mercoledì 30 Ottobre 2024

Il digital strategist Zecchi spiega perché «Il successo di Starbucks non c’entra con il caffè»

Un articolo-intervista di Viola Stefanello per TPI www.tpi.it mette bene a fuoco quello che i puristi del caffè italiano non hanno voluto capire sul colosso delle caffetterie. E così in molti si sono scagliati contro l'apertura in Italia della catena statunitense. Sbagliando il bersaglio

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MILANO – Vi proponiamo un’opportuno, lungo, articolo-intervista al digital strategist Cosimo Zecchi firmato da Viola Stefanello per TPI www.tpi.it che mette bene a fuoco quello che certi esperti dell’espresso italiano non hanno voluto capire sul colosso delle caffetterie. Stefanello riassume diversi aspetti che già noti, ma sempre da ripassare. Di come, e in molti, si siano scagliati contro l’apertura in Italia della catena statunitense. Sbagliando però il bersaglio.

Ringraziamo il portale di notizie e commenti TPI che ci ha concesso di riprendere l’articolo che è esauriente e, per centi aspetti, definitivo.

CIMBALI M2

Naturalmente se avete opinioni diverse e vi va di farcele avere non aspettate un attimo. L’e-mail per inviare le vostre opinioni è come sempre info@comunicaffe.it

di Viola Stefanello

Il 7 settembre 2018 la catena di caffè statunitense Starbucks ha inaugurato il suo primo locale in Italia dopo aver conquistato mezzo mondo.

Fondata nel 1971, la catena conta 28.720 punti vendita in 78 paesi e soltanto, per il momento, tre “case di torrefazione”, la famose roastery: una negli Stati Uniti, a Seattle, una in Cina, a Shanghai, e una in Italia, a Milano.

Howard Schultz, storico amministratore delegato dell’azienda, ha detto di aver preso ispirazione per Starbucks proprio da un viaggio a Milano, entrando in contatto con la cultura italiana del caffè e la tradizione del bar.

“Arriviamo con umiltà e rispetto nel Paese del caffè. Ho passato la mia vita a studiare questo progetto”, ha affermato il manager all’apertura della nuova roastery di Milano.

L’apertura del primo Starbucks in Italia ha però immancabilmente scatenato le polemiche, tra post ironici sulle persone che hanno fatto due ore di fila per essere tra le prime a mettervi piede e commenti di politici e intellettuali sovranisti, da Matteo Salvini a Diego Fusaro passando per Giorgia Meloni, che rivendicano la superiorità del caffè italiano, appoggiati da migliaia e migliaia di italiani uniti sotto il vessillo del caffè espresso “fatto come si deve”.

A riassumere perfettamente il sentimento di indignazione ci ha pensato la opinionista Selvaggia Luccarelli sul suo profilo: “È come se aprisse un sushi bar a Tokyo, una cheviceria in Perù, una piadineria a Riccione”, ha scritto.

La polemica del Codacons sui prezzi alti

La polemica è stata cavalcata anche dal Codacons, l’associazione per i diritti dei consumatori, che ha presentato un esposto all’Antitrust contro Starbucks per i prezzi troppo cari (Qui il menù e i prezzi dello Starbucks di Milano).

“Un espresso 1,80 euro, 4,50 per un cappuccino. Non sono i prezzi di un bar di lusso in pieno centro storico ma quelli proposti da Starbucks per il suo primo punto vendita italiano, nel cuore di Milano”, ha scritto l’associazione in una nota.

“Si tratta di tariffe fuori mercato che possono rappresentare un danno per gli utenti italiani che vogliono provare l’esperienza di consumare un caffè da Starbucks e devono sottostare a listini decisamente elevati”, ha sottolineato il Codacons.

Tra tutte queste voci concitate e indignate, però, sembra essersi perso un dettaglio per nulla secondario del discorso: Starbucks non ha aperto oltre 25mila store in tutto il mondo perché vende ottimo caffè.

