Paulo Mazzafera ha 51 anni, e ha trascorso gli ultimi trenta tra laboratori di analisi chimiche e genetiche e sterminati campi di caffè. Il suo obiettivo è ambizioso: riuscire a coltivare una pianta dai chicchi naturalmente decaffeinati.
Se lo raggiungesse, non ci sarebbe più bisogno di sottoporre il caffè a lunghi e complicati processi chimici, che spesso oltre alla caffeina eliminano anche l’aroma.
Quello che insegue il ricercatore dell’Università statale di Campinas, in Brasile, non è solo un sogno scientifico: solo in Italia il giro di affari del decaffeinato è di 75 milioni di euro all’anno, pari al 7 per cento del mercato totale.
Nel mondo questa percentuale sale a 10 e potrebbe essere nettamente più alta se i produttori avessero a disposizione una pianta deka da coltivare e commercializzare senza costi aggiuntivi.
Il caffè contiene più di 2 mila composti chimici, fra cui la caffeina. Eliminarla, senza però incidere sugli altri elementi, non è cosa facile.
Per decenni i produttori ci hanno provato a eliminarla per via chimica: a partire dai primi del Novecento, quando si usava addirittura il benzene, fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui i chicchi vengono trattati ad alta pressione con anidride carbonica e poi immersi in acqua calda per ore prima di essere tostati.
Processi lunghi, dispendiosi e che i puristi del caffè guardano con sospetto: con nessuno di questi processi si riesce a lavare via solo la caffeina, quindi si eliminano anche altre sostanze.
Ecco perché il ricercatore brasiliano ha pensato di provare per via naturale. Esistono infatti alcune varietà di caffè che hanno livelli ridotti della sostanza eccitante, come la Bourbon Low Caffeine, usata per realizzare un particolare caffè a basso tenore di caffeina.
La nostra Bourbon», spiega Furio Suggi Liverani, direttore ricerca, innovazione e qualità di Illycaffè, «è il risultato di un lungo lavoro di selezione cominciato negli anniNovanta, coronato da un successo. Sebbene molto basso, tuttavia il contenuto di caffeina di questa pianta è comunque superiore allo 0,5 per cento, più alto di quello 0,1 per cento che rappresenta il limite massimo da raggiungere per poter vendere un caffè come decaffeinato».
«Trovare una pianta di Coffea arabica con un contenuto così ridotto di caffeina è molto difficile, anche se si tratta di una varietà dal contenuto ridotto rispetto all’altrettanto conosciuta Coffea Robusta», prosegue Suggi Liverani.
Tuttavia, non è impossibile. Lo stesso Mazzafera ci era riuscito nel 2003, insieme a Maria Bernadete Silvarolla dell’Istituto Agronomico di Campinas.
I due ricercatori, dopo quasi vent’anni di lavoro durante i quali avevano analizzato ben 3 mila piante di caffè originarie dell’Etiopia, avevano scoperto una varietà di Coffea arabica che presentava una quantità di caffeina 15 volte inferiore a quelle coltivate per uso commerciale.
Il segreto era un’alterazione genetica che impedisce alla teobromina, una sostanza diuretica blandamente stimolante, di trasformarsi in caffeina.
Purtroppo la coffea individuata dal ricercatore cresceva molto lentamente, il 30 per cento in meno rispetto alle altre piante di Carabica, e aveva una scarsa produttività. Non era quindi adatta a essere coltivata su larga scala.
Il fatto è che la caffeina è una sostanza molto utile alla coffea (e non solo, la adopera anche il limone): per esempio, ha un’attività antipatogena, tiene lontani insetti e parassiti indesiderati.
Una pianta che deve fare a meno di questa sostanza deve supplire alla sua assenza, diventando meno appetibile ai parassiti e quindi producendo sostanze meno apprezzabili sul piano del sapore e dell’aroma.
Inoltre non sempre le piante a basso tenore di caffeina hanno la stessa capacità produttiva delle altre. La Bourbon Low Caffeine, per esempio, non è una pianta molto grande quindi ha una produzione più bassa e una crescita meno vigorosa rispetto ad altre piante.
Ecco perché la ricerca, compresa quella di Mazzafera, si è rivolta negli ultimi anni alla manipolazione genetica. Una strada che si è dimostrata però altrettanto difficile da percorrere. Il ricercatore brasiliano era riuscito a ottenere una pianta quasi priva di caffeina, ma già alla seconda generazione i chicchi avevano perso la caratteristica tanto agognata, e avevano livelli di caffeina nella norma.
«Per eliminare la caffeina in modo stabile», spiega ancora Suggi Liverani, «bisognerebbe modificare numerosi tratti del dna della pianta, un procedimento molto complicato per le tecniche attuali e anche poco conveniente economicamente».
Insomma, almeno per ora l’unico modo di produrre il deka è quello chimico. Meglio quindi concentrare risorse e ricerca per salvaguardare l’aroma e la qualità del caffè. «Per chi produce il caffè, la caffeina è un tratto importante, ma non è certo l’unico di interesse», conclude Suggi Liverani: «Ci sono caratteri come la presenza di antiossidanti naturali o sostanze volatili molto importanti per l’aroma del caffè, la componente che a oggi si è dimostrata la principale per l’apprezzamento del caffè da parte dei clienti». Che il sogno di Mazzafera sia destinato a rimanere tale?ù
fonte: www.espresso.repubblica.it