MILANO – Qui sotto, l’ultimo scritto di Sergio inviato prima della scomparsa. Raccolte nella rubrica Il Puntaspilli. Oltre a questo, trovate alcune edizioni uscite su Comunicaffè ancora attuali e sulle quali riflettere.
E se qualcuno dei lettori avesse testimonianze da inviare sull’attività di Sergio Morando non esiti: saranno pubblicate.
Ciao Sergio.
Il Puntaspilli, da Comunicaffè del 26 settembre 2009
Il Puntaspilli (non) si ferma qui.
Sergio Morando ci ha lasciato mercoledì 16 settembre 2009 a seguito di un male incurabile. Era nato a Genova il 23 maggio del 1929. Aveva 80 anni.
Ora riposa nel cimitero di Camogli (Genova). Dove aveva chiesto di essere sepolto alla moglie Ileana e al figli Roberta e Marco.
Ma la sua opera di prolifico scrittore continua su Internet dove resterà per sempre.
Dopo l’ultimo saluto gli rendiamo omaggio.
Sergio Morando lo ricordiamo come uno dei massimi esperti italiani di caffè, storico collaboratore di Comunicaffè. Ma prima ancora nostro grande amico.
IL PUNTASPILLI – SCRIVE SERGIO MORANDO
Questa storia comincia in Argentina, nel giugno del 1902 – Da Emilia Cavagnaro casalinga e Rocco (detto Carlo) Morando. Direttore del Teatro Colòn di Buenos Aires. Nasceva Giovanni Battista (detto Cesare).
Nel 1904/5 Rocco/Carlo prese la direzione del Teatro Carlo Felice di Genova. Dove la famiglia Morando si stabilì dopo il rientro dall’Argentina.
Il nome di Cesare Morando
Lo si trovava in una locandina della compagnia di Gilberto Govi. Impersonava un bambino. A quell’epoca avrà avuto 5/6 anni. Govi era ben conosciuto dalla famiglia Morando.
Sia per le prove delle rappresentazioni che avvenivano in un “fondo” sotto la loro casa. Oltre che per la carica che ricopriva il Capo famiglia.
Concluse la scuole tecnica Cesare operò quale dipendente di Otto Hagmann sulle borse sia del caffè che dello zucchero.
Sposò la milanese Antonia Milani e si stabilirono a Genova nel quartiere di Albaro.
Nel Maggio del 1929 nacque Sergio
All’età di tre anni si vide proiettato dal mare alla pianura in una notte a bordo di una Fiat 1500 che innondò di vomito. L’auto era di proprietà di carissimi amici genovesi che si adoperarono di trasferire la nuova famiglia Morando in quel di Milano.
Lavorava sempre per Otto Hagmann ma non alle dipendenze. Iniziava la sua vita da libero professionista.
Fra asilo e elementari non ebbi ad approfondire l’iter commerciale di mio padre.
Posso comunque confermare (perché ricordo benissimo dove avevano gli uffici) che si associò con altri due agenti e l’azienda prese il nome di Carigani-Oblath-Morando domiciliata in via Felice Cavallotti.
Cambiammo anche domicilio familiare trasferendoci in Viale Regina Margherita. In quella casa (che è ancora bella e pimpante… la casa) nacque mia sorella.
Carignani lasciò questo mondo di dolore e rimasero Oblath-Morando
A tener testa ai due con cipiglio fiero,rimase la nipote di Carignani: Luigina Butteri che seguì quale segretaria la dynasty fino alla sua dipartita.
La famiglia trasloca ancora e si stabilisce in Via Melloni (oggi mi pare sia via Carretta).
Da qui ci trasferimmo dalla parte opposta della città, in Via Vigoni. Forse una delle poche case milanesi che fu costruita con la fondamenta costituite dal un ampio rifugio antiaereo con relative porte stagne.
Scoppia la guerra. Oblath corre in Svizzera per non subire le angherie (fossero state solo quelle) dei fascisti e dei tedeschi.
Cesare Morando deve arrangiarsi a qualsiasi lavoro di agenzia che gli capita.
In Via Vigoni abitava anche un certo ragioniere Calcaterra (che sarà poi mio testimonio di nozze) che, aveva conoscenze pressoché illimitate e tutte le notizie utili che riusciva ad avere su ogni articolo commestibile le passava a mio padre che si occupava del collocamento. Rammento che una volta propose un lotto di migliaia di bottiglie di cognac (italiano) che riuscì a venderlo alle truppe tedesche facendo un buon utile da dividere con l’amico suggeritore.
Tutto quello che mio padre riusciva a raggranellare ne teneva conto la Luigina facendo il 50% del saldo che sarebbe poi stato consegnato a Massimo Oblath quando fosse rientrato in Italia. Cosi che non si fosse trovato a mani vuote e potesse continuare a lavorare.
Sfollammo a Suna sul Lago Maggiore. Io frequentavo le medie. Cesare quasi ogni mattina ed ogni sera per rientrare si sorbiva la traversata da Suna a Intra su uno sferragliante tram, una traversata nautica da Intra a Laveno e un percorso ferroviario da Laveno a Milano con le ferrovie Nord.
Non fu vita facile. Rammento che eravamo in guerra: treni e battelli potevano essere obbiettivi da colpire. Ma sopravvisse a tutte questa fatiche e ci ritrovammo in Via Vigoni alla fine delle ostilità.
Un paio di aneddoti che mi piace portare alla memoria furono un mio intervento in un trasporto proibito nei primi mesi di guerra, uno spettacolo al Gerolamo (antico teatrino delle marionette) e le notti a Suna.
Cesare mi diede l’incarico di andare alla Torrefazione Giardini, nei pressi della Borsa Valori, a ritirare un pacco.
Già allora le auto erano state requisite e quelle poche che circolavano erano necessarie ai medici, ai federali, ai pezzi grossi dell’allora politica e molte andavano a carbonella. La mancanza di questo mezzo di trasporto aguzzava l’ingegno e si prendevano i mezzi pubblici (sempre con il rischio dei bombardamenti) oppure in bicicletta o in calesse o con qualsiasi altro mezzo di trasporto che ogni cittadino si sentiva di usare per spostarsi. Io usavo la mia Touring….. bicicletta da passeggio!
Arrivato da Giardini, mi fu consegnato un sacco di carta del peso di circa 15/20 chili. Lo piazzai a cavallo del manubrio.
Non avevo portapacchi.
Arrivato in Corso Italia mi accorsi che alle mie spalle parecchi passanti si chinavano e raccoglievano qualche cosa che io stavo perdendo.
Il grosso bullone che fissava il manubrio al piantone nel girare evibrare aveva aperto nel sacco di carta una feritoia dalla quale ne usciva del caffè tostato. Pigiai sui pedali per giungere al più presto a casa. Distavo soltanto qualche centinaio di metri.
Abbandonai la bici sul marciapiede e mi misi il sacco sotto braccio; tenendo la fenditura sotto l’ascella. Chiesi al portiere di prend. Sil mezzo di trasporto per metterlo nel piccolo cortile.
Non rammento la fine che fece quel caffè tostato
Certamente venne suddiviso fra gli amici del caseggiato.
Oggi arricciamo il naso se un caffè emana qualche odore poco chiaro.
Pensate a quei 15/20 kili suddivisi cosa potevano essere dopo magari tre/quattro mesi di chiusura in un barattolo di alluminio. Non esistevano i frigoriferi di oggi.
Il caffè tostato poteva subire anche queste deturpazioni
Ma la mancanza totale dell’oro nero ti faceva fare cose che oggi ti farebbero rabbrividire. Eppure succedeva.
Le ritirate notturne nel rifugio, contribuirono a saldare amicizie che nel tempo si resero ancor più salde.
Con Gianna suo fratello Giulio (il più vecchio del quartetto) mia sorella ed io (eravamo una coppia di fratelli e sorelle dirimpettai in Via Vigoni), andammo una domenica a vedere le marionette al Teatro Gerolamo.
Eravamo all’inizio di Corso Italia che suonò l’allarme. Avevamo da scegliere: correre a casa nel nostro rifugio oppure infilarsi in un rifugio che avremmo trovato nel tragitto. Decidemmo per casa.
Un cavallo bianco con criniera svolazzante trainava di gran carriera un calesse dal quale un uomo faceva schioccare la frusta a mo di incitamento alla corsa. Mi rimase impressa quella scena che difficilmente dimenticherò: sembrava che il mondo stesse finendo sotto le zoccolate del cavallo.
Intanto mio padre preoccupato uscì di casa alla nostra ricerca. Non ci incontrò.
Lui continuò fino in Piazza del Duomo dove riuscì via telefono a sapere che noi eravamo al sicuro.
Dello sfollamento a Suna ho dei ricordi ancora molto vivi. Come l’amico che coltivava tabacco o la bella ragazzina (mai più vista) che corteggiavo o la raccolta di funghi o la pesca all’alborella o la pesca con il sacco alla foce del Toce o la statua del Signor Rossi davanti a casa che tutte la mattine mia mamma all’apertura delle gelosie salutava “Buongiorno Signor Rossi!” e sputava o il rastrellamento di quei poveretti che fuggivano alle grinfie dei tedeschi ma che furono presi e giustiziati o a quei panini neri con l’uva che a mio nonno Carlo, venutoci a trovare per qualche giorno, tanto amava o al bazar di Intra o all’amico Sandro che fu preso dai tedeschi e deportato in
Germania o al saccheggio della caserma degli alpini di Intra alla fine delle ostilità o al giovane soldatino che seduto sulla panchina sotto il monumento gli partì un colpo dal 91 che teneva fra le mani e si ferì una gamba o sentire il tam-tam di Radio Londra in sordina per non farti sentire da qualche d’uno che avrebbe magari fatto la spia o il primo disco del Quartetto Cetra che papà portò da Milano per sentirlo sul grammofono. Sono indelebili nella mia memoria, anche se affaticata.
Allora le truppe tedesche o i fascisti, non guardavano troppo per il sottile. Se avevi il fisico e potevi rappresentare una minaccia o una soluzione, ti impacchettavano e tanti saluti a casa!
Per un ragazzo che si sarebbe sentito di spaccare il mondo ma che per il quieto vivere doveva trattenersi, un diversivo molto interessante furono le notti a Suna. Gli aerei giungevano dalla valle del Toce e quel ronf-ronf dei motori a pistoni era una sveglia per tutti e dalle finestre buie come tutto intorno all’Italia, con il naso all’in su speravano di vederli passare. All’altezza in cui viaggiavano la speranza di vederli era veramente una chimera. Oltre al ronfo dei motori c’era un altro segnale che distingueva la rotta: il capo squadriglia indicava lo rotta ai colleghi che seguivano, lanciando ogni tanto, dei bengala che, attaccati a piccoli paracadute, scendevano dondolando. Se il bengala indicava la destra, sapevamo che andavano a bombardare Milano (in effetti dopo poco si sarebbero visti i lampi delle esplosioni) andando a sinistra sarebbe capitato a Torino. La rotta, dalla valle del Toce, era diretta attraverso il Lago Maggiore e la biforcazione veniva illuminata dai bengala.
Se Dio vuole la guerra finisce. Le tessere annonarie non vengono subito abolite ma si continua a fare le code nei negozi. Abituati al pane integrale (più crusca che farina) il pane bianco viene accolto con grande interesse e ci sembra che sia più bianco del bianco anteguerra.
Il Piano Marshall da una mano a sopravvivere con miglior dignità e viene decretata la possibilità di ritornare ad importare caffè.
L’ufficio in Via Silvio Pellico, aperto durante la guerra, resterà per molti anni la sede della dinastia.
L’ennesimo trasloco della famiglia necessita perché l’appartamento viene acquistato da mio padre. Ora siamo in Piazzetta Guastalla. Un salotto.
Finiti gli studi tecnici, dopo i pochi mesi di relax del dopo esami, entrai a far parte del gruppo. Nel frattempo la zio Carlito da assicuratore a Genova divenne
Agente di caffè a Milano stabilendosi in casa nostra per un po’ di tempo prima di chiamare la famiglia composta dalla zia Andreina e dal cugino Massimo ed abitare anche loro in Piazzetta Guastalla con l’acquisto di un appartamento.
In finale il 30% degli inquilini di Via Vigoni, si trasferirono in Piazzetta Guastalla.
Allora esisteva la Morando che si occupava delle vendite dirette estero-Italia quale agente e la Morando & Co che fungeva da importatore e rivenditore di caffè nazionalizzato. La Moran- do & Co andò a sostituire la Celsa (acronimo di un titolo che non rammento) costituita fra mio padre e certo Edoardo Gambaro di Genova.