Il suo successo è dovuto certo a una colossale operazione di branding, ma soprattutto al fatto che quello che questa catena offre non è un espresso da bere in fretta al bancone, due minuti di pausa e via. È un’esperienza.

Una classica immagine di una caffetteria Strabucks: computer e cappuccino con tanto di latte art
Una classica immagine di una caffetteria Strabucks: computer e cappuccino con tanto di latte art

TPI ne ha discusso con Cosimo Zecchi, digital strategist tra i primi a spiegare approfonditamente questo concetto fondamentale che sembra essersi perso tra il mare di voci ostinate e contrarie nella prima settimana dall’arrivo di Starbucks in Italia.

Il ruolo strategico dei Millenial

“I millennial sono ben dipinti dalle loro cuffie sulla testa e dal macbook aperto sul tavolino, con un caffè o altro accanto mentre lavorano, studiano, creano. Non c’è nulla da approvare o disapprovare, ma solo prenderne atto. In un portatile, in un cellulare ci può essere racchiuso quella che prima era una biblioteca o un ufficio”, ha scritto Zecchi.

“Su questo si rimodellano gli spazi, le interazioni, le opportunità e le carriere. E anche il caffè. Perché noi il caffè ce lo beviamo veloce al bancone, perché il caffè è questo, frenesia, carica, velocità e gusto. Loro non cercano il caffè. Cercano una bevanda che sia una clessidra, che cadenzi il tempo, che dia un senso al loro occupare quel posto a sedere su una poltroncina o una sedia più cool”.

Lui stesso, che a 37 anni nella categoria di millennial non rientra, spiega che di Starbucks come non-luogo utile è naturale usufruire quando si è fuori dall’Italia per lavoro e si ha bisogno di un posto dove rispondere alle e-mail o fare una chiamata su Skype.

Cosa è stato ignorato nel dibattito recente sull’apertura di Starbucks in Italia?

La questione di Starbucks non riguarda minimamente il caffè, lo dice anche il fondatore. Se uno vuole gustarsi un caffè espresso va in un altro bar.

Starbucks, come altre catene, tra cui Costa, è presente in tutto il mondo ed è, prima di tutto, uno spazio che mette a disposizione il wi-fi, ma anche del tempo: sono dei posti dove tu ti prendi la tua bevanda, ti metti a sedere, apri il computer o ti metti al cellulare o con il block notes o parli con qualcuno. E hai tutto il tempo che ti serve a disposizione.

Compri un’esperienza, non il singolo caffè.

Chiaramente se mi voglio gustare un buon espresso non vado da Starbucks, ma se mi devo appoggiare in un posto per fare altro è il posto giusto.”

Qual è la differenza tra l’esperienza Starbucks e quella che si può fare andando al bar dell’angolo per un espresso?

“Io sono un grande frequentatore dei bar dell’angolo: è un’esperienze diretta, veloce, della quotidianità, all’interno dei tuoi giri, del tuo lavoro o del tuo studio. Vai un attimo, stacchi e fai una pausa, prendi il caffè al bancone. È una cosa di passaggio.

Invece, Starbucks ha un suo microcosmo, è un posto dove vai per stare. Hai il tavolino, il wi-fi, il tuo spazio a disposizione: tu vai da Starbucks perché mentre bevi il caffè hai da leggere, devi rispondere a una e-mail o parlare con persone, ma non per scambiare quattro chiacchiere. Dici ‘dove ci troviamo per vederci un attimo e discutere di questo tema?’ e finisci da Starbucks o in un posto analogo.

Ora noi stiamo parlando di Starbucks perché loro sulla brand identity lavorano meglio di altri e quindi hanno un po’ ‘colonizzato’ quella tipologia di locale, ma banalmente quando sei fuori e hai bisogno di un posto dove appoggiarti e sei lontano dai tuoi spazi, nei tuoi dintorni, ti viene istintivo di appoggiarti in un posto del genere.

Significa che una loro funzione, al di fuori del singolo caffè, ce l’hanno.

