. Organizzato in capitoli di poche pagine e scritto senza ricorrere al vocabolario degli specialisti il testo affronta i nodi principali del sistema produttivo italiano.
E lo fa partendo dall’osservazione di un rito quotidiano: la tazzina di caffè che consumiamo la mattina al bar.
Chiunque di noi può notare che i tipi di caffè richiesti sono ormai un’infinità: macchiato, schiumato, lungo, ristretto, gocciato, al vetro, all’americana, alla nocciola e così via.
Una domanda differenziata che per Iacci rappresenta la metafora di una grande discontinuità del capitalismo. Prima di proseguire ci sia concessa una precisazione su quest’ultimo termine.
È Iacci che lo usa, più volte peraltro, e non il sottoscritto. A dimostrazione che il sostantivo “capitalismo” non è affatto desueto.
Tutt’altro. Ma non basta: Iacci utilizza persino Marx e nessuno gli darà del cavernicolo per questo. Tutto ciò per dire che i capitalisti e gli uomini d’impresa assegnano alle cose i loro nomi senza lasciarsi abbindolare dalle mode culturali e dalla propaganda giornalistica (che pure gli torna utile).
Fatta questa precisazione la metafora del caffè suggerisce due cose:
1) la domanda di prodotti è sempre più individualizzata a fronte di una contrazione dei consumi (detto in parole povere, il cliente meno consuma e più pretende);
2) di fronte alle personalizzazione della domanda le imprese, e in generale gli attori economici, devono fare di più con meno risorse a disposizione (detto col solito inglesismo, More with less).
L’interazione di questi due fattori conduce il management aziendale ad adottare modelli gestionali paradossali: si chiede contemporaneamente la riduzione dei costi e l’aumento della qualità, la standardizzazione dell’offerta e una maggiore vicinanza al cliente, si fanno continue ristrutturazioni del personale ma si pretende una politica di sviluppo e così via.
Dinanzi a questi paradossi lo scientific management di harvardiana memoria perde quelle capacità previsionali che ne hanno decretato il lungo successo: oggi la domanda, l’offerta e la concorrenza sono tre variabili che possono agire in modo indipendente una dall’altra.
Ogni capitolo del libro affronta con leggerezza, e allo stesso tempo con determinazione, i principali problemi del sistema produttivo italiano.
E non sono affrontati solo in termini di marketing, ma soprattutto in termini di economia politica connettendo la generazione di ricchezza alle più vaste dinamiche sociali. Un esempio sul fronte dell’organizzazione d’impresa: l’emergenza manageriale.
Dal 2008 ad oggi ben 150mila dirigenti della piccola e media impresa (PMI) sono stati licenziati (attenzione: è Iacci che usa il termine “licenziati” e non “esuberi”, che – diciamo noi – è una vera e propria truffa linguistica).
Cosa ha comportato questo licenziamento di massa?
Che la vecchia classe dirigente è stata sostituita con quadri magari competenti sul piano tecnico ma dai rilevanti deficit sul piano manageriale.
Non solo: l’attuale classe dirigente delle PMI vive nel terrore di essere messa alla porta e perde di qualità sia perché ha paura di sbagliare – e dunque decide il meno possibile – sia perché diventa servile nei confronti della proprietà.
Se si considera che l’abbassamento di livello qualitativo del management della PMI si somma con la scarsa credibilità del ceto politico e la cronica inefficienza della Pubblica Amministrazione è evidente che in Italia occorre una svolta.
Qual è la svolta ipotizzata da Iacci?
La più difficile: di mentalità.
Parecchie pagine del libro sorprendono per il netto ripensamento dell’ideologia liberale che ha dominato incontrastata dall’implosione dell’Unione Sovietica ad oggi.
Iacci afferma senza indugi che l’individualismo esasperato in cui siamo stati allevati sta portando alla perdita di competitività delle imprese e minando la coesione sociale.
Se ognuno – individui, manager e organizzazioni – pensa solo al proprio tornaconto qui ed ora è evidente che non si costruiscono fondamenta e dunque non c’è un’economia solida.
Se le imprese guardano esclusivamente al profitto immediato e le persone non hanno più valori forti a cui fare riferimento, fossero pure questi valori un legame di fedeltà con l’impresa, il risultato è che il sistema produttivo non è in grado di fare sistema né di progettare il domani.
Ma il ripensamento si spinge ancora più a fondo: Iacci dichiara il primato della società sull’economia.
Cosa che pochi hanno continuato a pensare negli decenni del liberismo selvaggio trovandosi soli ad affrontare la martellante propaganda del pensiero unico.
A parte queste considerazioni, riconoscere finalmente che il mondo non è tutto un mercato ma qualcosa di molto più complesso di cui l’economia è una parte – decisiva, ma una parte – conduce Iacci ad affrontare il nodo più spinoso: quello del potere.
E le sue parole sono davvero sorprendenti: “Solo la politica può essere legittimata a stabilire regole limiti per i consumi di una comunità: il bene comune di una società ha la priorità sulla libertà privata degli operatori economici e deve, quindi, venire prima del mercato”.
Affermazioni simili fanno saltare sulla sedia il lettore. Ma come? Il capitalismo detiene da decenni il potere assoluto sulla società e lo cede così tranquillamente? Ovviamente l’abdicazione si spiega.
Iacci – così come il prefatore del suo libro, Giovanni Costa – fa parte di quella borghesia illuminata che si sta rendendo conto di un fatto: lo strapotere esercitato da trent’anni a questa parte dalla stessa borghesia sta rischiando di portare il capitalismo all’autodistruzione.
Tesi non nuova: il capitalismo morirà per i suoi successi e non per i suoi insuccessi affermava già parecchio tempo fa lo storico Immanuel Wallerstein.
In ogni caso occorre correre ai ripari prima che sia troppo tardi. Come? Per Iacci tramite un imprenditore che torni a rischiare e che si assuma la sua parte di responsabilità sociale.
Sul piano organizzativo le leve principali sono tre: 1) investire in proprio e non più i soldi della banche; 2) restituire al management il suo ruolo di alter ego dell’imprenditore; 3) puntare sull’innovazione.
Sul piano politico la ripresa dei consumi non può eludere il problema della sostenibilità sociale e ambientale.
Il teorema del caffè è un libro stimolante. Per quanto breve ogni capitolo obbliga a riflettere su problemi cruciali del nostro tempo, a iniziare dalla crisi in atto.
Ovviamente il lettore può trovarsi a non concordare con tutte le affermazioni dell’autore, che è e resta un uomo di parte. Il tema del lavoro, ad esempio, è trattato astrattamente e osservato soprattutto dal punto di vista di un ipotetico free-lance altamente qualificato.
Si trascurano così la lunga serie di attività meno qualificate e addirittura molto qualificate che oggi in tanti casi si trovano sfruttate a un livello da prima rivoluzione industriale.
Manca poi una seria autocritica sulle cause della crisi. Che non è opera della natura, ma del fondamentalismo neoliberista. Manca una riflessione sulla natura intrinsecamente violenta del capitalismo.
Ma forse stiamo chiedendo troppo a un libro che dinanzi ai casi di avidità e di irresponsabilità sociale del mondo imprenditoriale italiano rappresenta la presa di coscienza che così non si può andare avanti.
Resta da vedere quanto questo approccio avrà effetti sulla realtà concreta delle cose.
Il teorema del caffè. Il paradosso che regola l’impresa
di Paolo Iacci
Guerini Next 2014
12,50 euro
tratto da Conquiste del Lavoro