Dodici negozi, ciascuno guidato da uno “della famiglia”. “Il global di Eataly chi ha stimolati e resi più forti”, parla di Roberto, Ad della catena. E con la crisi hanno assunto 11 persone. Il sogno? “Un modello simile allo stadio della Roma”
di Ilaria Mariotti*
ROMA – Dodici negozi sparsi per la capitale, il primo nato nel 1932, e ognuno guidato da un membro della famiglia: perché così vuole la tradizione Castroni. Una catena di rivenditori di miscele di tè e caffè soprattutto, ma anche di prodotti di importazione introvabili altrove, un tempo per soddisfare le richieste di ambasciate e consolati, oggi anche per la felicità di turisti nostalgici a caccia di sapori di casa propria.
Castroni è un nome che nel food, per la capitale, non avrebbe concorrenti. Se non fosse per quell’Eataly di Ostiense, che però – assicura ad Affari italiani l’ad Roberto Castroni, alla guida del negozio madre di via Cola di Rienzo – “ci ha stimolato e in fin dei conti reso più forti”.
Com’è stato possibile?
“La gente ha pensato che fossimo rivali ma in comune abbiamo al massimo il 5% degli articoli: noi vendiamo soprattutto scatolame mentre loro prodotti freschi e trasformati. È un concetto completamente diverso. E sa cos’è successo? Che chi ci andava pensava di trovare un Castroni in grande, e poi invece è dovuto tornare da noi”.
Insomma nella crisi il gigante di Farinetti vi ha dato una spinta…
“Abbiamo avuto un ritorno non dico enorme ma sostanzioso. E da loro abbiamo imparato come proporci. La competizione sviluppa. E poi Eataly ha il merito di aver messo l’Italia su un piedistallo culinario. All’estero sono in soggezione nei nostri confronti, aspettano sempre il nostro giudizio sul vino e sui piatti. Nelle fiere è palese come l’Italia comandi da questo punto di vista. L’unico aspetto della policy che non condivido è l’apertura di troppi punti vendita, tra cui quello romano, che non credo stia andando troppo bene. Questa non è una città come le altre, qui i gruppi del food sono fortissimi. Bernabei per il vino, tanto per dirne uno”.
E poi ci siete voi. Il calo c’è stato in questi anni?
“Solo nei prodotti di fascia altissima. Allo stesso tempo, per una serie di circostanze contingenti, paradossalmente siamo cresciuti perché nella crisi chi ha le spalle più forti, chi ha storia, chi ha già un mercato consolidato da tempo si è rinforzato, ha potuto investire. I cavalli nascenti invece, quelli degli ultimi cinque o sei anni, non hanno potuto rispettare le previsioni e sono andati in sofferenza”.
Il fatturato cresce, quindi.
“È un dato che non riveliamo, per questioni di sicurezza e perché su questo c’è molta superficialità, ci si fanno strane idee. Per mantenere l’attività ad alti livelli le spese sono immense. Magari fatturi 30 milioni e ne spendi 31, quindi in banca vai sotto. È un momento in cui si soffre, quello che si guadagnava prima non esiste più.
Però c’è la qualità che ripaga sempre.
Noi siamo un punto di riferimento per tutti i romani e per mantenere questo ruolo la pressione è altissima, sentiamo una grande responsabilità. Non si vive affatto di rendita. Puntiamo sempre a migliorarci: dobbiamo soddisfare tutti i tipi di clientela, dalla massaia al turista, e lasciare intatto il rapporto qualità prezzo. Questa è la nostra identità”.
La gestione familiare aiuta in questo senso?
“Lo abbiamo visto nel servizio di Report sul caffè: negli esercizi che vengono affidati con i bandi – magari con dietro amicizie, politica – a chi entra non interessa nient’altro che il profitto. Dove invece c’è gestione familiare il prodotto si cura. Noi ad esempio nel caffè seguiamo tutta la filiera, dalla tostatura alla vendita, abbattendo i costi e offrendo un prodotto di qualità superiore ma a parità di prezzo”.
Avete assunto altro personale?
“Sì, il gruppo come dicevo è cresciuto nel suo complesso, al netto dei problemi dei singoli negozi. Abbiamo assunto undici nuove persone nei negozi più nuovi, sette nel negozio di viale Marconi e quattro in quello di via Frattina. Con la crisi c’è più solidarietà e per noi è una grande soddisfazione che un negozio riesca a spesarsi e a dare lavoro. Poi se rimane qualcosa di profitto, e in genere rimane, quello è per noi. Ma se si è consolidati non cambia molto guadagnare qualcosa di meno”.
Cosa chiederebbe come imprenditore all’amministrazione romana?
“Invece delle lamentele lancio un’idea: una joint venture tra comune e imprenditori, un compromesso in modo che si investa su Roma ma poi ci sia un ritorno diretto. L’esempio è quello del nuovo stadio: le infrastrutture le gestiranno quelli che le costruiscono per rientrare nell’investimento. I soldi non ci sono quindi è inutile chiedere al Comune. Ma non c’è da stupirsi di questa situazione: per quarant’anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e in fondo possiamo considerarci fortunati. In altri tempi le crisi si risolvevano con le guerre. Oggi tutt’al più mettendo mano al portafogli”.