Certo, poi è anche una questione di brand: il fatto di avere il bicchiere riconoscibile che ti porti in giro diventa un po’ uno status symbol, ma queste sono cose secondarie rispetto al motivo per cui Starbucks e compagnie simili si sono affermate. È una questione generazionale.

Cosa indigna così tanto i puristi del baretto italiano?

“Il problema è che non hanno capito minimamente che cos’è Starbucks.

Per loro Starbucks è un posto che vende caffè e il caffè di Starbucks non sarà mai come quello del baretto. Ma è tutto da vedere, perché dipende dal bar in cui vai: alcuni bar italiani sono maestri dell’espresso, mentre altri te lo servono bruciato e imbevibile.

Il fatto che ci sia una catena straniera che apre in Italia non lo accettano. È una questione molto provinciale.

Porsi una questione di questo tipo vuol dire non rendersi conto di cosa: Starbucks non vince perché vende il caffè, perché il caffè lo vendono tutti. È tutta un’altra cosa.

I puristi del baretto hanno paura che, un giorno, al posto di tutti i bar d’Italia, compaiano tanti piccoli Starbucks, ma è impossibile: hanno due funzioni completamente diverse.

Esistono realtà italiane simili che offrono questo genere di spazio? Potrebbe funzionare ovunque?

Sicuramente è una cosa che funziona nelle grandi città, dove c’è traffico di passaggio, dove le persone vengono e hanno bisogno di un appoggio. Oppure dove ci sono tanti fuorisede che non hanno spazi di questo tipo a disposizione, ma ne hanno bisogno.

Nelle piccole realtà non funziona e non attecchirebbe, ma sicuramente a Roma, a Firenze o a Torino avrebbe senso

Posti del genere ci sono, ma sono realtà molto di nicchia. Ci sono locali polivalenti dove ti puoi appoggiare, ma li potremmo definire ‘locali hipster’, che non sono ancora diffusi: ci vai se li conosci, altrimenti non ti vengono in mente.

Starbucks ha questo vantaggio: essendo un brand internazionale, è facile dire ‘troviamo uno Starbucks o qualcosa del genere’. Altri posti non hanno la fortuna di avere la fama del marchio.

È vero anche che c’è la tendenza tutta italiana a dire ‘ok, consuma ma poi non rimanere troppo’. Non voglio dire che sono tutti così, ma c’è la tendenza a pensare che il cliente va bene fin tanto che consuma, e poi tanti saluti. È un approccio che non aiuta chi ha bisogno di un posto del genere.

In Italia abbiamo tante biblioteche e mediateche che in parte funzionano a questo scopo. Ma in biblioteca ci vai per studiare, è difficile che tu ti metta a lavorarci. Ci sono insomma alternative, ma non con la stessa fruibilità di Starbucks.

Perché in Italia questo genere di spazio non lo si è voluto vedere o occupare prima di Starbucks?

È una domanda che dovrebbero porsi gli imprenditori italiani del caffè.

Secondo me è un po’ perché non viaggiamo abbastanza, e quindi non notiamo come cambiano i trend. Partendo dalla politica e passando per il tessuto imprenditoriale, questo ci dovremmo chiedere: perché in Italia, dove abbiamo tutto lo storytelling sul fatto che siamo la patria del caffè, non siamo stati in grado di pensare a una cosa di questo tipo?

È questa la vera domanda verso cui dovrebbe orientarsi il dibattito in questo momento in Italia. Non ‘perché facciamo venire gli stranieri a fare il caffè?’ ma ‘perché non siamo stati in grado noi di elaborare un modello di questo tipo?’.

Credo ci siano molti deficit nel nostro modo di fare impresa, ma anche di interpretare i veri bisogni dei giovani. Si parla sempre di posto fisso e di altre cose bellissime, ma queste cose non fanno parte della realtà di tutti i giorni di tantissimi giovani.

Viola Stefanello

CIMBALI M2

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