Finita la guerra tornò in patria sia Massimo Oblath che Mario Callisto (figliastro di Otto Hagmann) che fu deportato in Germania. Mentre Oblath si ritirò dagli affari (ufficiosamente perché ufficialmente aprì un’attività con suo figlio imperniata sempre sull’agenzia caffeicola) prendendosi il capitale che mio padre tenne a sua disposizione, Callisto fu nominato Agente della Morando in Liguria. Il legame con Otto Hagmann per mio padre fu sempre molto sentito e non poteva rinunciare a dare una mano a
Callisto quando Hagmann gliene aveva date tante durante i suoi primordi.
Quando entrai io nel giro avevo 22 anni. Allora la Morando aveva un’unica Agenzia diretta con un Paese produttore. Si trattava della Mauricio Borgonovo di San Salvador. Borgonovo era di origine chiavarese e quando si sposò fece il viaggio di nozze in Italia dove trovò mio padre che gli prestò i soldi per comprare un’automobile e per le spese del viaggio. La restituzione avvenne tramite le vendite dei lotti di caffè. Il caffè Borgonovo fu un successone. Dante e Dante extra erano le marche del naturale e del lavato che venivano offerte. Caffè speciali che davano gran lustro alla miscela.
Le Rappresentate europee erano le inglesi Gill&Duffus e la Bryan&Stanley. Dal
Belgio la Ordimex di Anversa collegata alla Matagalpa B.V. di Amsterdam.
Redondi (l’altro mio testimone di nozze) rappresentava in Europa la famosissima Reinbold di Haiti e vide l’opportunità di cederla alla Walter Matter SA di Ginevra così che l’Azienda haitiana avesse maggior sfogo in Europa. L’amicizia che legava
Redondi a mio padre fece si che la Morando assumesse la rappresentanza della Walter Matter per la Lombardia e quindi veniva ad aggiungersi alle Aziende con le quali già operavamo.
Dopo gli studi ci affiancò Massimo Morando. Nel frattempo accordi erano stati presi anche con le Agenzie generali caffè di Genova diretta discendente della Otto Hagmann di felice memoria. In questa S.p.A. ne entrò a far parte, giustamente, Mario Callisto. Altro Socio fu Roberto Montefiori. Si prospettava un intenso lavoro anche perché l’Istituto brasileiro do cafè (Ibc), decise di depositare prima a
Trieste poi anche Genova, quei lotti di caffè di vecchissimi raccolti, che gli pesavano in Patria e voleva eliminarli senza far intervenire le ferrovie usando tale caffè nelle caldaie delle locomotive, né le autorità stradali perché l’usassero per i sottofondi delle principali strade ed autostrade del paese. Cosa che già avevano fatto nel passato.
Ora avrebbero incassato qualche dollaro in più.
La vendita di questo caffè depositato e denominato solo Ibc veniva ceduto a prezzi concorrenziali agli importatori di caffè Brasile di raccolto in corso nella quantità 1 a 1.
Fu un periodo di grande interesse e di speculazioni infinite specialmente quando il quantitativo di caffè Ibc fu raddoppiato nei confronti dell’importazione diretta.
Le Agc decisero che sarebbe stato opportuno aprire un ufficio anche a Napoli e da qui avrebbero controllato i mercati del Sud. Offrirono la direzione a Carlito che accettò perché vedeva che a Milano non avrebbe avuto migliori opportunità.
Con lui, naturalmente, sarebbe andato anche Massimo che nel frattempo sposò
Linuccia Cavallo figlia del torrefattore Leone Cavallo di via Malpighi.
Eravamo nel 1958. Le Agc aprirono anche un’attività a Lugano: la Green coffee merchants diretta da un grande amico dei Morando. Riccardo Friedlander lasciò la Walter Matter per la Gcm. Naturalmente noi ci impegnammo nell’introdurre anche questa Azienda specializzata nel Santos Florita dulce, nei Guatemala e Costa Rica.
L’attività di Cesare si sdoppiava. Fra business e congressi il suo tempo era scandito da molti successi. Fra questi l’apporto sia alla fondazione del Comitato italiano caffè’ (tutt’ora funzionante) sia alla legge anticontrabbando. Era un susseguirsi d’incontri e telefonate con Emilio Jesi (torrefattore in Milano) che con Demòlito Fini e tanti altri il nome dei quali mi sfugge. Le rappresentanze si allargavano alla George S. Daras di Marsiglia che primeggiava sia con i Robusta e Excelsa della Repubblica Centro Africana (Rca) che con le qualità Filippine.
Con l’entrata nella nostra organizzazione del cugino di mia mamma Gilberto Croce che si era separato dal socio Bonfante alla Atlantic, si incrementarono notevolmente le vendite dello sdoganato e si arrivò pure a lavorare con la F. Cavanagh di Le Havre che deteneva l’esclusiva dei caffè Arabica (specialmente dell’Uccao) di provenienza Cameroun. Fummo i primi ad introdurre questa che potrei ritenere ancora una qualità di ottimo arabica che, secondo il mio parere, sarebbe un tipo eccellente per le nostre miscele (se non è cambiato nel frattempo).
Come fummo i primi ad introdurre il Papua New Guinea per conto della Angco (l’azienda menzionata nel mio giro del mondo).
Fra i clienti lasciatici da Croce ce n’è uno che superò ogni aspettativa restando legato a noi fino alla mia cessazione. Ne faccio il nome perché credo sia unico nel settore: Romcaffe di Macerata.
Grazie prima all’amico fraterno Piero poi al grande nipote Stefano. Grazie per quanto avete fatto per noi e per me. Mi dispiace che Pierino non possa più leggere queste righe.
Non rammento più come si chiamava la ditta brasiliana che per un certo periodo abbiamo rappresentato in esclusiva e che forniva un buon Santos da noi marcato Roberta (nome di mia figlia).
Raggiungemmo anche accordi diretti con la Font, Gamundi & C. CxA per il Santo Domingo (altra Azienda menzionata nel predetto giro del mondo).
E cambiammo anche indirizzo: da via Silvio Pellico, passammo in V.le
Campania. Più vicino a casa dei vecchi. Con l’assunzione di Gilberto Croce ci trasferimmo in Piazza Grandi (ultimo domicilio conosciuto) e si cambiò anche ragione sociale. La nuova azienda era la Dirpo (Ditta importazioni rappresentanze prodotti oltremare). Ci seguiva sempre la Luigina con le sue scartoffie e conoscenze amministrative.
A suo tempo certo Amiotti (testimone di nozze di mio padre) della Battistel & Amiotti numero uno in Italia nel commercio del cotone, ci presentò la McFadden & Cia di
Santos che da produttori ed esportatori di cotone dal Brasile, avevano una branchia operante nel caffè. Fu un ottimo periodo. Collocammo in Italia ed estero lotti di caffè marcati Koral e c’è qualche d’uno che ancora se ne ricorda. La McFadden chiuse.
Il direttore uscente aprì a sua volta un’azienda che proponeva un ottimo Santos sotto la ragione sociale Fazenda da Serra. Fu ancora un buon periodo. Conobbi questo personaggio (di cui ora mi sfugge il nome) nell’unico viaggio che veci in Brasile circa 10 anni or sono. La Fezenda da Serra purtroppo lavorava per conto. Erano dei controllori di qualità ma per due volte (forse per non colpa loro) mandarono due lotti il cui ultimo mi fece decidere di abbandonarli perché non desideravo dare altre future fregature alla clientela.
Il primo capitò con un tostatore di Modena. La vendita fu fatta dalla Lopes Perera di cui accenno in seguito e non mi capacitai mai del perché mi chiesero di fare una perizia sul caffè venduto da una nostra rappresentata quando sarebbe stato più semplice implicarci direttamente.
Misteri della fede!
Comunque fui chiamato a recarmi urgentemente a Modena per redimere la questione.
Fu uno schok. Nel caffè crudo si distinguevano benissimo grossi coleotteri neri. Per fortuna che il Principale della torrefazione, passando davanti alla prima tostata di quel lotto si accorse che i coleotteri (tostati) più leggeri del caffè, rimanevano a galla mentre nella padella di raffreddamento le spatole rivoltavano i chicchi ritmicamente. Ferma tutto e chiamata per verifica.
I coleotteri erano tutte femmine (ciò mi fu confermato dal Direttore del Museo delle Scienze al quale facemmo dono di molti dei coleotteri raccolti) quindi nel periodo che questi animali rimasero nel caffè crudo, misero al mondo parecchia figliolanza. Per fortuna sia le mamme che i figli erano più grossi del crivello 17/18 del caffè. Per sistemare la cosa chiesi agli spedizionieri Romani di Genova di assoldare delle persone che venissero a Modena e crivellassero tutto il caffè disponibile (15.000 chili: allora i lotti erano di 250 sacchi). Ci lavorarono, in due per due giorni con grossi setacci a crivello non superiore del 19. Il caffè fu ripulito ed il costo, allora, raggiunse
i tre milioni di lire che furono pagate dai brasiliani.
Poi cercammo di ricostruire che cosa era successo. Il quantitativo di caffè crudo da esportare venne prelevato da un silo di legno senza copertura. Una lampada illuminava l’imboccatura. I coleotteri attratti dalla luce s’infilarono dentro e non riuscirono più ad uscirne.
Le seconda ed ultima esecuzione arrivò con un odore e gusto poco gradevoli. Questo bastò a decidermi ad abbandonare la Fazenda da Serra con la quale ancora lavoravo nel periodo ultimo da casa mia a Milano. Vorrei anche dire che ne fui dispiaciuto e se dovessi rientrare forse (forse no) cercherei di recuperare i contatti sempre che mi garantissero il vecchio naturale Koral.
Nei contatti diretti per la collocazione dei caffè d’origine avemmo un buon approccio con la genovese Lopes Perera di Giorgio Montagna. Lopes Perera era il nonno di Giorgio e grande amico di Cesare. Tutti della vecchia guardia. Montagna decise di chiudere l’attività e cedette il suo portfolio ad Alessandro Bolla che prese in carico nella Cofitrend Paolo e Graziano Carrara.
Pure Cofitrend chiuse battenti. Quindi Paolo e figlio aprirono la Carrara coffee agenzie che tuttora frequento con grande interesse e ringrazio i due Carrara per sopportarmi nelle visite che faccio anche per rallentare la tensione che mi prende quando non ho nulla da fare. Grazie.
In P.zza Grandi, grazie ad un amico che si era ritirato dal campo, conoscemmo la
Blaser AG di Berna che stava puntando al mercato italiano con il crudo.
L’Adelio Bernini di oggi è la persona che ci fu presentata a quei tempi e da quei tempi non ci separammo più. Ancora oggi, se ho bisogno di lumi sono a telefonare al buon Adelio che devo ringraziare con tutto il cuore per il sostegno che ci e mi ha sempre dato.
In tutto questo tempo ho altri due aneddoti: primo il rientro di Massimo Morando da
Napoli e secondo la chiusura di molte Aziende che rappresentavamo. Massimo andò a aumentare le presenze lavorative presso le Aziende riunite caffè di Milano mentre Ordimex, Matagalpa e Daras si ritirarono dal mercato.
L’attività della Blaser in Italia si estese velocemente. Ne risentirono gli altri Traders. Fra questi la Walter Matter che rappresentavamo. E devo dire che non si comportò come dovrebbe comportarsi un datore che ti licenzia. Si eclissò da tutti i suoi Agenti senza dare spiegazioni nè ragguagli. Finì così una convivenza che dava ancora buoni frutti. Peccato. Per fortuna che avevamo una sostituta, nella Blaser, di grande rispetto e prestigio.
Quando Croce si allontanò da noi per acquistare una torrefazione a Bollate (Mi) entrò nella Dirpo mio figlio Marco. Cesare si dedicava solo a quei vecchi amici che ancora coltivava come Gaetano (Nino per tutti) Quarta di Lecce o Emilio Picciotto di
Milano. Molti suoi amici avevano già lasciato questa terra di dolore e quindi si sentiva sempre più solo. Il suo più grande passatempo era quello di venire in ufficio anche la domenica a leggersi il giornale e rispondere a chiamate telefoniche in nostra assenza.
E si aprì anche il salotto della marchesa. Ogni lunedì mattina si presenta vano nei uffici di Piazza Grandi sia l’amico Franco Sanguinetti (il compagno di viaggio intorno al mondo) che Guido Carati a volte con il figlio. Si discuteva di caffè, di mercati, di barzellette, di futuro nel nostro lavoro. Cesare era il fulcro.
Cesare fu comunque sempre di grande aiuto perché l’esperienza non è acqua.
Pure lui a 92 anni, dopo mia mamma che morì qualche anno prima, si addormentò per sempre. Nello stesso giorno che io compivo 65 anni.
