di Antonio Pascale*
Eh, i bei tempi! Quando non c’era la Xylella, e i ricercatori non erano accusati da vispi magistrati all’arrembaggio di inquinamento ambientale.
Ma appunto, una volta, in assenza di scienziati e multinazionali, le piante erano colpite da malattie? Se sì, allora la domanda è: chi le diffondeva? Ci sono state, in fondo tante malattie delle piante che hanno segnato la storia dell’uomo (per citare un bel libro di Giuseppe Belli, edizioni Altravista), bisognerebbe fare un riassunto.
Per esempio, i viali di Roma, Milano, Firenze soprattutto. Fino a poco tempo fa si potevano ancora notare platani di trenta metri con foglie ingiallite e intere brache morte. Cancro colorato dei platani, un antipatico fungo, un ascomicete.
La malattia ha cominciato a diffondersi nei primi anni 70 in Spagna, Francia e Italia. Prima di allora non c’era traccia in Europa. Negli Stati Uniti invece era stata studiata fin dal 1925. E come ci è arrivata in Europa? Probabilmente tutto è partito – almeno per l’Italia – dalla mia città natale: Caserta. Fonte di contagio?
“Altro che Xylella, il patogeno è il protagonismo giudiziario” La caccia giudiziaria agli untori della Xylella fa parlare di sé all’estero Xylella, Italia Casse di legno di Platano (contenenti armi e munizioni) infette. Provenienza americana. La Reggia di Caserta ospitò in tempo di guerra il quartier generale delle Forze armate. Negli anni 50 nel magnifico viale alberato che porta alla Reggia di Caserta, c’erano già platani malati, pian piano la malattia ha cominciato a diffondersi in Italia.
E il cancro del cipresso invece? Quei cipressi che a Bólgheri alti e schietti sono stati fortemente danneggiati dal fungo? Anche qui, la malattia è stata segnalata una prima volta in California (1928), poi in Nuova Zelanda (1944), in Francia e in Italia (1951), precisamente a Firenze su alcuni giovani esemplari di cipresso nel parco delle Cassine.
Forse furono importati dalla Francia esemplari infetti in forma latente dal patogeno. E la grafiosi che ha determinato la scomparsa dei nostri olmi? In Italia arrivò (a Modena) nel 1929 e da lì si estese a tutta la Pianura Padana. In Francia la malattia fu osservata nel 1917, poi nel 1919 in Olanda. Nel giro di vent’anni (1920/1940), la malattia si estese in Europa e nell’America settentrionale. Seguì un periodo di stasi e poi di nuovo l’ondata epidemica: andò perduta la quasi totalità degli olmi europei.
E’ utile, poi, sfatare questo mito degli inglesi e il tè. Quelli uscivano pazzi per il caffè, nel Settecento a Londra andavano di moda le coffee houses. Poi in Kenya da una pianta di caffè selvatica partì (o fu osservata) una fitopatia, la ruggine del caffè.
Da qui, fini in Ceylon. Il governo inglese sottovalutò il problema e fu un disastro, tutte le piantagioni di caffè a Ceylon e in India meridionale furono fatte fuori dalla ruggine. A fine Ottocento gli inglesi passarono dal caffè al tè.
Per citare infine un caso personale, il momento più triste nella mia quasi trentennale carriera (sono ispettore al Mipaf e mi occupo di stimare le calamità naturali, una specie di agrimensore) l’ho provato davanti a vigneti piemontesi, distrutti dalla flavescenza dorata, causata da un fitoplasma. Un disastro.
Come mai? Il fitoplasma è diffuso da una cicalina. Questo insetto era esploso e con esso il contagio. Perché? Perché molti praticavano la lotta biologica, invece degli insetticidi di sintesi (che in posologie sbagliate qualche danno l’hanno causato) usavano insetticidi naturali, bio, considerati antichi perciò meno invasivi. Come il rame.
Il rame combatte i funghi, ma niente faceva contro le cicaline-vettore. Si dovette preparare un decreto ad hoc e quasi imporre agli agricoltori bio di far uso di insetticidi specifici (moderni di sintesi e meno invasivi) per abbattere la carica delle cicaline. Che volete farci, la terra è piatta, le malattie si diffondono.
Ci sono due modi per reagire: tornare indietro, come nel caso della Xylella, o andare avanti, trovare rimedi razionali, sostenibili e sensati. Bisogna studiare e tanto, provare, e poi verificare con metodo sul campo i risultati. Ah, si chiama scienza, con un po’ di impegno la possiamo praticare tutti.