MILANO – La decorporeizzazione è un mito apparentemente virtuoso, in realtà velenoso e artificiale, forse inventato dalle varie espressioni religiose nel tentativo di visualizzare un percorso mistico.
Poi, quando queste si sono secolarizzate più del secolo, è stato mutuato dal nuovo para-ascetismo radical-chic, a colpi di Pilates e prosciugamento emozionale, tanto caro alle borghesie medio alte, che nel connubio luxury shopping e trance pseudo qualcosa trovano imperitura gloria al cospetto di chi langue dietro il vetro della separazione sociale.
Le evidenze della inconsistenza del mito sono ovunque. Di recente un amico mi ha raccontato un episodio del suo viaggio in Etiopia.
Il rito del caffè, di cui sembra l’Etiopia sia luogo di nascita. Il racconto del caffè etiope è stato per me un tangibile esempio di come tutto è corpo e nulla vi sfugge.
Il mio amico è entrato in una casa etiope e gli è stato offerto il caffè. Proposta rituale, regale come ogni gesto dovrebbe saper essere, per la sua valenza intrinseca.
In quella casa significava una vera liturgia.
Una storia.
Mentre mi raccontava dei grani di caffè tostati e pestati, che rilasciano nel gesto un primo profumo, la bollitura dell’acqua e la seguente infusione, che rilascia un secondo potente profumo e infine la assunzione del caffè, mi è stato chiaro come tutte quelle fasi, con stimoli sensoriali differenti, in azioni diverse, erano ciascuna un corpo effettivo del caffè.
La corporeità si impone non perché assomiglia a qualcosa, ma perché entra nelle nostre stesse fibre e le fa vibrare.
Anche in modi diversi.
E ciascuno di questi modi è come il tocco sublime di una corporeità altra cui istintivamente riconosciamo familiarità, tanto inspiegabile quanto definitiva. Il gesto della macinatura non è semplicemente una applicazione esterna e meccanica, una sorta di istruzione per l’uso.
Il gesto della macinatura si fonde con la essenza stessa dei grani, li interpreta e ne libera una forma e un corpo nuovo. Il corpo del profumo. Il profumo è corpo.
Non è una entità che si stacca dal corpo. È parte della essenza concreta del caffè, in una sua manifestazione, un corpo che funziona per regole sue ma vero, tangibile ed esperibile. Esiste una priorità dei corpi? I grani o la polvere di quel caffè sono più corpo del loro profumo?
No. E lo possiamo dire grazie alla intensità della relazione che noi istantaneamente creiamo con quel corpo del profumo. Per certi versi anche più profonda di quella con i grani. Ma non c’è opposizione o gerarchia. I corpi di quell’unico corpo sono tutti coincidenti, tutti uniti e meravigliosamente diversi.
È talmente forte la visione, che potrei azzardare che il mio amico, e la famiglia e la casa dove si faceva il caffè, erano tutti i corpi del caffè in quel momento. Perché il caffè era loro. O meglio: il caffè era diventato un tramite di vibrazione comune, di una relazione attraverso le sue forme di esistenza.
Altro punto fondamentale: solo il corpo è il tramite della relazione. Noi abbiamo la potenzialità meravigliosa e terribile di entrare in contatto perché il corpo, la unica forma in cui l’esistente esiste, ce lo permette.
La ideologia concettuale, avesse qualche forma di realtà, diventerebbe la negazione della relazione perché negazione della possibilità di entrare in contatto.
Se non vi è corpo, non è dato contatto.
Prima il manicheismo corpo e spirito, propedeutico agli auto da fè, ora il misticismo delle silfidi agée dei salotti buoni contornate da una intellighenzia in sciarpetta e cachemire, hanno generato confusione.
Il trascendimento è stato venduto per nascondimento del corpo, allontanamento dal corpo, sacrificio del corpo.
Le sofferenze autoinflitte passate per distruzione punitiva e non come chiave di accordatura diversa e profonda.
Tutto per una suggestione ideologica che è volontà di separazione, rifiuto di contatto vero con l’altro.
Costruzione sofisticata e articolata, che però, si scioglie come neve al sole se solo si imbatte in una tazza di caffè. Etiope, eventualmente.
Raul Gabriel