Il grande Cesare ci lasciava in eredità un nome ben conosciuto e che avevamo l’obbligo di difendere a portare come bandiera in tutti i Paesi.
Spero di esserci riuscito.
Con Marco, rientrato dal servizio militare, fondammo la Seipac.
Si sfruttarono tutte le conoscenze e possibilità che avevamo nel cassetto e che ci lasciò in eredità la Dirpo. La Luigina sempre presente.
Per pochi anni si continuò fra alti e bassi. Venne il giorno che Marco decise di abbandonare. Non si vedeva nel caffè. Preferiva altre strade.
Si chiuse la Seipac e mi ritirai in casa continuando il lavoro come free lance. Mi restavano da seguire la Font,Gamundi & C., l’indiana Allanansons (e Chi non l’ha avuta?), la Fazenda da Serra, la sempre verde Blaser e si inserì la Fuga AG di
Lucerna. Al trasloco da Milano a Genova decisi che era giunto il tempo di cedere le briglie a chi poteva essere più in gamba di me e trovai nei Carrara le persone giuste.
Mi sono tenuto ancora in allenamento con le prove in tazza per non perdere del tutto gli amici caffettieri e quando qualche buontempone mi chiede se non ho intenzione di ributtarmi nella mischia….. faccio orecchie da mercante…., ma mi piacerebbe molto anche se tante cose sono cambiate e riprendere da nuove posizioni alla mia età non è così semplice.
La memoria è piuttosto labile e proprio per questo chiedo scusa ai lettori se qualche aneddoto o tempistica non è stata trattata con esattezza.
Devo anche precisare che la presentazione della dinastia mi è venuta in mente quando la direttrice di Comunicaffè mi riportò una conversazione avuta in questi ultimi tempi nelle Puglie, con la Signorina Filumena della Quarta Caffè SpA di Lecce.
Fece presente che i Morando erano da paragonare ad una importante Azienda milanese operante nel settore da ormai moltissimi anni. Ringrazio la carissima Filumena per averci portato così in alto, ma mai avremmo voluto arrivare a tanto. Eravamo piccoli e seri. Ciò ci aprì molte porte. Magari se ne chiusero moltissime altre all’applicazione della legge anticontrabbando. Non fa nulla. Abbiamo comunque resistito a tutto e siamo fieri di quanto abbiamo fatto.
Una precisazione è doverosa. Avrete notato che viene sempre menzionata la parola amico. Così erano e sono sia i Fornitori che i Clienti. Per noi Morando prima c’è l’amicizia e poi il lavoro.
Ma tutto quanto scritto va a ricordo e gloria del capostipite Cesare e che con me
Finisce la dynasty dei Morando caffettieri.
Ma non finisce l’amore per il caffè e per gli amici.
E prossimamente (magari dopo le ferie) racconterò dei 3 Moschettieri.
Sergio Morando
IL PUNTASPILLI – SCRIVE SERGIO MORANDO
Nella lavorazione il processo eco batte quello tradizionale
Lascio ai lettori il dubbio (e aspetto i loro commenti)
su un prodotto che è innovativo e di facile reperimento, ma…
Uscito lunedì 16 marzo 2009
All’inizio del mio impegno con il computer, quando mi dissero di navigare, pensavo di dovermi imbarcare su un qualsiasi natante che solcasse i mari del mondo.
Non pensavo a Google o ad altri e mi stupii delle cose che si potevano leggere e vedere.
Rubando del tempo a quello di pensionato, mi dedico volentieri a navigare alla ricerca di nuovi orizzonti.
Ultimamente sono incappato in una ventina di pagine dedicate a macchinari colombiani utili alla agricoltura, quindi anche al caffè.
Fra le tante pagine con illustrazioni colorate, mi sono apparse delle tabelle in bell’inglese che mettono a confronto il processo di lavorazione ecologica e quello tradizionale del caffè verde. Sono elementi messi a disposizione da un’azienda della Tanzania.
Ho visto, nei miei passati lunghi viaggi in Centro America, come avviene la lavorazione in quei Paesi ma non ho mai approfondito i vari passaggi.
Così, per non correre rischi di elencare cose inaudite ho chiesto l’intervento dell’amico Pasquale che vive in Costa Rica e che fu già produttore di Shb e prima direttore di produzione in Kenya che ne sa certamente più del sottoscritto, che mi trasmettesse la traduzione dei vari passaggi.
E ciò è stato fatto e qui riporto i risultati con il commento finale da parte del traduttore:
ECO PROCESSO PROCESSO TRADIZIONALE
Non è richiesta acqua E’ richiesta l’acqua
SPOLPATURA 0% di pergamino nelle polpe 0,5-2,5% di pergamino nelle polpe
Meno dello 0,5% di ciliegie non spolpate Più alto
0% di grani danneggiati Più alto
Senza fermentazione. La mucillagine è rimossa con la fermentazione
FERMENTAZIONE Senza perdita di peso del caffè in pergamino 2% di perdita di peso in pergamino
TEMPO DI ESSICAZIONE Si riduce del 15%
TEMPO DI PROCESSO 24 ore 48 ore
QUALITA’ IN TAZZA Senza rischi legati alla fermentazione Con rischi legati alla fermentazione
POLPE Polpe fresche con tutti i componenti nutritivi Polpe lisciviate con cattivo odore
TEMPO DI DECOMPOSIZIONE 2 mesi 4 mesi
LAVORO Riduzione del 30%
COSTO IMPIANTI 20-25% 100%
RESA 5:1 (da ciliegia a caffè pergamino) 4,5:1 (da ciliegia a caffè pergamino)
“E’ la fine del buon caffè lavato con fermentazione” è stata la conclusione.
E’ vero che con il processo Eco le spese di lavorazione si riducono e quindi si dovrebbero ottenere dei prezzi competitivi, ma è anche vero che è sufficiente che venga menzionata una parolina in più del normale (vedi Bio o Gourmet) che i venditori se ne approfittano immediatamente.
Allora, perché rinunciare alla fermentazione che è il passo fondamentale per ottenere un buon caffè?
Perché correre il rischio di avere una qualità poco convincente? Per un prezzo più basso? Per indicare sulle confezioni che è caffè ECO processato e farsi riverire dal consumatore?
Ma se non si usa acqua, non c’è fermentazione…… stiamo parlando di caffè naturale?
Credo che sia bene approfondire ed avere una soluzione.
Provvedo e tornerò a momento opportuno.
Mi sento di paragonare questi sistemi di nuova generazione alla polleria.
Una volta il pollo era ruspante ed aveva carni sode con quel piacevole gusto di campagna.
Oggi di ruspante c’è soltanto l’azienda che produce i polli che non sanno più di nulla.
E, quando brandisci una coscia, in mano rimane soltanto un osso ben pulito e pronto da buttare mentre la polpa riempie le fauci.
Avremo così del caffè senza personalità e dovremo abituarci come facciamo con i polli?
Avremo anche chi continuerà a produrre tradizionalmente ed allora il prezzo subirà un aumento in concorrenza all’Eco.
E’ il cane che si mangia la coda.
I trasformatori avranno da correre ai ripari sino a quando il consumatore si sarà abituato a bere le ciofeche (se di queste si tratterà) che ne risultassero.
Non vedrei bene il futuro!
Ma se invece fosse un caffè naturale?
Allora la mancanza sul mercato di ottimo naturale verrebbe ad essere annullata e quindi dico che ben venga l’Eco processo (se trattasi di buon caffè senza difetti apparenti e degustativi). Ma non ne sono completamente convinto.
La prova in tazza sarà necessaria per determinarne l’impiego.
Certo che se penso ai caffè che venivano prodotti trent’anni or sono e li paragono agli attuali (Eco o non Eco) c’è da scriverci un romanzo.
E mi limito ai trenta perché quelli che provai nel mio giro del mondo di quarant’anni fa c’è da perdere la testa!
Non vi ho mai relazionato su quel mio viaggio fatto in compagnia dell’amico Franco, che ci ha lasciato tempo fa.
Ma presto comincerete a leggerle, a puntate, su Comunicaffè, tra un puntaspilli e l’altro.
Intanto attendendo gli sviluppi dell’Eco process e le risposte ai miei interrogativi.
E lascio ai lettori il dubbio di un prodotto innovativo e di facile reperimento.
IL PUNTASPILLI – Le Borse del caffè
Come si compra, che cosa si compra
Come scrissi nell’ultima, questa circolare avrebbe dovuto essere indirizzata sui vecchi nomi di torrefazioni ormai <estinte> ma che fecero il loro dovere sul mercato.
Almeno su quello Lombardo
Ma riordinare le idee e cercare nei cassettini della memoria quei nomi, quei personaggi all’inizio mi sembrava semplicissimo.
Non è così! Qualche nome ne è sortito ma nulla più. Ci vuole più tempo e provare a gettare delle basi su brogliacci che poi si tramuteranno in racconti più o meno esilaranti.
Allora ho deciso di dedicarmi a cose più serie che forse possono essere d’interesse a quei lettori che si affaccerebbero volentieri sul mercato dell’importazione per le prime volte.
Credo che iniziare dando dei brevi cenni alla storia delle importazioni in generale per arrivare alle
Borse ed ai tempi moderni possa essere interessante.
Ai tempi del Carlo Cutica – espressione lombarda che determina un periodo preistorico – gli acquisti dei torrefattori erano più facili perché si appoggiavano quasi esclusivamente ai commercianti locali. I rifornimenti dei commercianti avvenivano con importazioni mirate su quelle qualità che avrebbero dato delle garanzie e principalmente fatte presso dei traders Inglesi, Olandesi, Francesi, Belga e Svizzeri.
Mentre con gli Svizzeri avevi più origini a disposizione, con gli altri Nord Europei era più facile approvvigionarsi con qualità derivanti dai loro domini. Il Belgio per il Congo. La Francia per il
Cameroun, la Costa d’Avorio, l’RCA ecc. L’Inghilterra per il KeNew Yorka, Uganda, India ecc. L’Olanda per l’Indonesia.
Gli Svizzeri si presentavano generalmente con tutto il resto del mondo caffeicolo.
Quindi l’importatore, tramite principalmente un Agente, si riforniva laddove aveva più interesse ad acquistare non tanto per il prezzo in quanto a qualità.
Ai primordi i caffè di Vitoria e Rio venivano consumati a piene mani sia nel Sud che in qualche località del Nord. Del Robusta non se ne conosceva neppure la semenza!
Il primo Robusta che veniva importato e che andava gradatamente a sostituire i Vitoria e Rio, fu l’Uganda Faq (fair avarage quality – giusta qualità media) seguita dall’Indonesiani che venivano offerti con la semplice dicitura di impurità (Indonesia 10/12% Indonesia 20/25% e così via, con la provincia di appartenenza come Bali o Sumatra) in seguito fu adottata la sigla EK per tutti.
Allora gli ordini minimi erano di 5 tons da 1000 chili. Naturalmente scrivo delle qualità che più ebbero mercato.
All’improvviso giunse, tramite il Sig. Bonheur (mi scuso se sbaglio la compitazione del nome) che ne aveva l’esclusiva, il Congo Robusta sotto la marca CAFECONGO che con i suoi tipi N2A e W2B principalmente, diede una svolta decisiva al mercato dei caffè Robusta. Non menziono gli altri tipi che ebbero buon uso fra i torrefattori perché la classifica è lunga.
Cambiò anche il modo di acquistare. La Cafecongo introdusse l’acquisto in sacchi e non più in tons che comunque l’Uganda mantenne anche se ne andava scemando l’uso.
Era il tempo che le merci venivano imbarcate alla rinfusa e le “litigate” con gli Spedizionieri (coloro che seguono tutt’ora gli sbarchi per conto degli importatori) erano quasi sempre sulle spese delle stallie, controstallie e passaggi in chiatta (la merce dalla stiva veniva prima sbarcata su una chiatta e poi trasferita nei magazzini) per quanto riguarda il Porto di Genova allora forse l’unico porto attrezzato per il caffè. Quindi gli imbarchi minimi all’origine erano di 125 sacchi del Brasile e anche 50 dai Centrali (rammento di aver convinto l’amico Font di Santo Domingo ad imbarcare 25 sacchi – allora di 75 chili netti – per una prova). Con l’avvento dei containers oggi siamo con minimi di 320 dal Brasile, 275 dai Centrali e 300 da India ed Africa.
Ecco che il commerciante si sostituiva all’origine: prima appoggiandosi ai Traders Nord Europei e poi acquistando direttamente o tramite Agenti i lotti interi alle origini.
Negli anni 50 si affacciò sul mercato italiano la Ditta Hofer di Lucerna per la prima volta con offerte di Haiti prima e di Colombia poi, basate sulla Borsa di New York.
