MILANO – Prendere un caffè con Francesca Lavazza non è solo una questione di gusto. Diventa, invece, una chiacchierata su fotografia e arte perché è lei che ha portato nell’azienda di famiglia un modo diverso di vedere il caffè.
D’altronde la sua biografia parla da sola: è membro del consiglio di amministrazione, è stata la principale artefice del successo del Calendario, ha lavorato alla sponsorizzazione di numerose mostre, ha lanciato il progetto ¡Tierra! con Steve McCurry, è perfino stata nominata membro del board della Fondazione Guggenheim di New York.
Soprattutto Francesca Lavazza è appassionata, quando ti parla sorseggiando uno dei caffè di giornata: «Ne bevo 4 o 5, ma se sono in viaggio anche di più..».
Ma cosa c’è di artistico dentro quella tazzina?
«Tanto, basta guardare dentro. Sentirne l’odore e il sapore per capire che non è solo una bevanda».
E cosa lega il caffè alla fotografia?
«Per esempio il Calendario: spiega perfettamente che stiamo parlando di cultura. Fin dal 1993, quando abbiamo lanciato il primo firmato da Helmut Newton: proprio lui diceva che col caffè aveva un rapporto personale, gli ricordava la sensualità di una donna».
Il caffè per immagini, insomma.
«Abbiamo lasciato sempre massima libertà espressiva. Ad esempio Albert Watson, che ha firmato quello del 1997, vedeva qualcosa di angelico nel bianco della tazzina. Il caffè è una questione soggettiva e noi volevamo regalare ai nostri clienti qualcosa che rispecchiasse un rito quotidiano. All’epoca la fotografia era una cosa di nicchia, in bianco e nero. Dal 2001 abbiamo esplorato il colore per dare colore anche al nostro brand».
Ecco il 2002, allora: il Calendario di David LaChapelle.
«Un altro passo avanti: ha trasformato un oggetto in una campagna internazionale e la conoscenza di Lavazza nel mondo è aumentata in maniera esponenziale. Il caffè è diventato in un prodotto di moda».
Praticamente fashion…
«Sì: ogni anno cambiavamo fotografo e collezione. C’è stata una trasformazione, per così dire, filosofica: anche in Italia, dove il caffè era un prodotto domestico, lo abbiamo portato fuori casa. È diventato una bevanda social da gustare all’aperto e negli uffici. Che trasporta in luoghi lontani. È entrato nel mondo: da lì è partita la seconda fase».
Quale?
«Quella in cui fare cultura con il caffè raccontando le terre esotiche dove viene raccolto e le persone che ci lavorano. È il lavoro della nostra fondazione e del progetto ¡Tierra!, che ha coinvolto 3000 agricoltori in 8 Paesi. Un progetto lungo 14 anni per migliorare le loro condizioni di vita, raccontare la loro cultura e produrre un caffè certificato da Rainforest di altissima qualità. Perché qualità nella sostenibilità era un concetto ancora sconosciuto».
Sostenibilità è pure limitare l’impatto ambientare delle cialde.
«Anche noi, come altre aziende, abbiamo lavorato su quelle compostabili, che ora si possono comprare on line. Le abbiamo lanciate durante Expo e il valore simbolico è enorme: ridare nutrimento alla terra grazie al prodotto che la terra ti ha regalato».
Prossima idea?
«Stiamo per aprire la nuova sede a Torino: ci sarà anche un museo, il centro congressi e due ristoranti nei quali avvieremo collaborazioni con chef famosi. Soprattutto voglio che diventi un hub culturale».
Ultima domanda: lei che caffè beve?
«Non ce n’è solo uno e ognuno di noi ha un gusto che predilige o a cui è abituato. Io sperimento molto e credo che tutti debbano farlo. Se poi il caffè è Lavazza, sappiate che abbiamo più di 350 qualità…».