MILANO – Continua ininterrotta la polemica che vede al centro della questione la Reserve roastery aperta da Starbucks in Piazza Cordusio, lo scorso sette settembre. Tra i curiosi, i critici e gli scettici aperti per esser smentiti, questa apertura al colosso americano non è passata certo inosservata. Sulle pagine di diversi giornali, si gioca la partita delle opinioni attorno alla domanda più assillante di tutte: la catena è una possibilità oppure una minaccia per il mercato italiano?
Non ultimo Il Foglio, sembra non aver gradito la piega autarchica sul caffè. Queste le parole piuttosto inequivocabili. “Ve lo immaginate Almirante che discute di tostatura e colonialismo?“. Anche se forse l’interrogativo giusto sarebbe stato un altro: ma Almirante si sarebbe messo in fila all’alba per gustarsi il caffè di Starbucks?
Il Foglio dà in pasto al pubblico la roastery
Ancora su questo giornale, Maurizio Gasparri rievoca i tempi in cui nel Fronte della gioventù missino non si beveva Coca Cola. Respingendo con le bollicine Usa l’imperialismo a stelle e strisce. Negli anni Ottanta quello stesso FdG organizzava lanci di uova contro i McDonald’s che aprivano i battenti nei centri storici delle città d’arte.
Il Fronte giovanile, no global
Lo stesso che trovava indecente che si vendesse junk food a Trinità dei Monti o in piazza della Signoria. Un fremito anticonsumista, più che patriottico, che durò un batter di ciglia. Perché ci pensò il ciclone Berlusconi con le sue tre “i” (inglese, impresa, informatica) a colonizzare la destra che gridava “Americani a casa, cosacchi nella steppa; Europa nazione, nazione sarà”.
La politologa Sofia Ventura trova che oggi Salvini indichi in Starbucks, nel caffè di una multinazionale, il nuovo nemico
Contro cui si scaglieranno “masse di followers pronti a dare mazzate”. In verità tanto la Lega quanto la destra di provenienza missina facevano del made in Italy, della difesa delle tradizioni locali e del vanto dell’Italia dei mille campanili una bandiera fin dagli anni Novanta.
Sulla scia non di Salvini, ma degli editoriali di Giano Accame sui marchi storici italiani caduti in mano alle multinazionali. Era un’anima della destra che si nutriva degli scritti del padre del comunitarismo Ferdinand Tönnies o delle pagine di Alain de Benoist sul patriottismo identitario.
Ciò per dire che non si trattava certo solo di bere aranciata al posto della Coca Cola o di preferire caffè italiano al caffè americano. Ma che esisteva qualcosa di più profondo e importante di una bevanda che si riteneva culturalmente in gioco. Tra l’altro, le bevande e il cibo non vanno mai sottovalutati. Piero Camporesi insegna, e con lui tanti altri storici delle “cose minute”, che le grandi rivoluzioni culturali cominciano sempre a tavola.
Tornando all’oggi
Piuttosto che indagare sui caffè preferiti dalla destra, è interessante notare come la sinistra no logo si sia convertita all’ineluttabilità della globalizzazione. Ritenendosi un’élite anche quando sceglie l’espresso da bere.
E’ infatti anche una questione di prezzo: Starbucks lo vende a 1,80, un bar normale – diremmo un bar populista – a 1 euro, massimo 1,20 euro. “Oggi i consumatori di sinistra – leggiamo su Rivista Studio – hanno fatto pace con i grandi brand. Mentre Starbucks annuncia che assumerà 10 mila rifugiati e pianta le palme che mandano i leghisti su tutte le furie”.
Il nuovo logo del gusto globalizzato non può essere più McDonald’s
Destinato ad essere travolto dall’ondata salutista – ma una caffetteria – che rievoca peraltro i fasti della Milano illuminista di Verri e Beccaria – può funzionare benissimo.
In mezzo a questa guerra postideologica ci stanno quelli che si mettono in fila alle 4,30 del mattino per gustarsi il caffè di Starbucks. E non certo perché amano il caffè americano ma per avere l’impressione/sensazione di vivere qualcosa di esclusivo e unico. Starbucks non è ancora infatti un marchio che colonizza, è un’attrazione. E come tale il pubblico l’ha vissuta.