Fino a quegli anni il nostro mercato era cosciente dell’esistenza delle Borse di Londra, di Le Havre e di New York che quotavano le previsioni di mercato ma, non avendo possibilità di concorrere alle coperture, non davano peso alle oscillazioni minime che si verificavano.
I Traders del Nord Europa si appoggiavano esclusivamente a quegli enti e variavano le proprie quotazioni a secondo dell’andamento sia del mercato dì origine che delle fluttuazioni borsistiche.
Praticamente è ciò che si verifica oggi con la variazione dell’interessamento da parte dei nostri operatori a verificare quotidianamente, se non continuamente, l’andamento dei prezzi di Londra e New York.
Londra era esclusivamente per i Robusta e quotava in Sterline. Oggi aperta anche agli Arabica e si è adeguata alla valuta americana. New York invece, con il contratto “C” da gli andamenti del solo arabica.
Rammento che mio padre mi diceva che la quotazione (quindi l’acquisto) in Borsa era, per gli ope- ratori, un’assicurazione. Cioè che uno svizzero comprava (sulla carta fino alla scadenza) un lotto di caffè su NEW YORK per coprirsi da qualsiasi evento ordinario e straordinario e non correre rischi con il prezzo di acquisto all’origine. Allora le variazioni erano minime. Con eventi straordinari, tipo gelata brasiliana, si potevano (avendo oggi portato le piantagioni del Santos principalmente nel Cerrado dove le temperature non rischiano di sovvertire la maturazione delle ciliegie) avere grandi rialzi e altrettanti ribassi nel calcolo preventivo del raccolto successivo. E’ un meccanismo naturale sia della domanda e dell’offerta che di eventi extra umani.
Con l’avvento dei fondi di investimento che prendono di mira tutte le materie prime del mondo falsando così le previsioni degli analisti e degli addetti ai lavori, la politica dell’assicurazione, secondo me, salta.
Fondi di investimento e previsioni di raccolti sono una miscela esplosiva che getta benzina sull’in-
candescenza del corretto andamento di mercato. Compri a 100 e ti trovi a 60 dopo un giorno. Cosa puoi fare? Correre il rischio di attendere una ripresa oppure cedere e ricoprire più avanti? Oppure
perdere quello che c’è da perdere a saluti al secchio? Solo i grandi investitori hanno la sfera di cristallo. Gli operatori della giornata, gli acquirenti da supermercato, quelli che non desiderano lasciarci tutte le piume, fanno l’aretino Pietro!
Allora come comportarsi per gli acquisti?
Di consigli c’è piena l’umanità! Ma quelli buoni sono sempre meno frequenti e non sempre scaturiscono in un vicolo carrozzabile! Quelli cattivi si moltiplicano frequentemente vuoi per invidia, vuoi per depistaggi, vuoi per cattiveria, vuoi per noncuranza. Insomma se un operatore è coscienzioso e non si monta la testa, può organizzarsi con le proprie capacità che si affinano con l’andar del tempo. Per un torrefattore un consiglio d’amico è quello di fare sempre la media. Per la miscela abbisogna di caffè che non superi l’XY di prezzo per avere la media che dia esito positivo sul torrefatto, si metta alla ricerca di quel tipo che gli consente l’operazione oppure attenda con pazienza il momento giusto. Altri consigli posso solo darli sulle qualità ma non vorrei essere troppo di parte e quindi mi astengo fino a che non vedo che un bellimbusto riesce a vendere il piombo al posto ed al prezzo dell’oro!
Ma torniamo sul sentiero principale.
Per l’Italia le operazioni in Borsa sono ancora tabù quindi gli acquisti sono sempre appoggiati o ai Traders o direttamente presso i produttori o esportatori che a loro volta ricorrono alle borse per determinare il prezzo.
La quotazione in borsa si determina con la domanda e l’offerta, le condizioni climatiche e i raccolti previsti, gli interventi d’acquisto o vendita, le notizie vere o fasulle, il mal di pancia del Presidente dell’Associazione Esportatori o il raffreddore del Segretario di Stato….. e tutto un ribollire di cose che mettono in forse la verità sacrosanta. Difficile trovarsi nel mezzo di questo ciclone senza avere dei salvagente che ti permettano di sopravvivere.
Se coprendo in borsa un operatore è obbligato al quantitativo stabilito (250 sacchi per tipo), l’acqui- sto presso un Traders ciò è evitato. Ogni Traders avrà certamente un quantitativo minimo di cessio- ne che potrebbe anche essere inferiore allo stabilito dalle Borse.
Un neofita potrebbe chiedersi come si può valutare un arabica dalla quotazione di Borsa sapendo che hai dei lavati Centro Americani o dei Naturali Sud Americani che nei listini vengono distinti in modo da far notare le differenze di prezzo.
Spiego.
Un naturale (che non deve essere per forza un brasiliano ma altro Arabica quale l’Indiano o l’Ecuador o il Peru ecc.) avrà il prezzo ricavato dalla Borsa di NEW YORK secondo il mese quotato in relazione alla posizione d’imbarco o di disponibilità e un differenziale positivo o negativo secondo la qualità, origine ed imbarco. Ecco che questo fa la differenza.
Un esempio: le offerte Brasile naturale per un caffè commerciale (cioè il tipo di Santos che normalmente viene usato nelle miscele italiane) possono avere un differenziale di 10/12 dollari
meno della borsa, mentre un Brasile semilavto o lavato andrà alla pari. Un Costa Rica, che è considerato un arabica superiore ad un Brasiliano anche lavato, quoterà a più 20/25 Un Guatemala Antigua (secondo la marca) andrà anche a più 40/50 dollari. Sono solo esempi che non devono essere considerate quotazioni correnti, sia ben chiaro.
E’ conosciuto che la Borsa NEW YORK quota Marzo-Maggio-Luglio-Settembre-Dicembre. Se interessa conoscere il prezzo di un imbarco Gennaio/Febbraio si dovrà agganciare al Marzo, qualora la offerta prevede un Maggio/Giugno d’imbarco, il referente sarà il Luglio. Per la merce disponibile in porti italiani e/o flottanti, ci si riferisce al mese NEW YORK più vicino al mese di consegna della merce. Siamo in Novembre, le quotazioni si riferiranno al Dicembre. In Dicembre andremo su Marzo. Tutto se la vendita prevede la consegna Novembre nel primo caso, e Marzo se si prevede o il Dicembre o il Gennaio o il Febbraio nel secondo.
Sappiamo che le quotazioni NEW YORK sono per 100 lbs e normalmente sul mercato internazionale le offerte sono per 50 kg. Come si giunge al prezzo d’acquisto o di offerta?
Prendiamo la quotazione Brasile a meno 10 per ritiro Gennaio 2009 o derivante da imbarco dall’origine in Dicembre 2008. La quotazione Marzo a NEW YORK è a 124.00 per 100 lbs. Riduciamo questi 124 dei 10 punti di differenziale ed avremo i 114,00 sempre per 100 lbs. Per ottenere il prezzo per 50 kg. si moltiplicano i 114.00 per un numero fisso che è 1.10231 e si otterrà cosi un
125,70 (arrotondato per eccesso) a questo il venditore (se è un Trader) aggiungerà le spese di
nolo, assicurazione, sbarco, magazzinaggio, utile ed interessi . A queste condizioni un torrefattore italiano potrebbe acquistare anche 50 sacchi dall’offerente. Qualora invece un torrefattore italiano acquistasse un lotto intero (275 sacchi per i Centro Americani – 320 per i Brasiliani – 300 Indiani)
reso FOB porto d’imbarco dovrà aggiungere al costo iniziale di 124,70 le spese che dovrà sostenere per portarlo in Italia e cioè nolo, assicurazione, sbarco, magazzinaggio, calo peso, IVA e quant’altro sia inerente ad una importazione.
I sistemi di chiusura prezzi sono:
a) Sellers call (chiamata del Venditore) – in diretto contatto con il Compratore vedendo il momento
opportuno per chiudere in Borsa, stabilisce nel momento stesso il prezzo quotato.
b) Buyers call (chiamata del Compratore) sarà il Compratore a stabilire la chiusura sull’andamento
della Borsa. E’ il sistema meno usato per evidenti motivi.
c) al momento dell’acquisto. Ciò avviene principalmente sugli acquisti presso i Traders per merce
disponibile e/o flottante e/o d’imbarco al prezzo Borsa nello stesso momento dell’ordine sul mese
successivo all’acquisto. Se il differenziale praticato dal Venditore è basato <in store> oppure <ex
store> il Compratore non avrà da aggiungere altre spese. Se invece è CIF dovrà aggiungere le
spese di sbarco. Se FOB vale quanto scritto più sopra per vendite a tali condizioni.
Sarebbe bene che il Compratore, al momento dell’acquisto di merce già sbarcata o merce flottante ma offerta come se fosse sbarcata, chiedesse le condizioni esatte perché fra <in store> e <ex store> ci passa qualche spesuccia di differenza. Necessita specificare che al momento della pesatura tre sono le sequenze della stessa e cioè:
spilaggio
pesatura
riapilaggio
<IN STORE> – 1 – 2 – 3 sono a carico del Compratore
<EX STORE> – 1 – 2 sono a carico Venditore – 3 a carico Compratore
(notizie gentilmente comunicatemi dalla SpA ROMANI & C di Genova)
La chiarezza innanzi tutto.
La qualità del prodotto è da tenere in in grande considerazione. Non tutti i Venditori sono onesti nel dichiarare l’effettiva qualità venduta. Ho avuto occasione di sapere che un commerciante italiano ha fatturato e consegnato del Robusta Indiano di classifica inferiore dichiarandolo di classifica originale anche dopo di rimostranze del Compratore che non era convinto della qualità. Il controllo
effettato dava ragione al Compratore che, avutane la certezza, non ha protestato ma ha dichiarato di aver depennato il nome del commerciante dalle rubriche!
Bisogna stare molto attenti.
Anni or sono lo scambio delle tele era più facile perché le differenze di prezzo dei caffè, specie nei
Centro Americani, erano sostanziose.
Quanto Nicaragua o Indiano Plantation entrò nelle tele del Guatemala o del Costa Rica!
Mi trovai a non poter competere all’acquisizione di un nuovo Cliente perché il caffè che lui comprava da un unico fornitore, era ineguagliabile. Vidi i caffè che acquistava. Persino l’Hawaii
era falsificato (allora la differenza di prezzo fra un Hawaii ed un Costa Rica era di 20/25 dollari per 50 chili). Era tutto Ecuador naturale (per il Santos ed Haiti) ed Ecuador naturale lavato a Trieste con
varie sfumature del verde, per il Costa Rica e Guatemala. L’Hawaii non era altro che Ecuador trattato a Trieste e crivellato per ottenere solo chicchi più grandi. Quando presentai i campioni dei tipi di caffè che invece avremmo potuto consegnare noi, quel Signore ci tolse anche il saluto durante le ore al Mercato Coloniali che si tenevano il mercoledì e sabato di ogni settimana.Prendeva delle fregature ma era convinto di avere i migliori caffè del mondo. Era becco e bastonato ma contento! Se solo avesse avuto il coraggio di fare delle prove in tazza e capirne di caffè…… si sarebbe accorto della poca serietà del fornitore!
Un altro commerciante italiano per fare l’ordine di 100 sacchi di Haiti Reinbold (ai tempi era un Caricatore che faceva premio sugli altri come Usman o Madsen o Vital) pretendeva che il caffè fosse insaccato in doppia tela e che la tela interna fosse marcata con le stesse marche e numeri dell’esterna. Con mio padre decidemmo di non accettare. Se fosse arrivato quel caffè spogliato della prima tela la stessa sarebbe stata riempita con dell’altro caffè naturale di gran lunga inferiore sia di qualità che di prezzo del Reinbold. Ne sarebbero sortiti 200 sacchi di Haiti Reinbold!
Sono condizioni alle quali si può rispondere solo con la conoscenza e quando ci si accorge di essere stati presi in giro, sarebbe bene che il fornitore fosse messo alla gogna e espulso dalla lista dei forni- tori. Invece si vede che continuano a vivere e dare fregature!
Resto a disposizione per qualsiasi richiesta che si voglia fare sull’argomento.
Sergio Morando
Se il Corriere della Sera si occupa di caffè
i chicchi buoni rimbalzano
e ho visto gli gnomi giocare a basket
Uscito martedì 17 marzo
Mi hanno insegnato che, prima di scrivere cose d’interesse generale e che, per essere sicure, sarebbe bene prendessi delle informazioni da chi ne potrebbe sapere più di me specialmente se trattasi di temi tecnici e sono uno che di caffè ne ha visto, macinato e digerito per qualche anno.
