MILANO – Come la vedete la globalizzazione, in particolare quella riguardante il campo gastronomico? È una sicurezza quando si viaggia all’estero o quando gli altri ristoranti sono chiusi per via dell’orario, o male assoluto che uccide le tradizioni locali e i le piccole imprese? Di questo parla La piramide del caffè.
L’intreccio principale è molto semplice: il ragazzo ungherese Imi è stato abbandonato dalla madre quando era ancora in fasce e ha quindi sempre vissuto in un orfanotrofio, ma ha sempre sognato di raggiungere e vivere a Londra. Riesce nel suo intento dopo un autentico viaggio della speranza in treno, da Landor, stazione alla fine dell’Ungheria ma all’inizio del resto d’Europa.
Riesce a trovare lavoro in una grande catena di caffetterie, la Proper Coffee, impresa sì fittizia, ma che ammicca palesemente a caffetterie in franchising che tutti noi conosciamo e in cui ci siamo fermati almeno una volta.
Al protagonista viene consegnato un piccolo manuale di istruzioni che detta le linee guida a cui attenersi all’interno della caffetteria, manuale che lui non vede l’ora di imparare per poi mettere in pratica i consigli in esso contenuti.
È proprio in questo libretto d’istruzioni del perfetto dipendente della Proper Coffee che intuiamo il significato del titolo del romanzo: la gerarchia della caffetteria è infatti piramidale, simpaticamente da Imi ribattezzata ‘di stampo faraonico’.
Dopo aver fatto un’ottima impressione dopo il colloquio di assunzione e durante il periodo di prova, la sua carriera decolla molto velocemente, passando dallo stare nelle cucine a lavare i piatti a stare dietro il bancone a preparare caffè e cappuccini.
Non per sempre però le cose andranno bene: i supervisori di Imi, Andrew e Victoria, seguono il ‘manuale del caffè’ alla lettera e con troppa riverenza, manco fosse un testo sacro, e questo porta a delle situazioni paradossali, in cui la troppo complicata quotidianità è naturale che non possa essere prevista nella sua totalità da nessun manuale o prontuario all’uso.
Ad Imi, che è un ragazzo semplice e puro, contraddistinto da buonafede e voglia di lavorare, tutto ciò sembra assurdo, e gli pare di perdere tempo davanti a delle inezie quali l’impossibilità di vendere una fetta di torta rottasi durante il trasporto o il preparare il cappuccino con modalità differenti –ma qualitativamente migliori- da quelle previste.
C’è una vera e propria crescita del personaggio, il quale perde l’iniziale ingenuità riguardo la magnificenza di Londra e la bontà della catena di caffetteria per la quale lavora, sempre affiancato e sostenuto dai suoi amici Morgan, libraio iraniano, Lynne, spensierata padrona di casa, e Jordi, suo cinico collega spagnolo.
Per fortuna che il prezzo di un libro non è dato (esclusivamente) dalla lunghezza del testo. Infatti quello di Lecca è un libretto breve, semplice, che si legge in pochi giorni, ma profondo.
La descrizione delle situazioni in orfanotrofio è davvero sublime, e si capisce come Lecca abbia potuto cogliere e descrivere questo luogo dell’anima proprio grazie ad una sua confessione nelle ultime pagine, riportata sotto la rubrica ‘Per amor di verità’:
“Nell’estate del 2005 sono capitato per caso in un orfanotrofio. In quel luogo che appariva povero e triste, ho trovato nascosta una straordinaria abbondanza di gioia.
Da allora ci sono tornato spesso, trascorrendovi circa cinquecento giorni: l’ho fatto perché mi sono reso conto che lì si trovava nascosto il segreto della felicità. E io volevo scoprirlo.”
La piramide del caffè è una favola moderna, molto delicata, quasi impalpabile. Un’opera che arricchisce il lettore senza neanche farsene accorgere, con grazia e premura.