Nel mio piccolo riesco a trovare, fra le righe di articoli sul caffè, anche baggianate che un giornalista non dovrebbe scrivere appunto perché prima si dovrebbe informare e non scrivere.
Non vi stupite se il sottotitolo riporta la mia visione di gnomi. Li ho visti, forse solo immaginati, nel leggere, su MAGAZINE del Corriere della Sera del 12 Marzo 2009, l’articolo di Sara Gandolfi.
Il titolo in copertina mi ha fatto venire in mente altro prodotto, il cacao, protagonista in tv di una vecchia trasmissione di Renzo Arbore: Caffè meravigliao.
E, per chi non ha avuto il <piacere> di munirsi del Corriere quel giorno sintetizzo i passi che ritengo meno adatti per chi conosce il prodotto.
L’inizio non rivela nulla di nuovo.
Racconta cose ripetute tante volte dagli storici ai frequentatori di bar: come è stato scoperto, chi furono i primi degustatori, dove si aprì il primo negozio, ecc. ecc.
D’altra parte da qualche cosa bisogna iniziare.
Ma è la continuazione che lascia perplessi.
Per esempio quel riquadro dove appare un ramo con le foglie del caffè e con sotto questa indicazione: pianta della famiglia delle Rubiacee, il caffè dà frutti rossi, simili a ciliegie. Tra 80 varietà, le principali: Arabica, Robusta,Liberica, Excelsa (con le loro descrizioni).
Naturale che le varietà non siano quelle indicate.
Le varietà non sono quelle indicate perché in realtà sono il Bourbon, il Mundo Novo, il Caturra, il Catimor ecc.: tutte varietà derivanti dal genere Arabica.
Mentre dal genere Robusta si hanno le varietà Kouillou o Typica e Nisouli.
Dagli incroci delle varietà dei generi Arabica e Robusta si sono ottenuti sia l’Arabusta che l’Icatu, ancora in fase sperimentale.
Dalla pianta al seme.
Altro trafiletto con disegnino di tre ciliegie (chiamiamole così) con le spiegazioni del raccolto: con il picking, a mano, in cui i frutti sono scelti a uno a uno. Con lo stripping, in cui il ramo viene sgranato ed i frutti cadono in terra da dove vengono raccolti a macchina.
Regola: se un chicco, buttato a terra, rimbalza è buono.
Prima di altro vedo la Regola se i chicchi rimbalzano è caffè buono.
E veniamo ai rimbalzi dei chicchi.
E’ stata per me una notizia bomba. Mai avrei pensato che un chicco di caffè buttato in terra avesse la forza di rimbalzare. Ecco come ho visto (o solo immaginato) gli gnomi giocare a basket.
Mi sono permesso di fare la stessa domanda al mio solito amico del Costa Rica e la risposta è:
<E’ un nuovo compito che mi dai….. valutare il rimbalzo per determinare la qualità>.
E questa dovrebbe essere sufficiente.
Penso che l’indicazione <in terra> valga per qualsiasi luogo e non per vera terra dove neppure una palla riuscirebbe a saltare: sotto le piante di caffè non c’è cemento o marmo ma solo terra umida.
Ma se la notizia è pubblicata dal Corriere della Sera non può essere che veritiera.
Ho consigliato l’amico (come farò io) di prendere qualche chicco che ha in serbo per il suo consumo personale e buttarlo in terra (non viene indicata la forza con la quale necessita vedere i rimbalzi) e controllare se effettivamente accade ciò che viene divulgato.
Però, prima di cimentarmi nei rimbalzi, ho fatto una cosa che mai mi sarei sognato di fare nemmeno negli anni dedicati esclusivamente al caffè: pesare il caffè e controllare quanti chicchi ce ne potrebbero essere in un sacco da 60 kg.
Non ho versato il contenuto di un sacco in terra per poi fare picking. Su un bilancino per la posta (quindi una precisione da dimenticare) ho pesato 10 g. di Arabica cr. 16/17 e del Robusta lavato cr.15 e ne ho dedotto che, più o meno mescolando le due varietà ne è risultato che in un sacco da 60 kg potrebbero esserci da 462.000 a 480.000 chicchi circa, anche su i tecnici sanno che i quantitativi per sacco dipendono dai pesi specifici dei caffè, dalla natura e dalla lavorazione degli stessi.
A questo punto ho immaginato quei poveri peoni che, per trovare i chicchi di buon caffè, devono farli saltare uno per volta. Provate a farlo con solo 50 chicchi e noterete quale preparazione atletica è necessaria per un sacco da 60 kg.
Dopo questa prova <di forza> vengo alla Regola.
Perché definirla Regola quando è impossibile per ciascuno di noi fare quello che dovrebbe fare un peone: sarà solo una prova e non regola!
Ma non voglio essere da meno e prendo qualche chicco di Arabica e altrettanto di Robusta per farli rimbalzare (se rimbalzeranno) e posso anche aggiungere che trattasi di caffè molto buono che tosto per berlo in famiglia.
In casa ho in cucina il lavandino ligure, quello di marmo e nel <buttare> i chicchi mi sentivo tanto numismatico che prova se le monete d’oro sono fasulle o appetibili.
Ho preso 5 chicchi di Arabica Naturale (Sul de Minas BSCA), 5 chicchi di Robusta Lavato (Guatemala) e 5 chicchi di Arabica Naturale compresi due black-beans (Guatemala che la prova in tazza ha dato esito negativissimo). Sono rimbalzati tutti come grilli. Anzi un black ha fatto un salto che mi è caduto sul pavimento (screziato bianco e nero) e non sono più riuscito a trovarlo:
Chi legge capisce che i grani neri sono fra i chicchi più cattivi…… ma il Corriere della Sera comu- nica che invece sono buoni. Perfetto.
Allora a questo punto mi sento di ridere per la presa per i fondelli da parte di chi ha avuto il buon gusto di mettere la giornalista sulla cattiva strada e vorrei invitarlo a <regolamentare> i salti dei chicchi buoni e cattivi. Ci faremo un’esperienza.
Ma in questa trafiletto non è l’unica notizia fenomenale.
Stripping non vuol dire buttare le ciliege a terra e raccoglierle da terra meccanicamente.
Con lo stripping le ciliegie rosse, verdi, gialle, nere e le foglie vengono gettate in contenitori (normalmente sono ceste) che i raccoglitori portano a tracolla.
Si usa in Brasile ed in Australia, dove le piantagioni sono pianeggianti, i macchinari che fanno lo stripping scotendo i rami e raccogliendo i frutti nei contenitori delle macchine.
In terra non si raccoglie niente. Probabile che vengano presi dai raccoglitori per uso personale.
Sono cattive?
Ma chissenefrega!
Il Corriere ha scritto che si raccolgono….. e basta!
Vorrei che provassero a tostare e quindi bere i chicchi contenuti in quelle ciliegie <atterrate>! E’ probabile che, non capendo poco di crudo, sappia ancor meno di tostato. E’ un po’ come l’altra notizia che riporta come fosse un oracolo: …… e se in Arabia, dove ancor oggi, si coltiva uno dei più buoni caffè del mondo, l’Arabian Mocha.
Sarebbe stato sufficiente avesse scritto, escludendo quel dove ancor oggi, dove si coltivava uno dei migliori……
Vorrei che la giornalista, se capisce qualche cosa di caffè come di polli, avesse avuto l’opportunità di degustare questa eccellenza in tazza. Probabilmente ne sarebbe ancor più entusiasta.
Io, che lo provai cca 6 anni or sono, non riuscii a deglutirlo.
La differenza fra un caffè eccellente di produzione anonima e il suddetto Mocha è la stessa che esiste fra il gusto di un pollo di batteria ed uno ruspante! I gusti sono cambiati e il ruspante verrebbe escluso dalla maggioranza dei consumatori.
Invito a provarci e meditare sulle eccellenze!
Ma vorrei anche invitare tutti quelli che desiderano cimentarsi nel raccontare di caffè in qualunque forma, prima di cominciare, di approfondire la materia per non scrivere cavolate che possono involontariamente depistare il lettore che non s’intende dell’argomento.
Fra tanti lettori c’è chi non accetta certi comportamenti quindi, per non essere ripresi laddove la conoscenza del fatto è un’opzione, interpellare, consultare, leggere e ripetersi continuamente la lezione imparata, sono necessarie allo svolgimento esatto del tema scelto.
E’ solo un consiglio.
Chi rischia la magra non è solo chi scrive ma pure chi le pubblica
Ed il rischio è quello di perdere credibilità
Sergio Morando
IL PUNTASPILLI – Scrive Sergio Morando
In Centro America la produzione cala e salgono i prezzi
Tiene soltanto il Brasile ma soltanto per la quantità
Vi racconto un filmato che spiega perché la qualità precipita
E in India la pioggia ha spazzato i fiori dalle piante
Uscito il 23 febbraio 2009
Sono rimasto al tea e dopo parecchi giorni di averci rimuginato sono venuto nella determinazione di continuare e finire questa storia aggrappandomi al pezzo sul Corriere della Sera dell’8 dicembre scorso che Comunicaffè ha ripreso.
Non so se è stato un avvertimento che la cosa era stata portata avanti da altri e che ne ho tratto lo spunto per copiare ed esprimere il mio pensiero oppure solo per avvertirmi che l’argomento era stato già dibattuto.
Ha comunque fatto bene a ricordarlo.
Volevo solo puntualizzare che il sottoscritto non sopporta il Corriere della Sera.
Che le due persone indicate per me sono estranei……. alla Don Abbondio.
Che nessuno dei parenti o amici mi aveva sottoposto l’argomento sapendo le mie ex tendenze commerciali.
E per finire che quello stesso giorno venivo ricoverato in ospedale e garantisco che non avevo il desiderio né di leggere un qualsivoglia quotidiano nè PlayBoy anche se mi fosse stato presentato con “l’arcivernice lambicchi”.
Quindi il mio pezzo è stato esclusivamente frutto della mia materia grigia.
Chiuso l’argomento tea, torno al caffè.
Questo è un periodo di grande titubanza.
Non si capisce se i Paesi produttori sono con gli stocks agli sgoccioli oppure aspettano che la Borsa si ravvivi e porti maggiori utili nelle casse degli Esportatori.
Già i differenziali hanno subito un incremento.
Siamo all’inizio delle consegne e non credo che il raccolto 08/09 sia già stato venduto totalmente.
Naturalmente non tutti i produttori sono in queste condizioni.
Ho avuto questa sensazione dalle risposte che ho avuto dagli amici guatemaltechi, costaricani e dominicani ai quali ho chiesto di segnalarmi le loro disponibilità attuali anche se abbiamo anche notizie contrastanti quali la riduzione dei raccolti.
Dal Guatemala dichiarano il 40% in meno.
Con due produttori di Robusta guatemalteco si sono conclusi affari al di sotto della normalità anche per il prezzo piuttosto elevato per questo tipo di caffè che viene quotato con differenziali da applicare sulla Borsa di N.Y.
Chissà che alla fine non si riesca a trovare qualche briciola così da incrementare le vendite.
L’Shb avrebbe raggiunto quotazioni importanti e non mi rendo conto come certi traders nazionali riescano a proporre lo stesso grado a prezzi inferiori.
E’ pur vero che il Semi hard bean, di due gradini inferiore al fratello Strictly hard bean, potrebbe essere indicato con lo stesso acronimo Shb ed i giochi sarebbero fatti.
Da San Domingo la musica non cambia.
Dei 12 container annuali che si collocavano senza colpo ferire, con questo raccolto non si riesce a concludere oltre i 5/6 container, quindi il 50%.
Naturalmente parlo di un solo esportatore.
Quando vidi in San Domingo le piantagioni abbandonate, mi si strinse il cuore.
D’altra parte coltivare un prodotto che non da soddisfazione economica e quindi qualitativa, non vale assolutamente la pena.
Allora una piantagione (produzione 3.000 sacchi) con annessa casa colonica (di quei Paesi) e relative spolpatrici e vasche di decantazione (tutto funzionante) poteva essere acquisita con una decina di migliaia di dollari.
Stavamo facendo un viaggio in quei Paesi che interessavano maggiormente e dove l’ottima accoglienza sarebbe stata garantita dall’amicizia che ci legava ai vari produttori.
Fra colleghi scherzosamente ci promuovevamo già produttori di caffè per il solo mercato italiano dandoci periodi di permanenza nella Repubblica Dominicana per seguire la filiera dalla pianta all’imbarco.
E finì tutto in una bolla di sapone.
Peccato.
Forse oggi ci gratteremmo in testa, ma sarebbe stato comunque un lungo periodo di conoscenza che pochi di noi oggi potrebbe vantare.
Bene ha fatto la Farnesina a promuovere l’operazione con Caraibici e Centroamericani.
L’unica speranza è che a giochi fatti la cosa non vada in mano a qualche brubru approfittatore che non vede al di là del vil denaro.
L’unico Paese che si difende è sempre il Brasile.
Aumentano le piantagioni, aumenta il raccolto, aumenta l’esportazione.
Peccato però che non si applichino di più a produrre del buon caffè.
Quando abitavo ancora a Milano ed ero operante nel settore, mi fu proposta un’intervista da parte di una troupe tedesca che avrebbe prodotto un cortometraggio sul caffè.
Non c’era nulla da perdere forse qualche cosa da guadagnare in immagine e, dato che la cosa mi veniva segnalata da un amico napoletano, accettai.
Fu una buona esperienza anche perché non ero obbligato a rispondere in lingua
estera.
Ho atteso quasi tre anni per avere il dischetto con il video e proprio in questi giorni ho avuto il piacere di visionarlo.
Ottimo lavoro.
Mi sono meravigliato di alcune sequenza in una piantagione brasiliana: la raccolta del caffè avviene con lo stripping e non con il picking.
E’ vero che in pianura (vedi Cerrado) la raccolta è meccanizzata e quindi equivalente allo stripping cioè “tutto fa brodo” e che tale operazione non è che faccia molto bene alla pianta.
E poi si vedono le ciliegie che vengono trasportate per gettarle nelle vasche di lavaggio.
I colori sono infiniti ed un addetto fa vedere quali sono le ciliegie che devono essere assolutamente eliminare, ma per questo propone solo quelle quasi nere.
E’ vero che con il lavaggio e la canalizzazione le grane immature (verdi), le nere (marce) tendono a stare a galla e quindi incanalate verso il loro destino che non sarà quello della commercializzazione internazionale, mentre quelle che resteranno sotto il livello (più pesanti) verranno utilizzate per i caffè lavati.
Ma se si tratta di caffè che verrà commercializzato come naturale, dopo la spietratura le ciliegie vengono direttamente essiccate al sole e lo spettro dei colori dovrebbe già dare il risultato finale in tazza.
Ed ecco che i caffè naturali non riescono più ad essere presi in seria considerazione se non in casi limite: non si avrà mai una tazza pulita.
Ho interpellato anche altri produttori di caffè naturale che era regolarmente offerto con risultati a volte eccellenti (vedi Salvador) o ben accettabili (vedi Guatemala) ma la delusione delle prove effettuate hanno dato risultati a volte disastrosi.
Purtroppo i produttori non vogliono capire che il caffè naturale (“sin lavar”, come lo definiscono) non si deve fare con gli scarti di produzione, detti anche “resacas” (vedi verdi, bruni ecc.) ma con ciliegie rosse che potrebbero venire selezionate per la produzione dei lavati (vedi Hg/Shg- Semi Hb/Hb/Sbh).
Forse allora non ci sarebbe più da ridire sulle consegne dei naturali che oggi, a volte, risultano imbevibili quando fatti con la macchina espresso.
Ultima notizia, avuta da amici appena rientrati da un viaggio in India, è che le piogge hanno fatto cadere i fiori del caffè riducendo drasticamente il raccolto di quel Paese.
Con un vantaggio che il poco che verrà prodotto ed esportato sarà buono.
Meno male.
Fra tante brutte notizie almeno che una ci scaldi i cuori, ma non so sino a che punto. Perché la mancanza di prodotto farà lievitare i prezzi – che già non sono a buon mercato – per trovarci alla fine con le fatidiche mosche nel pugno.
Sergio Morando
IL PUNTASPILLI – SCRIVE SERGIO MORANDO
Ma il mercato non premia sempre i produttori
Uscito il 24 dicembre 2009
E’ la prima volta in vita mia che ho deciso di seguire la Borsa NY giornalmente per ricavarne un articolo.
Ho proceduto segnandomi, in una apposita scheda, le variazioni che si susseguono.
Naturalmente le ore di visione non sono sempre uguali, ma il risultato è lo stesso: siamo in un mare di palta!
Colpa della recessione?
Se ogni volta che ci troviamo in queste condizioni dobbiamo chiedere aiuto a boccaglio e maschera per poter sopravvivere ad una nefasta situazione, siamo finiti male.
Lo spunto me lo dà l’amico che vive in Costa Rica.
Già proprietario di piantagioni di caffè nella Valle Centrale, riuscì a sbarazzarsene, con grande rimpianto, quando le cose andavano bene.
Mi scrive queste testuali parole: “….io sono contento di aver venduto Santa Barbara (la piantagione di cui sopra), pensa al prezzo di oggi…..una vera follia…. come si può sperare che ti producano del buon caffè…. impensabile a questi prezzi…… Stefano (produttore di caffè nel Coto Brus) piange come sempre ma continua: è un virtuoso!”
Sono parole di una persona che fu produttore in tempi meno sospetti e che ora vede le cose dal di fuori ma sul posto di produzione.
Vado alle quotazioni di Borsa tra la seconda decade di Ottobre al 26 Novembre basandomi solo su Dicembre e Marzo e vediamo che da un 115.05/ 118.10 del 23/10 siamo passati ai 115,10/118,00 della fine e ripreso a 118.00/122.05 del 3/11.
Si sono inframezzate le quotazioni a 110.50/113.90 – 114.25/117.25 – 116.00/119.00.
Il prosequio di Novembre va dai 116.60/119.90 ai 115.90/118.65 – 114.70/117.55 – 112.85/116.00 -111.25/114.05 – 115.20/117.15 cioè non ci sono impennate che lasciano allibiti.
Impennate che normalmente sono comandate dai fondi d’investimento e che nulla hanno a che vedere con le posizione dei raccolti.
Non potendo seguire le quotazioni alla fine di Novembre essendo fuori sede per motivi famigliari, mi accorgerò eventualmente di cose strane solo il primo di Dicembre al mio rientro.
Sembra, in questa altalenante situazione, che si aspetta qualche cosa che dovrebbe accadere.
Già si entrerà nelle stime raccolto dei Centrali che, accumulate ai Sudisti, daranno una situazione di previsione per 08/09 che insieme all’Africa (quasi fuori gioco), all’Asia ed alla recessione, potrebbero mettere in crisi categoria.
Se si pensa che soltanto qualche mese fa i nostri dirimpettai produttori avevano a disposizione ben altri prezzi sui quali giocare, oggi cosa faranno?
L’adeguamento credo sia una follia (come scrive l’amico dal Costa Rica).
Ed allora si rifaranno sulle qualità?
Già abbiamo delle esecuzioni che lasciano interdetti se queste dovessero peggiorare… non vorrei vedere l’orzo assurgere a bevanda nazionalpopolare!
Ed allora….. ben vengano i fondi!
Ma pure loro penso si stiano leccando qualche ferita lasciata anche dal petrolio.
La situazione è piuttosto ingarbugliata.
Fossi il Governo di un Paese produttore (per esempio il Brasile) bloccherei le esportazioni per qualche mese, come i petrolieri fanno riducendo la produzione di barili.
Non me ne vogliano i torrefattori ma personalmente sono a metà strada fra di
Loro e chi produce.
E’ giusto che entrambi guadagnino.
Non mi sta bene quando è una sola parte che ne risente.
Quindi…. nessun allarme, ma se effettivamente vengono bloccate le esportazioni…. sarà una bella lotta!
Sarebbero anche grosse gatte da pelare fra acquirenti e venditori.
Venditori che si troverebbero a non poter consegnare per il blocco.
Compratori che non saprebbero cosa gettare nel tamburo della tostatrice.
La categoria baristi probabilmente si salva perché nell’arco ha frecce che possono sostituire il caffè mancante, come il tea o l’orzo o altre calorose bevande.
Secondo me sarebbe meglio mettersi a tavolino e dare a Cesare quel che è di
Cesare.
Non essere egoisti e pensare che il caffè mantiene milioni di famiglie!
Do ut des! Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me!
“Contro un prezzo adeguato, mi devi dare un caffè valido”.
Pensateci per favore!
Sergio Morando
IL PUNTASPILLI – Scrive Sergio Morando
Ma al torrefattore italiano servirebbero ancora i naturali
Diffuso il 21 gennaio 2009
Questa volta l’input d’iniziare questo intervento mi viene dettato da un inciso che rilevo in un libro scritto dal mio amico Pro Schiaffino, dal titolo “Quando il mare racconta in prima persona” Pro Schiaffino, ex comandante del cargo
<La Nostra>, ora pensionato, si diletta a riportare le sue e le esperienze di amici marittimi, su tanti libri interessanti. Il passo è questo: <Il comandante era molto preoccupato per quella novantina di uomini che erano stati imbarcati come passeggeri, pensando che il viaggio poteva essere lungo e sapeva che a bordo uno dei più grandi pericoli per la gente è quello di non aver nulla da fare e che è difficile far passare le lunghe giornate e dormire tutta la notte quando non si è fisicamente stanchi>
Il leggero rollio. Lo sciabordio. Il lento ronfare delle macchine. Il ticchettio di una catena in bando. Il sinistro cigolio delle lamiere. Sono rumori che a bordo o ti tengono sveglio tutta la notte sino a quando non ti rendi conto di averci fatto l’abitudine e crolli sotto il peso delle palpebre oppure riesci a pensare a cose che dovresti fare al momento dello sbarco così che il sonno ti prenda nelle sue spire.
In ospedale (dove ho passato 35 giorni compreso Natale e Capodanno) i rumori sono diversi: il lamento del vicino che soffre le pene dell’inferno; il russare di un altro: le sveglie notturne e mattutine per i prelievi, le temperature, i cambi di flebo, la prima colazione. La notte hai tempo di pensare mentre di giorno cerchi il recupero a tutti i costi.
In quei momenti il mio pensiero andava molto spesso a Comunicaffè e vagavo alla ricerca di argomenti da proporre al mio rientro alla vita normale. Ne ho individuati due che spero abbiano buon successo e seguito.
Quando in ospedale dicono <dieta idrica> (da me ribattezzata dieta idraulica!) vuol dire che non hai diritto a nulla se non ad acqua minerale naturale e un liquido che va dallo scuro al chiaro (dipende dal preparatore) battezzato tè. Per riuscire a variare questa dieta si cerca di integrarla privatamente con bevande che abbiano una diversa presenza ma che non si discostino troppo dal tran tran ospedaliero.
Ed è qui che mi è scattata la molla del primo intervento.
Nella bottiglietta di plastica trasparentissima, alberga un liquido di un giallo paglierino che se non fosse una bevanda sigillata potresti confonderla. L’etichetta riporta una rondinella che svolazza sopra la dicitura THE.
La composizione del liquido lascia molto a desiderare. Non ha nulla a che vedere con quanto descritto.
Neppure il limone (che dovrebbe farsi sentire con la sua acidità) viene localizzato. E’ molto dolce….. dolce attira dolce e penso sia nella mente dei produttori far si che di intruglio se ne faccia grande uso.
Ma quello che mi ha reso la bevande più intollerante è quel THE che ha così declassato un delizioso break ad un articolo.
Ma cosa avevano in testa i pubblicitari, i grafici e i proprietari quando decisero di usare l’articolo invece del semplice TE’ oppure TEA? Secondo me pensavano di prendere per i fondelli i consumatori. Ed ora però abbiamo una varietà di traduzioni da sfruttare: IL, LO, LA, LE, I, GLI….. che bello essere liberi di scelta!
Ma ancor meglio sarebbe presentarsi a Londra in un drugstore e al “Do you like?” rispondere “The the” oppure “A the” – “One the” Che cosa possono capire poveri incoscienti londinesi! Noi veniamo dall’Italia e nel Bel Paese il tea lo chiamiamo the. Cosa c’è di male?
Ma possibile che da noi si riesca a deviare su cose così banali?
Al rientro leggo i Comunicaffè che attendevano di essere catalogate e mi trovo che pure qui l’inglesissimo TEA diventa THE. Ma allora sono io che non capisco niente?
Il secondo intervento lo recupero alla radio. La radio con cuffia, è il passatempo sia notturno (quando non riesci a prender sonno) che diurno quando vuoi estraniarti dal vocio dei visitatori. Ascolti musica. Lo sport.
Le conferenze. Tutto è buono per renderti <invisibile>. Naturalmente gli interventi pubblicitari potrebbero essere un deterrente e infastidire ma ce ne sono così tanti che è inutile cambiar canale o stazione. I pannolini, l’acqua minerale, i telefonini, i purganti ti martellano ovunque. Tanto vale seguire ciò che interessa e far finta di nulla sulla pubblicità.
Una di queste però ha attratto la mia attenzione perché mi ha riportato indietro di tanti anni: la pubblicità sul TOM-TOM.
Negli anni 60 ed oltre chi comandava in Haiti era un despota nominato <papà Doc>. Quale negriero e padrone assoluto della vita dei suoi sudditi, per la sua difesa personale ebbe a costituire una sua polizia privata che veniva chiamata <TOM-TOM-MACUT> (non so se la scrittura è giusta………. l’importanza è la giusta pronuncia).
A Port-au-Prince esisteva allora un rione, posto su un’altura (devo riferire quanto mi dicevano allora poiché ad Haiti mai ci misi piede), dove i big costruivano le proprie abitazioni che per raggiungerle costringevano il transito su una strada privata. I brutti ceffi dei <tomtommacut> si piazzavano all’inizio di detta rue e <convincevano> tutti i passanti ad un esborso in dollari USA (non quantificabile).
Il mancato pagamento….non era concesso.
Erano i tempi d’oro del caffè Haiti. Chi visse ai tempi e usò questo caffè ricorderà quale importanza dava alle miscele. Veniva classificato con le <ics> (e non stars come qualche buontempone si divertiva ad imbrogliare le carte) XX – XXX – XXXXX quindi due,tre,cinque ics. Il XXXXX non era bello a vedersi: colori vari si mescolavano dando l’impressione che in tostatura l’arlecchinata era garantita.
Invece era quasi omogeneo. Di questo tipo il chicco risultava schiacciato e spaccato, caratteristica dovuta all’operazione di decorticazione che avveniva nell’aia sotto gli zoccoli dei muli. Ogni famiglia aveva quelle poche piante che davano loro da sopravvivere e di macchinari non ne esistevano quindi lavoro animale e manuale.
Gli esportatori che acquistavano da queste famiglie, poi provvedevano alla selezione e marcatura secondo crivello.
Il XXX era quello più regolare nel colore mentre il XX poco usato nelle miscele per un crivello al di sotto dello standard richiesto dai consumatori finali, veniva dirottato sui macinati.
Allora i nomi di Reimbold, Madsen, Usman (acronimo di Usine-à-manteque =
Fabbrica di burro), Vital, Wiener (fu l’ultimo a <mollare il mazzo> e inviare sul mercato italiano, pochi anni or sono, qualità che lasciavano molto a desiderare ma che andarono comunque a ruba per il solo desiderio di inserire ancora una volta l’Haiti naturale nelle miscele….. dei risultati non ne ho avuto notizia), Novella, Baptiste, Bombace imperavano sul mercato sia con gli standard che con specialità tipo ROLLA, REIWA, DONDON, KOMET ecc. Che bei caffè! Dove siete finiti?
Perché non tornate a deliziarci? Che fine hanno fatto gli Esportatori?
Hanno disertato e fuggiti dalle angherie del figlio di papà Doc?
Rammento che Haiti era l’unico Paese che produceva le grane <bluish> naturali. Venivano selezionate ed esportate sotto marche diverse a secondo del proponente. Sembravano ambra blue trasparente. Fantastiche. Data la produzione limitata il costo era adeguato ma la resa ne motivava il prezzo superiore.
Anche se di produzione di gran lunga inferiore ai bluish, si poteva trovare qualche lotto di <BB CRUSHED>……
Altra specialità. Erano tutti chicchi uguali di crivello. Color paglierino e spaccati ai vertici. Delizia del palato!
Che sogni! Oramai anche in questa parte dell’Hispanola il caffè viene coltivato con più interesse che una volta.
Un solo esportatore provvede a raccogliere in cooperativa ed inviare sui mercati che hanno avuto l’intuito di proporsi quali esclusivisti. L’Italia, per il momento, è tagliata fuori. D’altra parte le nuove coltivazioni non so se possono sostituire i vecchi standard.
La realtà è che, secondo un mio personale giudizio, il torrefattore Italiano necessiterebbe, per le miscele bar, di caffè naturali. Allora, oltre all’Haiti, si poteva correre ai ripari con l’Ecuador, con l’India, con l’Ethiopia El Salvador e principalmente con il Brasile che ancora non aveva <inventato> i descascados ed i lavados. Mancando l’Haiti i sostituti Ecuador ed India sono praticamente imbevibili.
El Salvador ha perso quelle piante autoctone (chiamate “arabiga”) che davano i frutti giusti per la preparazione del miglior naturale del mondo. L’Ethiopia è orientata sui lavati lasciando la bandiera del naturale al Djimmah 5 che non tutti riescono ad inserire in miscela avendo un retrogusto selvatico che può dare molto fastidio. Oggi tutti si orientano sui lavati perché il maggior consumatore al mondo (USA) richiede i lavati ed anche perché, secondo quanto ci dicono, la preparazione di un naturale è più costosa di un lavato. Crediamoci!
Secondo me i produttori non hanno la volontà di applicarsi a produrre il naturale. Abbiamo provato a dare istruzioni (da veri incompetenti!) per ottenere il meglio. Purtroppo i nostri <insegnamenti> sono andati elusi e i risultati pessimi!
Non ci resta che insistere sperando di trovare la controparte interessata ad un nuovo mercato che vedo in positivo per tutti.
ORTOGRAFIA – Thé, the, tea o té?
Al tema dello ortografia della parola thé era dedicata una risposta nella rubrica delle lettere del Corriere della Sera, tenuta dall’ambasciatore Sergio Romano, lo scorso
8 gennaio.
Il «tea» delle cinque
Caro Romano, potrebbe spiegarmi perché la famosa bevanda che noi chiamiamo «te» (ci vuole un accento sulla e?) e gli inglesi «tea» (pronuncia «ti») qualche industria di casa nostra, anche prestigiosa, e molti esercizi pubblici insistono a indicarla scrivendo «the»? Mi sorge il dubbio che si tratti di un tragico e grottesco malinteso che ha indirizzato la scelta di questa ortografia in ricordo dell’ articolo determinativo «the», proprio per essere quanto più inglesi possibile.
Ma tutti sanno che «the» in inglese si pronuncia quasi «d», con la punta della lingua tra i denti. Sfido chiunque ad entrare in un bar e guardare la faccia del barista dopo aver chiesto: «Mi dia un “d”».
Domenico Guerrieri
Napoli
La forma «the» è di origine francese ed è ancora di moda soprattutto nelle vecchie generazioni. I dizionari italiani preferiscono té o tè. Gli inglesi usano «tea» perché sono spesso più latini di quanto non siano i popoli latini del continente. Il nome latino del tè, nelle classificazioni scientifiche, è infatti «thea siniensis».
IL PUNTASPILLI – Scrive Sergio Morando
Ma al torrefattore italiano servirebbero ancora i naturali
Questa volta l’input d’iniziare questo intervento mi viene dettato da un inciso che rilevo in un libro scritto dal mio amico Pro Schiaffino, dal titolo “Quando il mare racconta in prima persona” Pro Schiaffino, ex comandante del cargo
<La Nostra>, ora pensionato, si diletta a riportare le sue e le esperienze di amici marittimi, su tanti libri interessanti. Il passo è questo: <Il comandante era molto preoccupato per quella novantina di uomini che erano stati imbarcati come passeggeri, pensando che il viaggio poteva essere lungo e sapeva che a bordo uno dei più grandi pericoli per la gente è quello di non aver nulla da fare e che è difficile far passare le lunghe giornate e dormire tutta la notte quando non si è fisicamente stanchi>
Il leggero rollio. Lo sciabordio. Il lento ronfare delle macchine. Il ticchettio di una catena in bando. Il sinistro cigolio delle lamiere. Sono rumori che a bordo o ti tengono sveglio tutta la notte sino a quando non ti rendi conto di averci fatto l’abitudine e crolli sotto il peso delle palpebre oppure riesci a pensare a cose che dovresti fare al momento dello sbarco così che il sonno ti prenda nelle sue spire.
In ospedale (dove ho passato 35 giorni compreso Natale e Capodanno) i rumori sono diversi: il lamento del vicino che soffre le pene dell’inferno; il russare di un altro: le sveglie notturne e mattutine per i prelievi, le temperature, i cambi di flebo, la prima colazione. La notte hai tempo di pensare mentre di giorno cerchi il recupero a tutti i costi.
In quei momenti il mio pensiero andava molto spesso a Comunicaffè e vagavo alla ricerca di argomenti da proporre al mio rientro alla vita normale. Ne ho individuati due che spero abbiano buon successo e seguito.
Quando in ospedale dicono <dieta idrica> (da me ribattezzata dieta idraulica!) vuol dire che non hai diritto a nulla se non ad acqua minerale naturale e un liquido che va dallo scuro al chiaro (dipende dal preparatore) battezzato tè. Per riuscire a variare questa dieta si cerca di integrarla privatamente con bevande che abbiano una diversa presenza ma che non si discostino troppo dal tran tran ospedaliero.
Ed è qui che mi è scattata la molla del primo intervento.
Nella bottiglietta di plastica trasparentissima, alberga un liquido di un giallo paglierino che se non fosse una bevanda sigillata potresti confonderla. L’etichetta riporta una rondinella che svolazza sopra la dicitura THE.
La composizione del liquido lascia molto a desiderare. Non ha nulla a che vedere con quanto descritto.
Neppure il limone (che dovrebbe farsi sentire con la sua acidità) viene localizzato. E’ molto dolce….. dolce attira dolce e penso sia nella mente dei produttori far si che di intruglio se ne faccia grande uso.
Ma quello che mi ha reso la bevande più intollerante è quel THE che ha così declassato un delizioso break ad un articolo.
Ma cosa avevano in testa i pubblicitari, i grafici e i proprietari quando decisero di usare l’articolo invece del semplice TE’ oppure TEA? Secondo me pensavano di prendere per i fondelli i consumatori. Ed ora però abbiamo una varietà di traduzioni da sfruttare: IL, LO, LA, LE, I, GLI….. che bello essere liberi di scelta!
Ma ancor meglio sarebbe presentarsi a Londra in un drugstore e al “Do you like?” rispondere “The the” oppure “A the” – “One the” Che cosa possono capire poveri incoscienti londinesi! Noi veniamo dall’Italia e nel Bel Paese il tea lo chiamiamo the. Cosa c’è di male?
Ma possibile che da noi si riesca a deviare su cose così banali?
Al rientro leggo i Comunicaffè che attendevano di essere catalogate e mi trovo che pure qui l’inglesissimo TEA diventa THE. Ma allora sono io che non capisco niente?
Il secondo intervento lo recupero alla radio. La radio con cuffia, è il passatempo sia notturno (quando non riesci a prender sonno) che diurno quando vuoi estraniarti dal vocio dei visitatori. Ascolti musica. Lo sport.
Le conferenze. Tutto è buono per renderti <invisibile>. Naturalmente gli interventi pubblicitari potrebbero essere un deterrente e infastidire ma ce ne sono così tanti che è inutile cambiar canale o stazione. I pannolini, l’acqua minerale, i telefonini, i purganti ti martellano ovunque. Tanto vale seguire ciò che interessa e far finta di nulla sulla pubblicità.
Una di queste però ha attratto la mia attenzione perché mi ha riportato indietro di tanti anni: la pubblicità sul TOM-TOM.
Negli anni 60 ed oltre chi comandava in Haiti era un despota nominato <papà Doc>. Quale negriero e padrone assoluto della vita dei suoi sudditi, per la sua difesa personale ebbe a costituire una sua polizia privata che veniva chiamata <TOM-TOM-MACUT> (non so se la scrittura è giusta………. l’importanza è la giusta pronuncia).
A Port-au-Prince esisteva allora un rione, posto su un’altura (devo riferire quanto mi dicevano allora poiché ad Haiti mai ci misi piede), dove i big costruivano le proprie abitazioni che per raggiungerle costringevano il transito su una strada privata. I brutti ceffi dei <tomtommacut> si piazzavano all’inizio di detta rue e <convincevano> tutti i passanti ad un esborso in dollari USA (non quantificabile).
Il mancato pagamento….non era concesso.
Erano i tempi d’oro del caffè Haiti. Chi visse ai tempi e usò questo caffè ricorderà quale importanza dava alle miscele. Veniva classificato con le <ics> (e non stars come qualche buontempone si divertiva ad imbrogliare le carte) XX – XXX – XXXXX quindi due,tre,cinque ics. Il XXXXX non era bello a vedersi: colori vari si mescolavano dando l’impressione che in tostatura l’arlecchinata era garantita.
Invece era quasi omogeneo. Di questo tipo il chicco risultava schiacciato e spaccato, caratteristica dovuta all’operazione di decorticazione che avveniva nell’aia sotto gli zoccoli dei muli. Ogni famiglia aveva quelle poche piante che davano loro da sopravvivere e di macchinari non ne esistevano quindi lavoro animale e manuale.
Gli esportatori che acquistavano da queste famiglie, poi provvedevano alla selezione e marcatura secondo crivello.
Il XXX era quello più regolare nel colore mentre il XX poco usato nelle miscele per un crivello al di sotto dello standard richiesto dai consumatori finali, veniva dirottato sui macinati.
Allora i nomi di Reimbold, Madsen, Usman (acronimo di Usine-à-manteque =
Fabbrica di burro), Vital, Wiener (fu l’ultimo a <mollare il mazzo> e inviare sul mercato italiano, pochi anni or sono, qualità che lasciavano molto a desiderare ma che andarono comunque a ruba per il solo desiderio di inserire ancora una volta l’Haiti naturale nelle miscele….. dei risultati non ne ho avuto notizia), Novella, Baptiste, Bombace imperavano sul mercato sia con gli standard che con specialità tipo ROLLA, REIWA, DONDON, KOMET ecc. Che bei caffè! Dove siete finiti?
Perché non tornate a deliziarci? Che fine hanno fatto gli Esportatori?
Hanno disertato e fuggiti dalle angherie del figlio di papà Doc?
Rammento che Haiti era l’unico Paese che produceva le grane <bluish> naturali. Venivano selezionate ed esportate sotto marche diverse a secondo del proponente. Sembravano ambra blue trasparente. Fantastiche. Data la produzione limitata il costo era adeguato ma la resa ne motivava il prezzo superiore.
Anche se di produzione di gran lunga inferiore ai bluish, si poteva trovare qualche lotto di <BB CRUSHED>……
Altra specialità. Erano tutti chicchi uguali di crivello. Color paglierino e spaccati ai vertici. Delizia del palato!
Che sogni! Oramai anche in questa parte dell’Hispa?ola il caffè viene coltivato con più interesse che una volta.
Un solo esportatore provvede a raccogliere in cooperativa ed inviare sui mercati che hanno avuto l’intuito di proporsi quali esclusivisti. L’Italia, per il momento, è tagliata fuori. D’altra parte le nuove coltivazioni non so se possono sostituire i vecchi standard.
La realtà è che, secondo un mio personale giudizio, il torrefattore Italiano necessiterebbe, per le miscele bar, di caffè naturali. Allora, oltre all’Haiti, si poteva correre ai ripari con l’Ecuador, con l’India, con l’Ethiopia El Salvador e principalmente con il Brasile che ancora non aveva <inventato> i descascados ed i lavados. Mancando l’Haiti i sostituti Ecuador ed India sono praticamente imbevibili.
El Salvador ha perso quelle piante autoctone (chiamate “arabiga”) che davano i frutti giusti per la preparazione del miglior naturale del mondo. L’Ethiopia è orientata sui lavati lasciando la bandiera del naturale al Djimmah 5 che non tutti riescono ad inserire in miscela avendo un retrogusto selvatico che può dare molto fastidio. Oggi tutti si orientano sui lavati perché il maggior consumatore al mondo (USA) richiede i lavati ed anche perché, secondo quanto ci dicono, la preparazione di un naturale è più costosa di un lavato. Crediamoci!
Secondo me i produttori non hanno la volontà di applicarsi a produrre il naturale. Abbiamo provato a dare istruzioni (da veri incompetenti!) per ottenere il meglio. Purtroppo i nostri <insegnamenti> sono andati elusi e i risultati pessimi!
Non ci resta che insistere sperando di trovare la controparte interessata ad un nuovo mercato che vedo in positivo per tutti.
IL PUNTASPILLI – SCRIVE SERGIO MORANDO
Approfondiamo l’articolo sul caffè del Magazine del Corriere
“Ma se il caffè non è buono nessuna tecnica può migliorarlo”
Il servizio sul caffè uscito sul Magazine del Corriere della Sera mi ha suggerito altre considerazioni.
Perché ad una più attenta lettura ho trovato anche una ricetta su come preparare un caffè sia con la moka sia con la macchina espresso.
Non mi addentro nelle macchine espresso perché non sono sufficientemente ferrato, ma posso intervenire sulla moka perché la uso tutti i giorni.
E’ vero che ognuno di noi ha le proprie fisime in fatto di preparazione del caffè con la moka.
Sara Galdolfi riporta la teoria di togliere la macchinetta dal fuoco prima che gorgogli così da eliminare la coda, cioè la parte cattiva del caffè. Un amico torrefattore mi ha invece convinto di abbassare la fiamma non appena inizia l’uscita del liquido. Un altro consumatore mi dice che non succede nulla di strano se la moka resta sul fuoco iniziale sino alla fine mescolando con un cucchiaino il liquido ancora nella moka.
Sono tutte teorie buone per chi deve bere il caffè.
Non si dicono invece due cose essenziali che si devono sapere e cioè: se si usa del buon caffè sempre buono sarà, un caffè cattivo sarà cattivo sia con una sia con l’altra teoria. Comunque per avvicinarsi all’ottimizzazione basterà acquistare caffè in grani e macinarlo al momento.
La freschezza innanzi tutto.
C’è anche la conservazione della moka. Sul Corriere si consiglia di lavare ogni volta che si usa la moka magari usando un detergente. Secondo me si è dimenticata un neutro che vale tutte le teorie del mondo. E non è detto che un detergente neutro sia così neutro da non lasciar tracce. Sono dell’opinione di sciacquare e basta e se una moka viene usata saltuariamente è bene, prima di preparare un caffè bevibile, buttarne una prima estrazione. Se poi questa saltuarietà è a scadenza giornaliera, lasciare la moka intatta con il filtro colmo di palta di caffè e lavarla al momento dell’uso.
Lasciare la moka vuota pochi giorni vuol dire bere il successivo caffè al gusto metallico anche se il prodotto macinato fresco è di ottima qualità.
Il perché della macinatura al momento dell’uso è semplicissimo: primo si sa quello che si andrà a degustare. Comprare caffè macinato non si sa assolutamente cosa il torrefattore ha macinato. Vero è che il macinato tiene meglio il sacchetto in vacuum e che il sottovuoto del caffè in grani non è una bella vista ma è anche vero che il profumo del caffè acquistato macinato perde sensibilmente questo pregio in poco tempo mentre macinare al momento i grani il profumo che emana è già un ottimo approccio alla beva.
D’altra parte il barista insegna: per un buon espresso (sempre di buon caffè) il macinadosatore è il compagno ideale per servirlo.
Un altro consiglio che si può dare è quello di non acquistare grandi quantità di caffè la volta. La freschezza del prodotto si misura anche con il quantitativo che si porta a casa. Se non si ha il macinino e si acquista direttamente in torrefazione del macinato, lo si può conservare nel freezer e prelevarlo di volta in volta. Il caffè perde in aroma ma almeno non rancidisce. Non mettere in freezer il caffè in grani perché sarebbero troppo duri da macinare in un secondo tempo.
Alla prossima.
Sto iniziando il mio viaggio intorno al mondo con Puntaspilli periodici e spero di farVi passare qualche minuto di relax in questi periodi di stress.
Chiudo tornando sul numero di chicchi di caffè contenuti in un sacco da 60 kg: sono circa 462.000 e possono variare anche secondo il crivello. Se invece del flat bean si pesasse il peaberry o caracolito di migliaia dovrebbero essercene di più come di più ci saranno di crivello inferiore al 17/18.
IL PUNTASPILLI – Scrive Sergio Morando
Terremoti
Un plauso all’amico Antonio Quarta per l’invio di caffè tostato ai terremotati abruzzesi. Spero solo che altri torrefattori abbiano portato la stessa umana solidarietà.
Altrettanto all’amico Antonello Monardo (torrefattore a Brasilia – Brasile) che, unitamente ai suoi amici della Escola parlando Italiano e Escola De Gastronomia
De Brasilia (che comprendono il Ristorante Villa Borghese, la Pizzeria Don Giovanni, Sandro Melaranci by Bellini, Lagar per l’olio d’oliva e Mistral Importatore di prodotti Italiani tutti ubicati in Brasilia) devolverà l’incasso della fiera che si è tenuta il 13 scorso su un conto corrente indicato dalla Ambasciata Italiana in Brasile.
La corsa di solidarietà si estende a macchia d’olio e gli aiuti si spera vengano destinati ai bisognosi che sono qualche decina di migliaia. Povera gente!
Gli aiuti, come ripetutamente denunciato dalle televisioni nazionali e private, siano destinati esclusivamente sui conti correnti ed indirizzi reclamizzati ufficialmente e che non si caschi nei tranelli che personacce di pochi scrupoli affiancati dai non meno malefici sciacalli, invitano a distrarre l’aiuto su conti fasulli al solo scopo di impadronirsi di collette defraudando così le iniziative regolari.
Altro terremoto (di diverse entità ma di proporzioni forse eguali a quello abruzzese) sono le drastiche regole che il Governo Ethiope ha emesso sul presente e futuro mercato internazionale del caffè colà prodotto. Chi vivrà vedrà!
Si aspettano notizie più complete.
Dalla lettera del Ministro Consigliere dall’Ambasciata Etiope a Roma Sig. Abebe Kelemu, non si spiega bene se l’esporto avverrà sempre tramite i soliti canali oppure, dato che invita a contatti diretti per chi desidera operare con quel Paese, si deve o si può contattare direttamente l’Ente preposto alla lavorazione e vendita del caffè bypassando gli Esportatori.
In questi giorni ho avuto occasione di provare un campione di Sidamo ma che non so se sia della “vecchia edizione” oppure esportato già con le nuove norme.
Il risultato in tazza ha comunque dato un mio esito positivo ma se devo dare un consiglio direi che se si dedicasse maggior impulso alla presentazione non sarebbe disdicevole provvedere ad una crivellatura, magari offrendo due prodotti per la stessa qualità: un crivello maggiore ed uno inferiore praticando naturalmente due prezzi. Il campione del lotto da me provato era più un prodotto per gli Americani e non un E.P. (European Preparation).
Un altro terremoto potrei farlo scoppiare io con una notizia che sembrerebbe insulsa ma che può dare buoni risultati.
Non ricordo se visto in TV o letto su qualche giornale che i produttori di latte si lamentano perché le mucche stanno dando minor quantità di prodotto che non in periodi passati.
Un prodotto naturale che potrebbe dare risultati soddisfacenti l’hanno i nostri torrefattori. E’ un prodotto che ha sempre dato piuttosto fastidio perché molto voluminoso e di infimo peso e di difficile confezione. Trattasi delle pellicola del caffè torrefatto. Racconto due episodi accaduti anni ed anni addietro.
Il primo, che poi fu la base per il secondo, mi fu suggerito da un commerciante di caffè crudo che possedeva anche una piccola torrefazione oltre che una bellissima cascina con relativo allevamento di bovini nel cremasco. Pure a lui infastidiva quella pellicola svolazzante e con nessun interesse alimentare. Un giorno provò a riempire un paio di sacchi di pellicola distribuendoli poi nelle mangiatoie. Si accorse che le mucche davano più latte del normale.
Stando a quanto mi fu raccontato ne informai un allevatore nei pressi di Varese dove, con mio figlio in fasce, ci rintanammo per l’agosto sperando nel fresco della campagna (illusione!). Sto scrivendo di 49 anni or sono. Mi procurai mezzo sacco di pellicole e lo consegnai all’allevatore che le diede da mangiare ad un solo bovino.
Con la famiglia restai nel varesotto per due mesi e per un periodo non troppo breve fui continuamente assillato dall’allevatore perché voleva assolutamente altra pellicola da distribuire in tutta la stalla. Eravamo in periodo di ferie e le torrefazioni erano chiuse.
Fortunatamente le ferie finirono e rientrammo a Milano ma l’allevatore non si arrese. Aveva il mio numero del telefono (purtroppo!).
Come ho enunciato poc’anzi il grosso problema è quello di compattare la pellicole perché in un sacco che normalmente contiene 60 kili di caffè crudo, ce ne staranno più o meno due di pellicola tostata e quindi il volume è enorme e il costo del trasporto rischierebbe il fallimento dell’allevatore.
Un’azienda di tostatrici tedesca produce una macchina compattatrice di pellicola.
L’ho vista funzionare in Svizzera. Ne escono dei tubercoli di qualche decina di grammi che fanno al caso trasporto senza grandi esborsi e pericoli. Purtroppo la macchina costa e non so se ne vale la candela. Provar non nuoce.
Se avete qualche vicino o siete proprietari di bovini e desiderate eliminare il fastidio della pellicola, provate. Agli animali non fa assolutamente male.
Non conosco la percentuale da mischiare al mangime normale. Sono le prove a dare l’esito giusto.
A me non dovete nulla. Se ho dato una mano a risolvere qualche problema, ne sarò contento ma chiedo solo che l’esperimento che andreste a fare mi venga riferito così d’avere conferma di una possibilità di utilizzo e di eventuale riuscita.